Raggruppiamo qui gli ultimi sviluppi delle avventure sonore di Reed Turchi, che avevamo lasciato nel n. 126 a metà di un immaginario guado, con Can’t Bury Your Past e ritrovato lo scorso anno in coppia con Adriano Viterbini. L’amicizia col chitarrista romano lo ha portato più volte in Italia, l’ultima lo scorso gennaio per alcune date in cui Reed suonava da solo in apertura di serata e tornava poi per qualche pezzo finale, con l’intera band.
Nell’ultimo anno e mezzo ha deciso di chiudere l’esperienza con la vecchia band denominata ‘Turchi’, pubblicando un EP di cinque pezzi, We Spoke In Song, inciso a Richmond, Virginia. Il trio con Cameron Weeks e Andrew Hamlet si muove sui territori rock/blues, cercando di imbastire un suono magmatico e sporco, implementato da un sax in un brano, Honey Butter, non male come anche Endangered Species, un po’ psichedelica. Ma l’impressione è che il confine tra la ricerca del groove e uno scorrere caotico e senza direzione, penda più volte verso il secondo. Non lo aiuta nemmeno la voce che, come abbiamo potuto constatare anche nei concerti italiani, esce piuttosto piatta.
In ogni caso archiviata quella band, Reed ha messo in piedi un altro progetto, assemblando nell’arco di alcuni mesi la formazione The Caterwauls, con Andrew McNeill alla batteria, il chitarrista Joey Fletcher e la cantante e strumentista Heather Moulder. Insieme i quattro spostano ancora le loro sonorità verso un rock/country/soul, tra i riferimenti dichiarati nel suo sito internet ci sono J.J. Cale, Randy Newman (quello meno evidente, forse perché il suo primo strumento è stato il piano?), T Rex, Tinariwen e Bombino, che si debbano queste ultime alla frequentazione con Viterbini che con Bombino ha pure suonato? Fatto sta che nel novembre scorso, registra dal vivo un CD Wailin At The Root Bar, nell’omonimo locale di Ashville, North Carolina, con i nuovi soci.
E’ l’occasione di provare materiale inedito che finirà sul disco in studio oppure di dare veste, almeno in parte differente, alle sue canzoni. La band ha un buon amalgama e l’apporto della Moulder (accreditata oltre al canto anche tastiere e basso) consistente, così come la chitarra slide di Fletcher. Anche non volendo ragionare con definizioni di genere troppo strette, bisogna riconoscere che siamo in un territorio abbastanza lontano dal blues o per meglio dire tangente. Il richiamo più evidente è forse alle atmosfere di un grande artista come J.J. Cale (uno cui tanti sono debitori, consapevolmente o meno), si ascolti la ripresa, onesta, di Call Me The Breeze, ma appunto è un classico che è stato rifatto mille volte, oppure la similare Pass Me Over. Due brani di Turchi, Texas Mist e The More I Think The Less I Seem To Know, impostati come recitativi quasi parlati guadagnano comunque dall’accompagnamento della band, invece che solo dalla chitarra del nostro, come nel recente concerto milanese cui abbiamo assistito. L’ensemble tutto sommato gira e visto che sono insieme da poco, ci sono margini di crescita; per ora tuttavia non sembrano possedere ancora la personalità che li possa distinguere dalle centinaia di band che suonano, bene o male, nello stesso modo nei bar di mezza America.
Va un po’ meglio col nuovo disco in studio, Speaking In Shadows, registrato direttamente su nastro agli Ardent Studios di Memphis, proprio per eliminare il paracadute della tecnologia e fare in modo che ogni take venisse suonata col massimo impegno. Comunque Reed non rinuncia a sperimentare con l’uso di drum machine e di suoni ‘strani’, in pezzi indefinibili come A Course To Stay e Drawn And Quartered, ma l’effetto complessivo lascia però un filo perplessi. Qualche volta il suono è arricchito, con buoni risultati, dall’uso di un sax, Floristella ad esempio con il suo intrecciato riff di chitarra. L’occhio è vigile alla costruzione di sonorità avvolgenti e dal groove peculiare e continuo, in un impasto tra musiche contigue. Ci è piaciuta Pass Me Over come già nel Live, strascicata e pigra nel suo procedere ondivago, più attento nel canto Reed, in duetto con Heather Moulder. E anche Texas Mist ha trovato una forma più compiuta, grazie al buon tappeto sonoro, contraltare alla monotonia del talkin’ del leader.
Chiusura spiazzante con lo strumentale tutto arpeggi di chitarra acustica Views From Angels Landing su cui si innestano gli interventi misurati di chitarra slide (Fletcher?). Turchi è ancora giovane e in fase di maturazione, musicalmente parlando, e il tentativo di fare qualcosa di diverso in grado di dare un’altra impronta alla propria musica è evidente e in sé del tutto legittimo; l’impressione dominante, dopo diversi ascolti è però quella di una proposta ancora a caccia della propria identità. Detto questo chi si aspettava del blues (pur in senso lato), rischia di restare a bocca asciutta, chi invece li conosce solo attraverso questo album, potrebbe restarne comunque incuriosito. Staremo a vedere come evolveranno. (I CD sono tutti editi dalla sua etichetta, Devil Down).
Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 135, 2016