Ricky Skaggs picture

Pensavo che fosse più facile scrivere di Ricky Skaggs: perché non è mai difficile parlare bene di chi è bravo. Ma ho dovuto rivedere già il titolo. Avevo pensato a qualcosa come ‘Bentornato a casa, Ricky’, ma, a parte il fatto che questo giornale si occupa di bluegrass e di country, pensando a cosa abbia fatto Ricky Skaggs negli ultimi quindici anni non si può certo dire che abbia mai lasciato casa. Al massimo, avrà cambiato stanza: nonostante le sue proteste in senso opposto, un piede nel bluegrass ce lo ha, più o meno, sempre tenuto.
Sarebbe poi possibile parlare dell’artista Skaggs senza mai nominare l’uomo Skaggs: ma non sarebbe corretto, e, come vedremo, la personalità del musicista influenza, talvolta pesantemente, le scelte artistiche. È infine molto diffìcile tracciare una biografìa del personaggio, anche se sommaria, senza riempire pagine e pagine di nomi, date, aneddoti.
La sua discografia elenca almeno venticinque titoli a suo nome, ed una quantità esagerata di collaborazioni. Si può tentare un riassunto.

Ricky Skaggs viene al mondo nel 1954, in una piccola località dell’est Kentucky, ‘Brushey Creek, vicino a Cordell’: tanto piccola da non essere segnata sulle carte (intendo, nemmeno Cordell). Oserei dire che me l’aspettavo.
Il piccolo Ricky, figlio di un operaio saldatore, ascoltò i primi gospel dalla voce del padre Hobert, che si accompagnava con la chitarra, e da quella della madre, Dorothy.
Appena fu in grado di farlo, partecipò ai cori della locale comunità Evangelica durante le funzioni religiose. Un inizio così precoce, oltre ad indubbie doti naturali, gli ha poi permesso di sviluppare qualità canore non comuni. Il suo tenor rimane uno dei migliori (e più ricercati) nel giro bluegrass e country, acustico e no.
Intorno ai cinque anni ricevette il suo primo mandolino. L’idea del papa, che portava il regalo tornando da un viaggio di lavoro, era quella di insegnare al piccolo i rudimenti dello strumento: ma, allontanatosi di nuovo per un paio di settimane, al ritorno trovò il bimbo che si stava già dando da fare per conto suo.
A questo periodo risale il primo incontro con Bill Monroe. Lo stesso Skaggs ricorda di essere stato portato ad un concerto dei Blue Grass Boys: e, spinto dai compaesani che volevano a tutti i costi vedere sul palco “il piccolo Ricky”, Monroe fu costretto a farlo salire, scorciò la tracolla del suo F5, glie lo mise al collo (chi di voi farebbe solo guardare la sua D28 ad un bambino?), e, con aria un po’ scocciata, attese che finisse di suonare la sua versione di Ruby.
Non dovette essere, comunque, un episodio isolato, se è vero che a sette anni Ricky Skaggs era in televisione, ospite di Flatt e Scruggs, e, ormai bimbo prodigio, imparò a suonare anche fìddle e chitarra, e più tardi il banjo.
Ad una square dance incontrò per caso Keith Witley (e poi ditemi che l’ambiente non conta), e, in terzetto con il fratello di quest’ultimo, Dwight, nel 1970 aprirono un concerto per Ralph Stanley.
Il (non ancora Dr.) Ralph fu molto impressionato, tanto che ricorda: “… questi due ragazzi suonavano la musica degli Stanley Brothers meglio degli Stanley Brothers”. Li volle nei suoi Clinch Mountain Boys.

Ora, essere il mandolinista titolare di Ralph Stanley può creare qualche problema anche ad un vero uomo: immaginiamo un adolescente di 16 anni. Infatti il giovane resistette alla vita on the road poco più di due anni. Da quel periodo gli rimase, oltre che un’esperienza irripetibile, una moglie, cugina di Ralph Stanley.
Ad un breve tentativo di stare lontano dalla musica seguì la partecipazione ad una serie di gruppi, tutti considerati influenti ed innovativi. Prima i Country Gentlemen; poi, insieme con J.D. Crowe e Tony Rice, nella prima formazione di New South, quella che ci regalò l’album omonimo, il famoso Rounder 0044. E poi, insieme a Jerry Douglas e Terry Baucom, in Boone Creek.
Dopo un paio di album come solista, arrivò una svolta. Lui, veramente, resistette un po’, perché voleva continuare a suonare bluegrass, ma un’offerta di entrare nella Hot Band di Emmylou Harris è del tipo che non si può rifiutare. Gli fu data la possibilità, oltre a tutto, di poter cantare molto, anche se non, ovviamente, come lead. Lo troviamo quindi in album importanti come Blue Kentucky Girl, Light Of The Stable e Roses In The Snow.
La carriera del nostro diventa turbinosa: nel 1980 incide Skaggs And Rice con Tony Rice, subito prima di trasferirsi a Nashville.
Nel 1982 diventa vocalist dell’anno per la CMA, ed il sessantunesimo membro (oltre che il più giovane) della Grand Ole Opry. Poi suona e canta con Elvis Costello, Webb Pierce, Guy Clark, Ray Charles, Jesse Winchester, Johnny Cash, Dolly Parton.
Firma con la Epic Records, e mette la bellezza di diciotto singoli nella top ten, e dodici arrivano al vertice della classifica.
Nel 1987, in coppia con la nuova moglie Sharon White (del gruppo familiare The Whites), sposata nel 1981 dopo un divorzio da quella precedente, viene premiato come Vocal Duo Of The Year, per il duetto Love Can’t Ever Get Better Than This.

In questo periodo Ricky Skaggs guadagna una popolarità (e non solo) che, con il solo bluegrass, non si può nemmeno sognare. È chiaro che il seguito di pubblico, e dei media, nei due settori è così diverso che un flop nelle vendite di un disco country sarebbe considerato un buon successo nell’ambiente bluegrass. E, naturalmente, i soldi che girano sono in proporzione.
Nonostante le difficoltà postegli dalla sua casa discografica, che di bluegrass non voleva sentir parlare, Ricky Skaggs ha sempre mantenuto un profilo il più acustico possibile, quando possibile; e, nei suoi spettacoli dal vivo, ha sempre cercato di introdurre una sezione di bluegrass (spesso aprendola con Uncle Pen): il che deve aver contribuito non poco alla diffusione della musica del Kentucky al di fuori del Kentucky.
A questa brillantissima carriera artistica si sono a volte accompagnati atteggiamenti che non sempre sono piaciuti ai suoi fan, e specialmente ai fan bluegrass. Ad esempio, Ricky Skaggs è bravo, anzi, eccezionalmente bravo. Lo sa perfettamente anche lui: non che faccia esattamente il divo, ma fa chiaramente capire di sapere di essere bravo.
Non sarebbe poi così grave se suonasse pop o rock, o anche un certo tipo di country: ma il pubblico bluegrass è abituato a gente estremamente disponibile, che, scesa dal palco, ha l’atteggiamento del vicino di casa, quando non del vecchio amico.
Una cosa forse ancora più antipatica, specialmente per chi non è un ‘bible busher’ come lui, è la sua tendenza a prediche e predicozzi, dal palco e non dal palco.

Chi scrive sarebbe anche credente (magari non lo dimostra molto): ma ha trovato un po’ eccessivo che, durante la sua apparizione a Gstaad nel 1999, tra conferenza stampa e concerto il nostro abbia ripetuto per cinque o sei volte di “essere cristiano da molto tempo” (e si capiva benissimo che intendeva “buon cristiano”): e, mi dicono, si è moderato rispetto ad altre occasioni.
E lascia un attimo perplessi la sua affermazione tassativa, dettata a Bluegrass Now, che, lui, si addormenta sempre tranquillo: perché, se dovesse morire nel sonno, è sicuro del Paradiso.
Ma lasciamo queste piccolezze, che non influiscono (quasi mai) sulla musica, e giungiamo al 1997, anno della nuova svolta.
Stanco della piega che la musica country sta prendendo a Nashville (le sue parole testuali: “il new country non è più new”, e “se continuassi su quella strada, mi sembrerebbe di prostituirmi”), e, sospetto, dopo aver guadagnato abbastanza sulla Music Row per potersi permettere hobby anche costosi, fonda un’agenzia sua, la Skaggs Family Music, che produce dischi con l’etichetta Celli.
Subito arriva, come un fulmine a del sereno, quel Bluegrass Rules! con i suoi Kentucky Thunder che sbalordisce per potenza, energia, ricchezza e compattezza del suono: ed infatti diventa disco dell’anno per la IBMA, e guadagna anche un Grammy, che non è poco.
La banda è formata da ben sette elementi, di cui ben tre chitarre. Ed oggi è arrivata ad otto, avendo aggiunto un secondo fiddle.

È dai tempi in cui Bill Monroe usava tre violini, o Flatt & Scruggs due chitarre ed un dobro, che non si vedeva un palcoscenico così pieno. Verrebbe da dire un volume di fuoco spaventoso. Essendo coperto da altre due chitarre in funzione esclusivamente ritmica, il chitarrista lead nei Kentucky Thunder gode di una libertà rara, sia negli assoli che, soprattutto, nei backup.
Questo aspetto a prima vista strano (e, penso, costoso da mantenere) offre un altro vantaggio. Ricky Skaggs considera, giustamente, l’aspetto vocale come fondamentale nella musica bluegrass: anzi, primario. Con la sua formazione, tutti i cantanti sono liberi di concentrarsi sul canto, lasciando agli altri il compito di eseguire tutti i possibili backup di questo mondo. E tutti i musicisti ‘puri’ sono liberi di concentrarsi sullo strumento.
Sul disco troviamo alla chitarra lead Brian Sutton, che ora ha lasciato il gruppo, e di cui penso sentiremo parlare molto nei prossimi anni. Sono sbalorditivi i suoi assoli, specialmente quello sul pezzo di apertura, Get Up John. Sembra ad un tratto che abbia finito, che non abbia più niente da dire, ma riparte con una nuova frase, e poi un’altra, senza soluzione dì continuità ed in moto perpetuo, fino ad arrivare ad un finale quasi assordante, fatto di bass run di incredibile potenza. Non so se sul CD abbia improvvisato, ma ho sentito il pezzo dal vivo per due volte, a distanza di poche ore l’una dall’altra, ed è sempre stato eseguito in modo diverso, a parte il finale.
Ma anche gli altri musicisti sono dei signori musicisti. Bobby Hicks: qui ci vorrebbe un libro. Con i Kentucky Thunder ha tutta l’aria del pensionato che se la sta spassando in crociera. In più, viene pagato e gira il mondo per fare qualcosa che, probabilmente, farebbe comunque gratis a casa sua. La sua professionalità è tale da permettergli di sostenere un concerto con la mano destra impastoiata da un apparecchio ortopedico.

Poi, sempre su Bluegrass Rules!, Mare Pruett al banjo. Che è indubbiamente eccellente, ed ha un drive non comune, ma viene presto sostituito da quel Jim Mills, già discepolo di Doyle Lawson e cofondatore dei IIIRD Tyme Out, poi passato ai Bass Mountain Boys, di cui Earl in persona dice “personalmente penso sia un grande banjoista”; tanto che, giustamente, vince il titolo IBMA per il 1999 (scalzando un monumento).
Uno dei due chitarristi ritmici è Dennis Parker, poi sostituito dal piccolo Darrin Vincent, fratello minore (in tutti i sensi) della più famosa Rhonda; e l’altro è Paul Brewster, dal tenor così straordinario e straordinariamente alto da poter stare ‘sopra’ allo stesso Ricky Skaggs senza difficoltà.
Al basso troviamo il giovane Mark Fain, che tiene insieme il tutto già da questo primo album. Partecipa, su tre o quattro pezzi, Stuart Duncan. Il che, diciamolo, non guasta.
L’album, si diceva, è ‘potente’: dallo slogan di apertura, declamato con voce stentorea: “Country rocks, but bluegrass rules” (to rock: essere bello, ganzo, figo, gajardo, togo, mitico, dipende dalla regione in cui abitate – e dall’età che avete; to rule: dettare le regole), cui subito segue Get Up John, fino alla finale Rawhide. Non che manchino i pezzi lenti, come Rank Stranger o The Drunken Driver, in tre quarti. Ma la netta prevalenza del CD è sul veloce, quando non tirato o tiratissimo. Una scossa.

Oltre ai già citati pezzi di Bill Monroe, abbiamo molto degli Stanley: Think Of What You Have Done (“… going back to old Virginia, where the mountains meet the sky”: solo il vecchio Carter poteva scrivere cose così senza diventare stucchevole), la buffa If l Lose, ed una Little Maggie filologicamente corretta (nel senso che è del tutto conforme alla versione incisa dagli Stanley nel 1960, compreso un veloce passaggio I-IV-VI che, in incisioni successive, è stato abbandonato).
Abbiamo poi una Somehow Tonight di Earl Scruggs, ma tutto il materiale è pescato dal repertorio, quando non dalla penna, dei padri fondatori. In effetti, tutto l’album è un omaggio esplicito a costoro. A partire dalla copertina interna del CD, che ritrae, in fotomontaggio, gli Stanley con Flatt, Scruggs e Bill Monroe (che, in un fumetto, pensa “Bluegrass Rules!”).
Fra l’altro, questo CD rende bene perfettamente il suono della band dal vivo.
Dopo pochi mesi, all’inizio del 1999, esce Ancient Tones. Il titolo si riferisce ad un’espressione spesso usata da Bill Monroe per indicare un certo tipo di suono che luì aveva in mente. Se il primo disco lasciava a bocca aperta per il virtuosismo e la potenza, il secondo (che non difetta, intendiamoci, di tali elementi) lascia a bocca aperta per la bellezza dei pezzi e degli arrangiamenti.
A cominciare dalla canzone di apertura, Walls Of Time, co-scritta da Bill Monroe e Peter Rowan, che riesce a parlare della vita e della morte senza essere lacrimosa, fino alla finale Little Bessie, tradizionale, che inizia con la voce scoperta del solo Skaggs, con la banda che entra di colpo sulle parole “All at once a window opened”; su questa Skaggs usa un fraseggio molto strano, penso volutamente arcaico, quasi identico a quello che si può sentire sulle registrazioni della famiglia di Doc Watson.

Non mancano i pezzi,veloci, anche tirati, tipo la strepitosa How Mountain Girls Can Love (in Si bemolle! Carter Stanley la cantava in Sol), i cui assoli di banjo penso abbiano pesato non poco nell’attribuzione dell’award IBMA a Jim Mills o Pig In A Pen (idem).
Ma, in generale, il tono del CD è meno dirompente del precedente. Accanto agli standard citati non mancano pezzi piú oscuri, o meno suonati, presi dalla penna o dal repertorio dei soliti nomi, come Lonesome Night, Mighty Dark To Travel o Carolina Mountain Home, ed anche originali, ma sempre dal suono antico: lo strumentale Connemara, composto da Skaggs, o la high & lonesome Coal Minin’ Man di Jim Mills (sissignore, un banjoista può anche scrivere una canzone lenta e senza banjo). Sul cui finale possiamo anche sentire il rumore prodotto dal famoso martellone da 9 libbre maneggiato (a tempo) dallo stesso Ricky Skaggs.
Non mi dilungo sulla qualità degli arrangiamenti vocali e strumentali e sulla capacità dei musicisti: quando un simile band leader, autorevole e chissà, forse anche autoritario, ha a disposizione una simile band non rimane molto da dire.
Come ciliegina sulla torta segnalo che sono trascritti i testi di tutte le canzoni (sia pure in caratteri degni di un contratto assicurativo). Questa bella cosa, ho notato, è una costante nei dischi stampati da Celli, escluso il primo.

La mia opinione personale è che l’album sia imperdibile; che Walls Of Time da sola valga il prezzo dell’acquisto; e che, dopo innumerevoli ascolti, non ho ancora percepito il minimo segno di stanchezza (mentre, di Bluegrass Rules!, non sono del tutto sicuro di poter dire lo stesso).
È quindi chiaro che, quando nel settembre dello stesso 1999, nel corso della conferenza stampa tenuta nel castello, pardon, al Palace Hotel di Gstaad, il Ricky ci annuncia di aver portato, apposta per noi, il suo nuovo disco, che non è ancora uscito, ma uscirà ufficialmente solo dopo un mese, metto accuratamente da parte i soldini (roba buona, franchi svizzeri, mica euro o lirette) per accaparrarmelo.
Dei tre, è quello che mi piace di meno. È un album gospel: naturalmente, conoscendo il personaggio, avrei dovuto fiutare subito cosa possa voler dire gospel per Ricky Skaggs.
Il disco si intitola Soldier Of The Cross, e non si intende, qui, il soldatino di Gesù pronto per la cresima: si intende proprio il soldato crociato, con spada, scudo ed armatura.
Sulla copertina è fotografata l’elsa di una spada; sul CD è stampata la croce dei Cavalieri di Malta; ed ai Cavalieri di Malta, oltre che ad altri combattenti più o meno armati, è dedicato il disco.
Di costoro si dice che “nel 1522, con 700 cavalieri e 1.500 fanti, sconfissero 200.000 Turchi a Rodi, evitando alla Cristianità di essere spazzata via dall’Europa”.

Confesso la mia ignoranza, sapevo della battaglia di Lepanto (1571), come pure dell’assedio di Vienna, risolto nel 1697 da Eugenio di Savoia; ma di questa fondamentale battaglia di Rodi, lo ammetto, non avevo mai sentito parlare.
L’album apre con l’Olifante. Non scherzo: Ricky Skaggs suona, per 17″, una Battle Cry, usando uno strumento indicato come Shofar, e che suona come doveva suonare il corno di guerra di Rolando.
Segue Soldier Of The Cross, che è stato scritto negli anni settanta da un certo Lorin Rowan (nessuna parentela, spero) (ti/vi piaccia o no è proprio uno dei due fratelli di Peter Rowan – NdE). Niente da dire: è ben suonata e meglio cantata; non è blue grass, non saprei neanche se possa essere definito country. E non mi piace. Ma quello che conta qui, è chiaramente il ‘messaggio’.
Segue, grazie a Dio, A Voice From On High, di Bill Monroe e Bessie Mauldin, eseguita in duetto con lo straordinario tenor di Paul Brewster, ed una altrettanto notevole The Darkest Hour, di Ralph Stanley, che Ricky Skaggs aveva già inciso con Emmylou Harris.
Più avanti compare una Jacob’s Vision, con la partecipazione di Ralph Stanley e George Shuffler, quasi un ritorno all’adolescenza.
Niente da dire se non che tutte le canzoni citate fin qui sono lente o lentissime (il che non vuol comunque dire molli). Il fatto è che tutto il CD è così: c’è un solo pezzo veloce, hard driving: ma bisogna aspettare la traccia 13 per sentire l’m Ready To Go.
Potrei sbagliare ma la mia impressione è che un lavoro strumentale troppo carico sia stato qui considerato come fonte di distrazione dal ‘messaggio’. Non voglio essere frainteso: si tratta di canzoni belle o bellissime, a parte la già citata Soldier Of The Cross, Joshua Generation ed un altro paio di cose che, sarà sicuramente mia incompetenza, non riesco a capire.

Come faccio fatica a capire il pezzo di chiusura, Higher Than I qui presentata come Lead Me To The Rock. Non tanto per il fatto che chiuda il CD con un pezzo a voce scoperta (intendo una singola voce, non un coro). Quanto perché la stessa canzone, eseguita praticamente nello stesso modo, è stata incisa pochi mesi prima da Don Rigsby. Fra l’altro secondo me con maggior convin­zione.
Capisco meglio (per via del ‘messaggio’), anche se personalmente mi lascia perplesso, l’idea di far precedere Are You Afraid To Die, dei Louvin, da un vero e proprio sermone (proprio una predica da chiesa), quasi un minuto di un certo Dr. Billy Graham che, se non ho capito male, dev’essere un predicatore televisivo. E’ un modo perfetto, questo, di impedire la diffusione radiofonica di una canzone che invece la meriterebbe.
A parte questi che io considero incidenti, il disco rimane, intendiamoci, ben al di sopra della media. Ma con questo suo non essere né carne né pesce, rischia di lasciare interdetto l’ascoltatore occasionale. Questa mia perplessità sembra condivisa da altri: sulle charts di Bluegrass Unlimited, che usa i dati presi dai DJ bluegrass, Soldier Of The Cross proprio non compare, mentre Ancient Tones resiste alla grande (e si è guadagnato una Grammy nomination).

Su quella di Bluegrass Now, basata sui dati di vendita, invece, il CD ha raggiunto il vertice: evidentemente, Ricky Skaggs può contare su una bella fetta del pubblico che si è guadagnato quando si prostituiva in Music Row; o forse, come ho fatto io, molti comprano a scatola chiusa.
Tra i gospel radiodiffusi troviamo, non al vertice, A Voice From On High e Waiting At The Gate scritta sì da Paul Brewster, ma così classica da usare una chitarra suonata in stile Scruggs.
Se mi venisse chiesto di definire i tre dischi in tre parole direi: potente, bello, mah.
In ogni caso bentornato nel vecchio Kentucky, Ricky. E pensa a suonare, che è meglio.

Aldo Marchioni, fonte Country Store n. 51, 2000

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