Rio Grande Band - Playin' For The Door cover album

Da qualche anno negli Stati Uniti si sta riscoprendo il western swing; all’inizio con timide incisioni che si accontentavano di fare il verso ai creatori di questo genere (Bob Wills, Adolph Hofner, Milton Brown etc.), poi con il sorgere di gruppi più o meno innovatori. Un lavoro che è servito a focalizzare l’interesse del pubblico sul western swing, malgrado l’eccessivo virtuosismo fine a se stesso dei musicisti presenti (Vassar Clement, David Bromberg) e la conseguente inevitabile stragrande maggioranza di brani freddi ed asettici, è stato senza ombra di dubbio Hillbilly Jazz (Flying Fish 101). Il doppio album contiene delle brevi note introduttive di Rick Ulman che, pur nella loro schematicità e nella presentazione dimessa, hanno aperto tuttavia una finestra su un mondo sonoro che rischiava altrimenti di essere confinata negli scaffali di una discoteca privata o di un museo. E sarebbe stato un grossissimo errore perché se il termine western richiama immediatamente alla memoria un periodo ben preciso nella storia musicale americana (il country & western o l’innesto della musica popolare californiana, texana e aree limitrofe su quella tradizionale del sud est), la parola swing indica un modo altrettanto indefinito di fare musica, di concepire uno spartito, di usare lo strumento e la voce, che dà un enorme risalto all’espressione personale, all’emotività ed alla sensibilità individuale (= interpretazione) e collettiva (= partecipazione). È quindi, contrariamente ad un’opinione corrente, musica viva che si rinnova ad ogni nuova particolare esecuzione.

Il gruppo di cui ci stiamo occupando qui, la Rio Grande Band ricorda tre formazioni che hanno tentato o tentano un approccio di questo genere musicale: Comm Cody & His Lost Planet Airmen, Asleep At The Wheel e Alvin Crow & The Pleasant Valley Boys. Se Cody ed i suoi stimolano l’ascoltatore con una ben dosata miscela di western swing e rock & roll (molto vicino al rock-a-billy), se gli Asleep pescano un po’ dovunque amalgamando nel loro repertorio Count Basie, Bob Wills, Nathan Abshire e Randy Newman, e Crow lo propone in una veste salottiera, pedante e perciò noiosa (molto western e poco swing), la Rio Grande Band dal punto di vista stilistico si rifà direttamente agli anni 40 e da quello esecutivo ai maestri (con l’emme maiuscola).

Il suono quindi è molto più puro e addirittura più pulito di quello dei gruppi sopra citati e nello stesso tempo possiede un’attualità che non si sarebbe supposta, date le premesse. Tutti di Nashville e tutti pressoché sconosciuti (a parte Doug Jernigan, tra l’altro presente in Hillbilly Jazz), i sette componenti la band dimostrano di essere entrati con una certa facilità ed una buona dose di mestiere nello spirito delle incisioni originali senza cadere nell’imitazione o contraffazione dei modelli e di possedere una tecnica vocale e strumentale assolutamente di prim’ordine. Oltre alle arcinote Four Five Times e Crazy Cause I Love You (qui in splendide riedizioni) ed alle ballate Bring Morning Light e Leaving Tennessee (composizioni che definiscono da sole il genere in questione), l’album è un susseguirsi di intrecci tra fiddles (due in formazione, Ernie Reed e Hoot Hester), pedal steel (Jernigan) e pianoforte (Bucky Meadowns) su una base ritmica (Ben Brogdon, Chris Laird, rispettivamente contrabbasso e batteria) che può essere tranquillamente considerata una delle migliori oggi in attività nell’ambiente.

È doveroso menzionare inoltre i brani Mean Ol’ Alcohol dove Craig Chambers, altrove responsabile di un poderoso lavoro alla chitarra ritmica, si produce in brevissimi quanto opportuni a solo nella più pura tradizione jazzistica e Gold & Silver Waltz, in cui un delicato tempo di valzer offre lo spunto per una serie di domande e risposte strumentali tra pedal steel e violini. Leon McAuliffe, steel guitarist nel corso degli ultimi trentacinque anni con alterne vicende nei Texas Playboys di Wills, tiene a battesimo la band nelle note di copertina e non poteva rivelarsi padrino migliore! Per finire, io sono sempre stato profondamente convinto che per rendersi conto di un particolare genere musicale vale di più ascoltare un’incisione (o meglio ancora un concerto dal vivo) che non leggere una decina di articoli sull’argomento. Questo disco si dimostra un valido mezzo per ribadire il concetto in un campo, quello di certa critica musicale sterile e parolaia, dove spesse volte sembra vero il contrario.

Rounder 0105 (Western Swing, 1978)

Pierangelo Valenti, fonte Mucchio Selvaggio n. 14, 1978

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