Robben Ford

Serata invernale, un po’ di blues ben suonato è quello che ci vuole. Se poi sul palco, quasi a portata di mano, ci sono tre ‘mostri’ come Robben Ford, Tom Brechtlein e Roscoe Beck è ancora meglio. Dopo quasi un’ora di concerto, Robben Ford è pronto a rispondere alle nostre domande. Gentile, un ragazzone dal sorriso aperto e cordiale, il fratello maggiore ideale.

HF: Perché avete scelto di chiamare il vostro gruppo ‘The Blue Line’? Sapete che esiste già una formazione, i Blue Nile, con un nome affine?
RF: Avremmo voluto chiamarci ‘Blue Train’, in parte come omaggio a John Coltrane, che aveva inciso un disco con questo titolo, e in parte pensando alle immagini che il treno evoca. La parola ‘blue’ fa pensare al blues, ed i treni sono da sempre legati al blues, era un nome che ci piaceva. Poi, all’ultimo momento, poco prima che il disco uscisse, abbiamo scoperto che c’era già un gruppo con questo nome. Allora, per evitare azioni legali, abbiamo dovuto scegliere un’altra soluzione.

HF: Il disco che avete pubblicato, nelle intenzioni, inaugura una serie?
RF: Sì. Abbiamo firmato un contratto con questa nuova casa discografica, la Stretch/Grp, che ci lascia molta libertà di suonare quello che vogliamo, così andremo avanti.

HF: A proposito di Grp, non temete di venire omologati presto o tardi al loro ‘sound’?
RF: Certi artisti che incidono con loro sono già riusciti ad evitarlo, primo fra tutti Chick Corea. Inoltre, da parte di Grusin e Rosen non c’è stata alcuna pressione su di noi, e continuerà a non esserci.

HF: Di quale genere ritenete di fare parte?
RF: Riteniamo positivo avere alle spalle un terreno consolidato. In caso contrario, finiremmo per fluttuare nello spazio senza direzione. La nostra matrice è il blues. Tuttavia, siamo tutti e tre molto versatili, e possiamo espanderci in direzioni diverse, come ha fatto Miles Davis, che aveva le sue radici nel jazz tradizionale, e da lì era partito verso il jazz moderno, il jazz elettrico, le sonorità rock, e così via. In ogni caso, non intendiamo la nostra ricerca come una crociata. Ci interessa solo suonare la musica che più ci piace, e poi accada quel che accada.

HF: Durante il concerto, ad un certo punto ti sei messo a suonare come Booker T. Quali sono le tue radici?
RF: Mi fa piacere che te ne sia accorto. Le mie radici affondano innanzitutto nel blues e nel jazz. Ma la mia generazione è cresciuta con la radio, in un’epoca in cui si parlava di ‘British Invasion’, e quei gruppi a loro volta erano influenzati dal blues di Chicago, dal blues del Delta… è tutto molto ampio.

HF: Sappiamo che sei stato un membro fondatore degli Yellowjackets, anche se sui loro album figuri come ospite per ragioni contrattuali. Nel tuo disco, in alcuni brani, appare Russ Ferrante. Vuol dire che siete ancora buoni amici?
RF: Abbiamo una grande intesa musicale, e di tanto in tanto mi piace lavorare con lui. Non penso che riprenderemo a collaborare stabilmente, anche perché lui è molto coinvolto dalla sua attività col gruppo.

HF: Un’ultima domanda: cosa ne dici della formula a trio negli anni Novanta?
RF: La adoro. Mi sento a casa. I gruppi degli anni Sessanta/Settanta, come i Cream, avevano fatto molto, ma si sono sciolti troppo presto, e c’è rimasto molto da scoprire. Adesso ci sono dei tizi che fanno dischi circondati da macchine elettroniche, non ha senso. Suonare in trio è un’altra cosa, è come il blues, non sparirà mai, è troppo importante, troppo fondamentale.

Michele Paparelle, fonte Hi, Folks! n. 51, 1992

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