La gioia di riscoprire ogni tanto qualche talento misconosciuto (ai più) ci permette di penetrare altrettanti microcosmi, ciascuno diverso dagli altri, unico e personalissimo; tanti modi di confrontarsi con una comune realtà; una diversificata interpretazione che consente, a chi vuole farsene carico, di esplorare una piccola parte dello spettro della personalità e della individualità dell’essere umano, sia esso artista attivo o semplice fruitore della di lui arte.
Quello di Robert Earl Keen Jr. è un nome noto ad un ristretto giro di appassionati – in Italia la convention nazionale del suo Fan Club si potrebbe tenere comodamente in una cabina telefonica – attenti da sempre alle proposte ‘alternative’ che le etichette minori, le cosi-dette ‘indìes’, propongono in contrapposizione allo strapotere delle ‘majors’.
Il 1984 vede la Philo Records, benemerita promotrice di sonorità di indirizzo folk, dare fiducia ad un illustre sconosciuto di nome Robert Earl Keen Jr., pubblicando il suo disco di esordio No Kinda Dancer, una piacevolissima sorpresa folk-oriented che enfatizza le radici bluegrass del nostro. Per tutte valga la celeberrima (si fa per dire) The Front Porch Song, scritta in collaborazione con il vecchio amico e compagno di gavetta Lyle Lovett, che la inciderà nel suo album di esordio su MCA nel 1986. Il brano, una alchimia di talking-blues e bluegrass, copiosamente innaffiata dal mandolino di Paul Sweeney, ci riporta ai giorni in cui Robert Earl e Lyle abitavano insieme in quel di College Station, Texas, dove passavano gran parte del loro tempo suonando bluegrass e folk music sotto il portico del vecchio stabile dove vivevano, militando nella high school band dei Front Porch Boys, un ensamble estremamente precario che si sciolse due giorni dopo la defezione di Robert Earl, quando fu evidente che era lui solo il proprietario dell’impianto di amplificazione che usavano ai concerti.
Scherzi a parte (ma Robert Earl racconterà questi aneddoti nel suo secondo album), l’opera prima di questo promettente texano si allinea ai prodotti più interessanti del cantautorato del Lone Star State: sonorità legate alla tradizione popolare bianca (country, bluegrass. folk), voce strascicata che a tratti ricorda Guy Clark e frequenti riferimenti ai grandi della musica texana (Bob Wills in testa). Gradevolissima la tipica country song di Swervin’ In My Lane con Nanci Griffith, allora non ancora superstar e lo spumeggiante duello chitarristico in chiave bluegrass dove Robert Earl e Mike Landschoot si affrontano in Death Of Tail Fitzsimmons. Una doverosa menzione anche allo scintillante dobro di Dan Huckabee che troviamo anche in Willie, gradevolissima sorta di ballata bluegrass che ci riporta alle radici di Robert Earl.
Il disco è dunque interessante, ben strutturato e ben suonato, ma mancano i presupposti commerciali per il riscontro di mercato (dove ho già sentito questo discorso?).
La Philo non rinnova il contratto ed il buon Robert Earl dovrà attendere il 1988 per vedere pubblicato il suo secondo lavoro. E’ la Sugar Hill, piccola indie della Carolina del Nord, a pubblicare The Live Album, a sorpresa un album registrato dal vivo al Sons Of The Harmann Hall di Dallas, Texas. La back-up band è un trio di tutto rispetto: Roy Huskey Jr., Jonathan Yudkin e Jim Rooney lo aiutano a riproporre The Front Porch Song, già suo cavallo di battaglia, più una selezione di brani tradizionali (Stewball) ed originali. E’ proprio in questi che Robert Earl riesce a dare spazio alla sua inarrestabile vena umoristica che caratterizzerà i suoi live acts: The Bluegrass Widow, che lui stesso definisce “il peggior brano bluegrass mai composto in assoluto” è la sequenza di famosi titoli di bluegrass songs, abbinati fra loro in modo tale da avere un filo logico che li unisce nella narrazione, mentre Copenhagen narra dell’abitudine di masticare tabacco (marca Copenhagen appunto) che Robert Earl ha acquisito nel corso della sua carriera nel rodeo.
Pare che questa non sia durata più di 15 secondi, 3 secondi per ciascuno dei cinque tori che ha tentato di cavalcare, come ci viene umoristicamente riportato nel corso dell’esecuzione, insieme ai non proprio esaltanti effetti che questa abitudine ha provocato nelle relazioni sentimentali del nostro: “provate a baciare due volte consecutive la stessa ragazza con un morso di tabacco in bocca!”. Aldilà dei contenuti umoristici del disco, si tratta di una prova sufficientemente convincente, che porta la Sugar Hill a far incidere a Robert Earl uno dei suoi dischi migliori, quel West Textures del 1989 che lo vede musicista e compositore più maturo, affiancato da nomi altisonanti del giro giusto. Uno per tutti: Jerry ‘Flux ‘ Douglas al dobro, segno che la Sugar Hill crede nelle possibilità di Robert Earl Keen Jr.
Il primo lato si apre con il brano originale Sing One For Sister, tenue folk song che Nanci Griffith aveva già incluso nel suo album di esordio per la MCA.
Si prosegue con la stupenda ballad up-tempo The Road Goes On Forever, tipica highway song con .Jonathan Yudkin al fiddle.
Maria cambia completamente registro e ci porta ad assolate atmosfere da border, con la sua chitarra acustica messicaneggiante.
Sonorità che si ripropongono anche nella cover di Sonora’s Death Row, già inclusa nell’album di esordio del 1977 su Amherst dei Moonlighters, diretta emanazione di Commander Cody & His Lost Planet Airmen. Un cenno doveroso all’egregio lavoro di Joey Misculin all’accordion e di Mark Howard alla chitarra solista.
Il lato 1, praticamente perfetto, si chiude con un altro episodio di sapore messicano: Mariano narra la storia di un immigrato illegale dal Messico, uno dei cosiddetti ‘deportees’ (vedi Woody Guthrie) o ‘wetbacks’, letteralmente ‘schiene bagnate’ a causa dell’attraversamento nottetempo del Rio Grande, la principale porta di immigrazione clandestina dal Messico verso il Texas. Vibrante e vissuta, vale da sola l’acquisto del disco.
Tra le immancabili covers spicca l’ennesima versione di Jennifer Johnson & Me di Shel Silverstein (vi ricordate quella di Bobby Bare?).
In Five Pound Bass riemerge l’amore mai sopito per il bluegrass, mentre la conclusiva Love Is A Word è una tenue ballata autobiografica.
Decisamente il disco migliore dei primi tre prodotti dalla premiata ditta REK Jr.: uno sforzo omogeneo e maturo che gli frutta una crescente credibilità artistica, ma che gli nega tuttavia un tangibile riscontro commerciale. E’ comunque ancora con la Sugar Hill Records che questo anno pubblica il quarto volume dell’opera di Robert Earl Keen Jr. A Bigger Piece Of Sky. L’album è molto diverso dai suoi predecessori, a cominciare dai session men, fra i quali compare addirittura Gary Tallent, di springsteeniana memoria. Rimane l’immarcescibile Jonathan Yudkin al solo fiddle, mentre fanno la loro comparsa steel guitar e gut-string guitar; il mandolino passa in mano al blasonato Marty Stuart.
Le sonorità si sono allontanate decisamente dal bluegrass delle radici, per spingersi verso tematiche più vicine al cantautorato colto, che rifiuta confini precisi e spazia aldilà delle etichette stilistiche care a certi critici musicali.
Curiosa nella sua apertura ‘a la Mark Knopfler’ la cover di Amarillo Highway di Terry Allen che prosegue poi su grintose sonorità swingate.
Maura O’Connell duetta nella dolce ed acustica Night Right For Love.
Jesse With The Long Hair è una bella up-tempo ballad di piglio giornalistico, sul tipo di alcune songs del Tom Pacheco di Long Gone o Minnesota Blue.
Blow You Away, ed ancora di più Here In Arkansas si rivelano introspettive e meditative, mentre Daddy Had A Buick è notturna e fortemente jazzata, degna del migliore Tom Waits: grande!
L’autobiografica Corpus Christi Bay è una ballata amara che racconta le difficili vicende familiari del fratello di Robert Earl, ma dalla quale emerge il solido legame che unisce i due.
Il decimo brano dell’album Crazy Cowboy Dream è quello che più si avvicina all’immagine western suggerita dalla copertina. Una dolce ballata acustica nella vena dei primi lavori, che ci introduce alla conclusiva Paint The Town Beige, dal testo della quale è stato tratto il titolo del lavoro. Un delicato tessuto acustico punteggiato di steel guitar fa da tappeto ad una narrazione rilassata e compiaciuta, con una nota di saggezza nella voce di questo ancor giovane artista. Per la cronaca, aggiungiamo che Daddy e Corpus appaiono anche nella colonna sonora di The Thing Called Love di Peter Bogdanovich.
Volendo focalizzare sinteticamente il personaggio Robert Earl Keen Jr. potremmo definirlo un indubbio talento artistico alla ricerca di una sua propria maturità compositiva ed interpretativa, traguardo questo che ci sembra ormai prossimo, almeno stando a questo quarto album A Bigger Piece Of Sky, che ci ha conquistati.
Dino Della Casa, fonte Country Store n. 21, 1993