Robert Kimbrough picture articolo

Lo scorso anno Robert Kimbrough Sr. ha suonato in ben due festival svizzeri, a Crissier e Lucerna, nel primo caso con Cameron Kimbrough, nel secondo purtroppo con un gruppo di accompagnamento, un trio texano, poco in linea con la sua musica. Il concerto che ne è venuto fuori non ne ha restituito il vero potenziale, cosa di cui si è detto consapevole lui stesso alla fine di esso. Disponibilissimo, si è prodigato per parlare con noi, districandosi, visto lo scarso tempo a disposizione, tra il soundcheck, la firma delle copie per gli sponsor e la distribuzione del proprio materiale al banchetto dei dischi. Si è raccontato senza reticenze.

Mi chiamo Robert Kimbrough Senior e sono figlio di David Junior Kimbrough, leggenda del blues di Holly Springs, Mississippi, scomparso nel 1998. Mi ha lasciato il compito di tenere in vita il ‘cotton patch blues’. Ho due altri fratelli e una sorella dai miei genitori, David, Kinney ed Effie, mia sorella. Ho iniziato suonando il basso coi miei fratelli, Kinney come sapete suona la batteria e David la chitarra. La chitarra mi sono messo a suonarla per proseguire lo stile di mio padre, so di non essere un grande chitarrista. Sono nato nel 1968 a Holly Springs da Magnolia Malone e Junior Kimbrough, mio padre già suonava ovviamente e anche i miei zii e i nonni. Noi lo chiamiamo ‘cotton patch blues’ molti lo chiamano ‘hill country blues’ ma non è proprio la stessa cosa, c’è più soul e appunto noi lo abbiamo sempre chiamato ‘cotton patch soul blues’, anche se mi piacciono tutte le forme di blues.
Mio padre ha sempre lavorato e mia madre faceva la sua parte, quando rincasava prendeva in mano la chitarra e si metteva a suonare, aveva una stanza con gli strumenti. Venivano Joe Ayers, il padre di Cedric Burnside, Calvin Jackson e altri ancora a suonare con lui. C’era sempre musica per casa, mio padre mi aveva soprannominato ‘Wiley Woot’, per questo ho chiamato così il mio disco. Frequentavamo anche la chiesa, ho cantato nel coro quando ero un bambino, mi piaceva il gospel. Dopo il diploma me ne sono andato da Holly Springs e mi sono trasferito in Illinois, ad Aurora. Ho vissuto lì per diversi anni, mentre i miei fratelli hanno continuato a vivere in Mississippi e a suonare con nostro padre. All’inizio avevo intenzione di suonare anche in Illinois ma ero giovane e volevo fare soldi in fretta, così lasciai perdere la musica. Nel 1995 sono tornato a Holly Springs e mi sono ritrovato con mio padre. Ricordo che facemmo anche un tour in cui eravamo io, mio padre e Gary Burnside, suonammo a Chattanooga, Tennessee in un paio di altri posti, l’ultima data era al Memphis State College. Poi tornammo ad Holly Springs e il tizio che guidava il van, Dan, morì  una settimana dopo.

Tuo fratello David in quel periodo incise un disco a nome David Malone per la Fat Possum.
Si, ma io allora vivevo ancora in Illinois. Oggi suoniamo insieme anche con Kinney, come Kimbrough Brothers. Nel 1998 è morto mio padre e l’anno prima già non era stato bene e aveva dovuto subire un intervento chirurgico allo stomaco. Ricordo che dopo l’intervento andavo a trovarlo ogni giorno e parlavamo. Qualche tempo dopo ero a casa, tornato dal lavoro, squillò il telefono ed era mio padre, ma non lo avevo riconosciuto, la sua voce sembrava diversa. Chiese di Kinney, ma io non sapevo dove fosse. Mi disse, «Wiley, non mi sono mai sentito meglio, voglio riprendere a suonare il blues». Gli dissi che ero appena rincasato e avrei dormito qualche ora e poi lo avrei richiamato. Andai a dormire sul divano e ad un certo punto nel sonno sentii una voce che diceva distintamente «non voglio morire». Mi svegliai turbato e in lacrime, corsi da mia moglie e dai miei figli per essere sicuro che stessero tutti bene. Lei era un po’ sorpresa, «che ti prende, Robert», disse. Allora le raccontai quello che mi era successo. Non ci diede molto peso, andava tutto bene; però mentre stavo aprendo il frigo per bere qualcosa qualcuno bussò alla porta. Era mia sorella Stephanie, venuta a dirmi che papà era morto. Non volevo crederci. Mi vennero in mente le parole che mi aveva detto mio padre anni prima, «Wiley, un giorno me ne andrò da questo mondo, non so quando succederà. Dovrai essere forte quel giorno». Rimasi lì e la mia mente vagava senza direzione e tornava sempre alla nostra ultima telefonata, alla sua musica. Lui avrebbe voluto che noi proseguissimo e la tenessimo in vita. Perciò ho pensato che mi sarei dedicato proprio a quello. Con i miei fratelli per un po’ di tempo ci siamo occupati di mandare avanti il club di mio padre, insieme ad altri ragazzi che tenevano a mio padre, come Eric Deaton. Questo fino al 2000 quando il club è bruciato. Ricordo come fosse ieri la sera che è successo. C’era tantissima gente, macchine per un miglio lungo la strada e l’incasso era stato ottimo quella notte.

Rimasi quasi tutta la notte e poi me ne andai e una volta arrivato a casa Kinney mi chiamò al telefono, era quasi in lacrime, mi disse di correre al club. Così saltai in auto e in dieci minuti arrivai al locale, c’era fumo e fiamme dappertutto e capimmo che non c’era più nulla da fare. Eravamo come impietriti.  La presi molto male, dopo la morte di nostro padre, aver perso anche il club fu un brutto colpo. Persi la bussola, non volevo più saperne della musica e tornai a frequentare una gang, droga…così sono finito in prigione per sei anni e mezzo. E’stato un periodo buio, tante scelte sbagliate, ma almeno in prigione mi hanno dato una chitarra e la possibilità di suonare. In questo modo mi sono riappropriato della musica, mi sono rimesso a scrivere e le parole di mio padre hanno ripreso forza nella mia testa. Quando sono uscito perciò avevo in pratica già composto tutto il materiale che sarebbe finito sul primo CD. Ho imparato che nella vita possono succederti queste cose e devi avere la pazienza per affrontarle, mentre altre cose non sei in grado di controllarle.

Nel 1993 tuo padre venne in Italia con Gary Burnside al basso e Calvin Jackson alla batteria. Fu un concerto memorabile.
Ah ci credo! Voglio continuare a farlo conoscere, la sua vita, la sua musica, ho anche scritto un libro, anche non so ancora con chi lo pubblicherò. Spero di incontrare le persone giuste per completarlo.

David ha inciso un paio di dischi, il secondo, come te, poco dopo essere uscito di prigione.
Lo so, ogni tanto suoniamo insieme. Non ero coinvolto in nessuno dei suoi dischi,  quando incise il secondo ero ancora in carcere.

Molti gruppi hanno ripreso i pezzi di tuo padre, ma sono pochi quelli che gli rendono davvero giustizia, spesso nelle interpretazioni degli altri manca qualcosa.
Vero, sembra facile ma la musica di mio padre non lo è affatto. C’è qualcosa di intangibile eppure, credo, avvertibile, quando la suoniamo io, David o Kinney, sarà perché ce l’abbiamo nel sangue e siamo cresciuti con quel ritmo. L’unica eccezione forse è Eric Deaton, perché lui è praticamente cresciuto con noi, sin da ragazzino, mio padre gli ha insegnato a suonare ed ora la musica è anche nel suo sangue. E’ la nostra eredità e di questo ne siamo consapevoli.

Un po’ come i figli e i nipoti dei R.L. Burnside.
Esatto, Cedric, Gary, Duwayne…loro portano avanti la musica di R.L., suonano hill country, mentre noi suoniamo cotton patch soul blues. Siamo cresciuti insieme e credo che i nostri genitori sarebbero contenti di vederci oggi.

Hai inciso tre dischi, più uno dal vivo, in poco tempo, sentivi di dover recuperare il tempo perduto?
Beh si avevo parecchio materiale e l’ho riversato nei quattro CD che ho inciso. Sono contento anche dell’ultimo, My Frog, che ho registrato con tre bravi musicisti. Credo ci sia buona musica e anche qualche brano che fa muovere il pubblico. Lo abbiamo presentato qualche mese fa al Red’s a Clarksdale. E un altro uscirà l’anno prossimo. Voglio farmi conoscere e sono spesso in tour, quest’anno è già la seconda volta in Svizzera, a maggio ho suonato a Crissier, poi sono stato in Argentina per tre settimane. Perché non sono qui col mio gruppo abituale? Semplice, è una questione di passaporto. I ragazzi con cui suono stasera sono di Dallas, Texas, col chitarrista Scott Lindsey abbiamo lavorato insieme anche su disco, ma certo non è come suonare con Kinney, è un beat del tutto diverso che è persino difficile da spiegare.

Avete creato un festival per ricordare Junior Kimbrough.
Si, quest’anno (2017 n.d.t.) in maggio abbiamo organizzato la prima edizione del Cotton Patch Blues Festival. E’ andato tutto bene, una bella festa per tutti, vogliamo rifarlo ogni anno. E’ stata un’idea realizzata grazie all’aiuto di una giovane originaria di New York, Amy Verdon. Spero che andrà ancor meglio la prossima, abbiamo molte idee, ci saranno workshop, concerti, jam… avremo anche una mostra con le foto di Bill Steber al Rust College. Sarà su due giorni, venerdi e sabato a maggio, i partecipanti al workshop potranno suonare sul palco alla fine della giornata, a prescindere dal loro livello. Poi domenica organizzeremo una visita alla tomba di mio padre e al luogo dove c’era il locale. E’ un altro modo per tener viva la musica.
(Intervista realizzata a Lucerna, Svizzera, il 18 novembre 2017)

Matteo Bossi, Marino Grandi, fonte Il Blues n. 143, 2018

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