Robert Lee Coleman picture

Una delle tante figure che la Music Maker Foundation ha contribuito ad aiutare, riportandolo a suonare in giro per il mondo e in sala d’incisione, è questo signore di settantacinque anni, magro e lungo, dalla barba bianca e l’inflessione gentile, Robert Lee Coleman. Al festival di Lucerna, accompagnato da musicisti della fondazione, il batterista Ardie Dean, Harvey Dalton al basso e Hansel ‘Sol’ Creech alla chitarra, si è divertito sul palco, una volta rotto il ghiaccio, in un set di simpatico blues e rhythm and blues. In mattinata lo avevamo incontrato per conoscerlo meglio e lui si è raccontato con poche parole, articolandole lentamente, soppesando la sua storia in modo quasi laconico seppure alcune delle sue esperienze e frequentazioni siano del tutto singolari. «Sono di Macon, ho sempre vissuto lì. Avevo un patrigno, lui suonava la chitarra. Sapeva suonare musica country e anche alcuni blues pezzi di B.B. King, Blind Boy Fuller, Robert Johnson…fossi stato bravo quanto lui allora sì che sarei diventato famoso! Era il migliore che abbia sentito. Mi sedevo davanti a lui a guardarlo suonare, non è che lui mi facesse vedere come si suonava, lo guardavo e basta. Mi piaceva molto la musica. Il patrigno però non registrò mai nulla, suonava agli ‘house parties nei weekend, ed era parecchio apprezzato. Poteva essere il primo nero a suonare musica country, sapeva suonare come Hank Williams».

La musica lo ha affascinato sin dall’infanzia si può dire, anche se rivendica più volte, nel corso della conversazione, «Nessuno mi ha insegnato nulla, non ho mai preso lezioni, suono ad orecchio. Dio mi ha dato un dono ed io lo uso». Non stupisce in fondo che confessi una predilezione per il gospel: «Ho cominciato con il gospel in chiesa, suono da sessantacinque anni e per metà del tempo si può ben dire che abbia suonato gospel e per diversi gruppi». La madre inoltre era un pastore, «Ma fu lei a prendermi la mia prima chitarra». Tra i ricordi legati all’infanzia c’è anche la presenza del chitarrista Guitar Gable, «Il mio patrigno lo conosceva, rimase a casa nostra per qualche giorno. Suonava benissimo». Gli inizi sono segnati quindi, dal gospel e da qualche ingaggio nei locali di Macon. «Suonai anche con Eddie Kirkland ero solo un ragazzino. So che è morto qualche anno fa in un incidente». Un locale in particolare, gestito da Clint Brantley, «Percy veniva a Macon nel club di Clint, gli serviva un gruppo. Io suonavo con una band e Percy ci prese tutti per andare in tour con lui. Era il 1964 e sono rimasto con lui per sei anni. Abbiamo suonato in giro per tutta l’America e i Caraibi ma non sono mai venuto in Europa con lui.»

Sledge ebbe un enorme successo, con When A Man Loves A Woman, n. 1 nelle classifiche Billboard nel 1966 e registrò una serie di fortunati LP per l’Atlantic nella seconda metà degli anni Sessanta, Coleman però non prese parte alle loro incisioni. La fine dell’esperienza con Sledge, forse inaspettatamente, corrisponde ad un rilancio, Coleman infatti riceva una proposta irrinunciabile, i suoi servigi sono richiesti nientemeno che da James Brown. Come ha avuto l’ingaggio? E’ presto detto, lo si deve ancora a Brantley. «Clint era molto legato a James, era stato suo manager, lo tirò anche fuori di prigione nel ’55 o ’56. Fu lui a raccomandarmi quando venne a sapere che al gruppo serviva un chitarrista. James era una brava persona, molto esigente e preciso in studio. Sapeva esattamente cosa voleva ottenere, il suono funky. Era molto diverso da Percy sia come persona che come musicista.» Robert Lee resta diversi anni al servizio del padrino del soul e lascia il segno anche dal punto di vista discografico, con dischi come Hot Pants, Revolution Of The Mind e Make It Funky, i suoi riff sono molto apprezzati dallo stesso Brown. «Con James Brown ho suonato dappertutto, sono anche venuto in Europa. Mi sono unito ai J.B.’s originali nel 1970, Fred Wesley era il nostro bandleader. Bootsy (Collins n.d.t.) se ne era appena andato. James era un pugile, per questo era così veloce sul palco!»

Dopo circa un paio di anni con Brown, Coleman fa ritorno a Macon, dove la situazione non è affatto florida. «C’è stato un tempo in cui tutti hanno registrato a Macon. Otis Redding era cresciuto qui ed è morto molto giovane aveva solo ventisei anni, me lo ricordo bene, era il 1967. Mi sarebbe piaciuto suonare con Otis. Phil Walden aveva qui la sua etichetta, Capricorn, ma poi è fallita. Ora riaprono un museo nella vecchia sede e ci suoneremo il mese prossimo». Se la cava alternando diversi lavori, «Anche come carpentiere» racconta, ad alcuni ingaggi nei club cittadini, affiancando altri musicisti locali come Bobby O’Dea e Larry Howard. Come per altri suoi colleghi semi-dimenticati, le cose sono cambiate in positivo quando è venuto in contatto con la Music Maker Relief Foundation di Tim Duffy. «Devi avere almeno cinquantacinque anni per essere accettato e io li avevo superati. Ho conosciuto Danny ‘Mudcat’ Dudeck, un ottimo musicista di Atlanta. Suona sempre al Northside Tavern di Atlanta e una volta all’anno tiene un concerto chiamato Chicken Raid, al quale partecipano molti musicisti.

«E’ un bravo ragazzo Danny.» Quando gli chiediamo chi fossero i musicisti che più ammirava la sua risposta è immediata, «B.B. King era il mio idolo, mi piaceva moltissimo, ne andavo matto. Mi ricordo che una volta ai tempi in cui suonavo con Percy, venni a sapere che B.B. suonava in un altro posto sull’altro lato della strada. Finito il nostro concerto corsi subito fuori e feci in tempo a vederlo per una ventina di minuti. Fu indimenticabile, ma purtroppo non ho mai avuto la possibilità di suonare con lui». I gusti musicali di Coleman pur prediligendo il blues, «Ho suonato rhythm and blues per molti anni, ma essenzialmente mi sento un bluesman, non si limitano ad esso, mi piaceva Freddie King e poi devo dire anche Stevie Ray Vaughan era molto bravo. Dal suo stile si può dire che gli piaceva Albert King! Nel country mi piace Vince Gill, è veramente forte. E poi Buddy Guy, non posso dimenticarlo, Buddy è tuttora un vero showman». Con la Music Maker ha realizzato due CD, «Il primo, One More Mile (risalente al 2012 n.d.t.) l’ho inciso in Alabama con Ardie Dean, mentre per il secondo What Left (uscito nel 2018) sono andato ad Athens, Georgia, con il mio gruppo. Alcune canzoni le ho scritte io anche molti anni fa, altre invece sono canzoni che mi piacciono, come Real Mother Fo’ Ya di Johnny Guitar Watson. Sono molto contento di come è venuto. L’ho chiamato così perché sono uno degli ultimi musicisti rimasti della vecchia generazione».

Sulla scrittura Coleman, ammette «Ho cominciato a comporre canzoni piuttosto tardi, sui quarant’anni. Scrivo ogni tanto quando mi viene in mente qualcosa di mio, ma come dicevo suono a orecchio.» Il presente è certamente più tranquillo, il ruolo della Fondazione creata da Duffy si concretizza in tanti aspetti della vita quotidiana di persone come Robert Lee. Lo riconosce lui stesso, sorseggiando piano un bicchiere di birra, «Sono con la Music Maker da ormai quindici anni e non è poco. Mi trovo bene, è una organizzazione no-profit, come sapete. Sono stato in tanti posti a suonare grazie a loro, non pensavo che sarebbe successo, eppure sono in circolazione da tanto.»
(Intervista realizzata a Lucerna, Svizzera il 15 novembre 2019)

Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 151, 2020

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