“Lo scopo della mia vita è stato fare dischi…” e superato ormai il traguardo degli ottant’anni, Roy Smeck non ha ancora cessato di far tribolare i tecnici del suono e gli accompagnatori di turno con le sue incredibili soluzioni musicali. La biografia dell’artista è quella di un uomo deciso ad arrivare dove si è prefissato senza minimamente accorgersi del mondo circostante e delle persone che appena ti giri…
Nasce a Reading (Pennsylvania), armeggia intorno ad un’autoharp ed ad un’armonica a bocca, riesce a farsi luce nell’estenuante circuito degli spettacoli vaudeville, si dà agli strumenti a corda passando mesi chiuso nel suo appartamento di New York per cercare di trarre il massimo da chitarra, steel-guitar hawaiana, banjo tenore, ukulele e mandolino.
Inizia finalmente ad incidere sotto le ali protettive di Sam Warner (Warner Bros.), incontra Eddie Lang e suona nella sua orchestra, tenta con successo l’insegnamento con lezioni dirette e con una serie di popolarissimi metodi imitando il collega Harry Reser. Realizza nel frattempo qualcosa come cinquecento dischi ed accumula una ragguardevole fortuna che a poco a poco scialacqua a causa di una ballerina della compagnia Ziegfeld. Si ritira a vita privata, salvo concedere il proprio nome per la pubblicità della celebre marca newyorchese di corde La Bella, subito circondato da numerosi allievi due dei quali lo convincono ad incidere l’album in questione.
Ad un primo ascolto ci si accorge che Smeck ha perso gran parte dello smalto originario, al secondo si fa prontamente marcia indietro, al terzo si tenta di capire qualcosa più che dalle sue dita nella sua testa, al quarto e seguenti si prende il proprio strumento, qualsiasi strumento fornito di corde, e lo si butta con rassegnazione dalla finestra. Non solo i classici (Sweet Georgia Brown, Ain’t She Sweet, St. Louis Blues) sono resi con un gusto ed una fantasia raramente riscontrabili oggigiorno, ma anche le gloriose composizioni di Smeck, come l’ispirata Raggin’ The Uke si vestono a festa grazie allo squisito accompagnamento costituito di volta in volta da Dick Plotka (ukulele baritono e banjo tenore), John Goodman (chitarra) e dalla rediviva Irene Herrman (mandolino), membro attivo delle Harmony Sisters di Alice Gerrard.
Chi avrà la buona ventura di scoprire l’artista attraverso la presente incisione rimarrà certo colpito da due brani condotti dalla chitarra hawaiana elettrificata (Mama Blues e Third Man Theme) che vedono il vecchio incallito one man band del vaudeville-show impegnato in un autentico colloquio confidenziale con lo strumento a suon di domande (la voce) e di risposte (l’imitazione della voce).
Ma non basta. Rallenta con l’età la proverbiale velocità (c’è però qui l’eccezione della chitarra solista nel tradizionale Serento, un fuoco pirotecnico ed ordinato di note), abbandonata per sempre (si spera!) l’idea delle follie ritmiche che fecero inorridire i benpensanti ai tempi d’oro, Smeck sembra essersi rappacificato coi diesis ed i bemolle ed aver raggiunto finalmente un’intima intesa con le corde.
Non più insomma le trovate di un giovane recalcitrante, che riuscì con la sua impazienza a farsi notare addirittura cimentandosi con un’armonica ed uno scacciapensieri in tre brani del nostro Kelly Harrell nel 1929, ma un lavoro composto, tranquillo, con qualche guizzo subito represso, da gustare e scoprire in una miriade di sfumature. Roy Smeck oggi: la saetta di cinquant’anni fa ha lasciato il posto ad un gigantesco arcobaleno.
Blue Goose 2027 (Swing Acustico, 1980)
Pierangelo Valenti, Mucchio Selvaggio n. 39, 1981