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Come conciliare il blues tradizionale con le istanze del moderno? La risposta non è facile, soprattutto non è facile trovare una forma che permetta di non tradire il sound del blues e nello stesso tempo spostare le scarne costruzioni di questa musica verso qualcosa di più complesso ed articolato. Comunque il problema rimane aperto e negli ultimi anni sempre più spesso alcuni giovani musicisti blues hanno tentato di rivitalizzare la musica dei padri neri con risultati non sempre convincenti.
L’occasione di discutere di questo ed altro con un vero musicista blues ce l’offre il nuovo album di Rudv Rotta, musicista italiano che dopo un live approda al primo album in studio. Con lui abbiamo parlato naturalmente di blues, della situazione internazionale e in particolare di quella italiana. Partendo da Reason To Live il discorso si è spostato sul futuro del blues, un futuro forse incerto, ma sempre affascinante.

Sei da poco tornato da un viaggio a Chicago e quindi la prima domanda viene del tutto spontanea: com’è la situazione blues in una di quelle città che al blues ha dato così tanto?
Direi che è abbastanza buona. Devo confessarti che quando sono partito per gli States non credevo di trovare una scena blues stimolante, perché seguendo la produzione discografica più recente di etichette come la Alligator, non avevo trovato cose interessanti, né quelle produzioni potevano lasciare intendere come il blues si stesse muovendo al di là dei riferimenti alla tradizione, per cercare nuove vie o almeno una via ad un blues moderno. Quando invece cominci a fare il giro dei locali ti accorgi che c’è gente incredibile che suona in maniera stupenda. Certo non c’è più quel tocco se vuoi delicato, oggi questi giovani picchiano sugli strumenti, ma ti assicuro che fanno del buon blues. Quando sono arrivato credevo sinceramente che la scena si fosse spostata verso il funky o verso il rock, ed invece trovi gente che sa cos’è il blues. Trovi persone come Valerie Wellington che ha un gruppo grandioso o Sugar Blue, l’armonicista che ha anche suonato con gli Stones. Ecco, forse nei giovani, nei giovani chitarristi, c’è una tendenza al virtuosismo, trovi mani veloci, troppo veloci, che lavorano per fortuna su sezioni ritmiche molto compatte.

Ma dietro a tutto questo c’è un progetto musicale moderno? Voglio dire, un personaggio come Robert Cray ha influito in qualche maniera su questa scena blues?
No. C’è sicuramente ancora un riferimento al blues tradizionale e quindi un sound come quello di Robert Cray non può attecchire come non potrebbe avere nessun successo quel suono dolce fino alla nausea di Robben Ford. Se si vuol vedere un progetto musicale dietro quello che succede oggi a Chicago sinceramente credo vada ricercato più sulla maniera in cui si suona che sulla musica che si fa. Ripeto, oggi nei club di Chicago c’è gente che picchia forte sugli strumenti. Se un gruppo italiano in uno dei tanti festival che si organizzano nel nostro paese, suonasse in quella maniera farebbe rabbrividire i puristi del blues e l’unico giudizio possibile potrebbe essere che fanno troppo casino.

Ma della vecchia scena blues è rimasto qualcosa?
Sì. Ho visto Jimmy Rogers, ho visto Buster Benton, comunque mi sembra che queste proposte interessino molto meno soprattutto i giovani; e comunque in generale direi che non c’è un grosso interesse attorno al blues tradizionale elettrico; questo discorso è sicuramente generalizzabile. Certo Chicago ha un’importanza storica per il blues, eppure neanche lì mi sembra che stia vivendo un periodo felice, forse in Europa c’è più interesse che non negli States.
Pensa soltanto a quello che succede in Italia, a quello che è successo negli ultimi cinque anni. Io conosco bene la situazione del nord perché, salvo manifestazioni estive nel centro Italia o nel sud, suono prevalentemente al nord e posso dirti che c’è una quantità di locali dove si fa blues. Certo ci sono club dove puoi ascoltare solo rock demenziale o cose del genere, ma normalmente nei locali c’è sempre spazio per una band di blues.
Forse a livello discografico siamo ancora indietro, ma girano alcune ottime band, e quindi direi che in Italia la situazione è sicuramente buona. A Chicago ho visto concerti di Sugar Blue con venti persone; i concerti infrasettimanali hanno un pubblico di questo tipo, poi il sabato e la domenica, quando ti aspetteresti una maggiore affluenza, ti accorgi che magari mentre suona uno dei chitarristi che oggi va per la maggiore, come Melvin Taylor, c’è gente che gioca a biliardo e neanche l’ascolta.

Non è una bella storia…
No, non lo è, ma per me non è stata una novità. Ogni volta che sono stato negli States ho visto che il pubblico non è molto attento. Forse nel Texas è leggermente diverso, è pur vero che in un locale come il mitico Antone’s la programmazione è di sicuro richiamo.

Un’ultima cosa prima di passare a parlare del tuo disco. A Chicago hai suonato parecchio con gente come Valerie Wellington e Sugar Blue: come è accolto un musicista bianco, italiano, in una città come Chicago?
Rimangono meravigliati, questo è certo. Per quanto riguarda il colore della pelle… guarda, c’era gente che mi diceva di non andare in quel locale o di non passare per quelle strade… invece non ho avuto mai dei problemi; pensa che ho suonato con Sugar Blue, un personaggio certo non tenero: beh! è stato gentilissimo, mi ha fatto salire sul palco e mi ha fatto stare al centro chiedendomi di cantare, e si è anche arrabbiato perché io non ero preparato e sinceramente avevo dei problemi a cantare nel suo gruppo così, di punto in bianco. Devo dire che sono stati tutti estremamente cortesi e visto che volevi parlare del mio disco Reason To Live, mi fa piacere dirti che Sugar Blue soltanto dopo aver ascoltato la mia cassetta mi ha invitato a fare un intero concerto con lui.

A questo punto parlaci del disco: com’è nato?
Anzitutto questo è il secondo album, il primo era un live ed è andato molto bene, la critica l’ha accolto con favore e si è anche venduto discretamente ai concerti, mentre molto meno bene è andato come distribuzione nei negozi. Quindi dopo questo primo episodio live, nato soprattutto come biglietto da visita per la band, era normale confrontarsi con lo studio di registrazione e con una musica blues che in qualche modo nelle mie intenzioni doveva uscire dai canoni classici; ed infatti i pezzi di Reason To Live sono tutti miei, salvo una cover di Get Back di Lennon McCartney. La domanda che mi sono fatto quando è nata la possibilità di fare questo album è stata semplice: “fino a che punto dobbiamo andare avanti a continuare a proporre sempre tre accordi e basta, e stare sempre su quelli?”. E chiaro che non stancano mai, però bisogna, secondo me, portare qualcosa di nuovo senza perdere di vista le radici. Non è facile riuscire in questo progetto e se guardiamo anche al panorama americano ci si accorge che pochi sono riusciti in questi ultimi anni a dare una svolta piacevole al blues senza staccarsi troppo dalla tradizione: a me risulta che Steve Ray Vaughan era partito in un modo ed è arrivato in un altro, Robert Cray lo preferivo molto più nelle cose iniziali che non nella sua produzione attuale… è difficile fare qualcosa di nuovo e contemporaneamente restare legati alle radici.

Affrontiamo questo discorso a livello formale: come hai lavorato in Reason To Live per creare un blues moderno che non tradisse la tradizione?
Io credo anzitutto di essere un buon musicista di blues, un musicista che da un punto di vista della costruzione musicale è però molto ‘ristretto’… voglio dire che non credo di avere le capacità di un Robben Ford o di un Robert Cray; quindi ho cercato di inserire delle varianti, di percorrere strade parallele al blues; di sicuro Reason To Live è un album sincero, non è stato fatto nulla per strizzare l’occhio a cose commerciali. L’album è stato registrato in fretta e furia con il problema di uno studio che forse non era così indicato per registrare un disco di blues. In più lo studio era enorme e noi abbiamo registrato tutto in diretta, non c’era quindi poi la possibilità di rifare questo o quello perché i microfoni di batteria e basso prendevano anche la chitarra. Non è un disco curato, anche se in fase di missaggio abbiamo cercato di tirare fuori certe sonorità, e tutti i pezzi sono stati fatti se non alla prima, alla seconda. Se pensi che il primo giorno abbiamo fatto i suoni, in realtà l’incisione vera e propria è stata fatta in due soli giorni.

Comunque al di là di ogni valutazione ovvia, tra il live e questo album di studio c’è una notevole diversità musicale.
Il disco sicuramente è più pulito rispetto alla resa che questi brani hanno dal vivo, ma tu sai benissimo che né io né i ragazzi del gruppo avevamo esperienza di sala, quindi ci siamo tenuti. Insomma c’era un po’ di tensione, e c’era anche se vuoi un’inconscia volontà di non strafare per evitare errori, perché incidendo in diretta ogni errore avrebbe significato rifare tutto da capo.

Comunque l’arrangiamento anche in concerto lo rispetti.
In linea di massima sì.

Vuoi descrivermi l’album pezzo per pezzo e dirmi che strumenti hai usato?
Ho usato praticamente per tutto il disco due sole chitarre, una Stratocaster del ’54 e una Telecaster del ’52 abbinate ad un Fender Super Reverb del ’62, un Vibroverb del ’62 ed un Marshall della serie Jubilee piccolino da 50 watt. Se poi mi chiedi che chitarra ho usato nei vari pezzi sinceramente non me lo ricordo. Allora: Money Money è stato il primo pezzo che ho composto da quando suono blues, quindi risale a cinque anni fa ed è un pezzo abbastanza tradizionale che nel disco appare in una versione direi notevolmente `cattiva’. The Last Time Baby è un giro tradizionale di blues ed anche negli assoli di chitarra è abbastanza pulito e tradizionale. In questo brano c’è la voce di Angela Brown, una grande cantante che purtroppo è ancora semi-sconosciuta anche se a livello europeo cominciano ora a notarla: è un grosso personaggio che in passato ha collaborato con grossi calibri; ora vive in Germania e canta un po’ in tutte le nazioni europee. I Don’t Pay No Money è una canzone cattiva dedicata ad uno dei santoni della televisione italiana, ed il testo lo dice chiaramente che io non pago soldi per andare a suonare in televisione. Reason To Live è forse il pezzo meno classico di tutto l’LP, un pezzo ecologico che parla dei soliti problemi dell’umanità. Get Back è un mio vecchio pallino, mi è sempre piaciuta e così l’ho incisa in questa versione shuffle.

Come mai un bluesman a contatto con i Beatles?
Musicalmente sono nato negli anni sessanta, quindi ascoltavo Beatles e Stones, comunque la mia versione di Get Back non è assolutamente un omaggio ai Beatles, devo dirti che il pubblico quando facciamo questo pezzo risponde benissimo, molto più del gruppo che non l’ha mai amato troppo. Dopo Get Back troviamo Tell Me Baby, uno shuffle tradizionale abbastanza vecchio, credo che abbia due anni ed è un pezzo che avevo suonato nel programma televisivo Jeans. Had A Friend è un lento, da un punto di vista armonico è un blues a tutti gli effetti; precedentemente l’avevamo registrato con un pianoforte elettrico che dava una sonorità ancora più moderna, poi per evitare di essere accusati di suoni californiani ci abbiamo messo un Hammond. Hold On è invece un funky ed anche qui c’è Angela Brown; quando uno fa un disco di blues credo che un brano che cammini nella direzione di questo Hold On debba esserci; noi oggi stiamo affrontando un pubblico diverso dal giro tradizionale del blues e sempre più diverso sarà, almeno mi auguro. Abbiamo, ad esempio, iniziato ad affrontare le discoteche e quindi senza nessun tipo di rinuncia o di snaturamento musicale puoi proporre la tua musica ed un funky ti offre la possibilità di far muovere il pubblico. Boogie In Do è un altro vecchio pezzo, uno strumentale semplice che si è sviluppato nel tempo, è un brano influenzato dalle cose che fa Albert Collins.

Prima parlavi del testo di Reason To Live: che importanza ha il testo nei tuoi brani?
lo vorrei dedicarmi sempre con maggiore impegno ai testi, però la mia conoscenza dell’inglese non è tale da potermi permettere di scrivere testi articolati come io vorrei. Per fare questo ho cercato di farmi aiutare da una ragazza che vive a Verona e che è appassionata di musica;  naturalmente prima scelgo il suono di certe parole, perché per me è fondamentale, poi cerco di farmi aiutare, comunque soltanto quando avrò una conoscenza totale della lingua inglese potrò scrivere dei testi se vuoi più impegnati. Voglio però sottolineare che in Reason To Live pur non essendoci testi alla Bob Dylan, ho evitato di scrivere le solite stupidaggini.

Torniamo alla musica: il tuo gruppo rispetto all’album live è cambiato?
Sì. Ora alla batteria c’è Cesare Valbusa e si è aggiunto un armonicista, Willy Mazzer, ed al basso c’è Roberto Morbioli mentre alle tastiere e al piano c’è sempre Riccardo Massari che purtroppo ci lascerà per seguire una sua carriera solista, e questo è per me un grande problema perché oggi il gruppo a livello professionale aveva raggiunto un livello di qualità e affiatamento veramente notevole. Purtroppo in Italia si ragiona troppo spesso in termini di musicista singolo ed invece io guardo più al gruppo. Da noi ci sono ottimi strumentisti, ma pochi buoni gruppi: adesso che tutto funzionava perfettamente Riccardo ci lascia e non sarà facile sostituirlo;  d’altronde anche tu recensendo il nostro LP live avevi sottolineato l’apporto enorme che Riccardo dava alla Rudy’s Blues Band e quindi capisci che non sarà facile trovare un pianista come lui, un pianista che si adegui a questa musica senza nessun problema.

La tastiera rimane comunque un elemento essenziale per la tua band?
Si, senz’altro.

La Rudy’s Blues Band è uno dei pochi gruppi italiani che suona spesso all’estero. Da cosa dipende?
Anzitutto vorrei dirti che in Europa non è che girino molti gruppi di blues, salvo quelle inglesi. Non è che trovi band francesi o tedesche. Per quanto riguarda il mio gruppo… beh! senza false modestie, so di avere una band che funziona bene e quindi faccio di tutto per arrivare a qualcosa di concreto. Suoniamo in Germania, in Olanda, in Austria e poi anche la pubblicazione di Reason To Live parla chiaro: quanti dischi di blues italiano sono distribuiti dalla EMI? Calcola che oggi solo in Italia circa mille punti vendita hanno il nostro disco o il nostro CD, e questo normalmente non accade. Tornando ai nostri concerti all’estero, devo dirti che qui in Italia il musicista blues spesso è considerato un barbone e subisce dei trattamenti economici veramente da fame; allora permetti che io se posso, ed il mio gruppo oggi me lo permette, vado all’estero dove la situazione è sicuramente migliore, e dove posso avere quel rispetto che in Italia non è ancora dato a chi fa del blues. Come gruppo anche il fatto di non aver partecipato a quei tre o quattro festival importanti che si tengono annualmente in Italia ci ha penalizzato come immagine, ma qui si rientra in un discorso ormai vecchio che coinvolge quelle persone che scelgono i gruppi che devono partecipare a certe rassegne. Io non so e non voglio sapere quale è la loro logica, ti posso solamente dire che poi quando suoniamo in Italia c’è una parte di pubblico che ti si avvicina e ti chiede come mai non hai partecipato a quel festival o a quella manifestazione.

Domanda provocatoria: ti conosco da ormai tre anni e sei un personaggio di una certa rigidità, sai quello che vuoi e come lo vuoi ottenere, sai che a volte bisogna pagare certi prezzi e non sei disposto a cedere, non suoni in una manifestazione o in un locale perché non hai certe garanzie, eppure oggi in questo Reason To Live alcune cose negli arrangiamenti o nelle armonizzazioni sono meno decisamente blues del solito o come tu stesso hai detto, inserisci un pezzo funky perché il pubblico delle discoteche vuole muoversi. Cosa sta succedendo a Rudy Rotta?
Non è una cosa voluta. Nel mio repertorio c’è un brano funky, io lo suono in giro da tempo, poi mi accorgo che in discoteca funziona bene e allora lo metto anche su disco… insomma non mi sembra di aver peccato. Poi c’è un’altra cosa: se ti esibisci in una rassegna blues davanti a diecimila persone, suoni in una certa maniera, se sei ad un festival blues davanti a cento persone e sai che conoscono il blues suonerai diversamente, così come se suoni in una discoteca. Per quanto riguarda la mia rigidità… behl io non ho sempre fatto il musicista e quindi ho impostato la mia vita in una certa maniera, aggiungi che ho quaranta anni e che in giro ci sono troppi imbecilli e vedrai che una certa rigidità è necessaria; comunque ancora non ho fatto le cose che voglio, cerco di farle e probabilmente le farò all’estero semplicemente perché in un paese come la Germania c’è più rispetto per la tua musica e per te come individuo. Voglio dire che è ora di finirla con il bluesman che beve due bottiglie di whisky al giorno, puzza e dorme in mezzo agli scarafaggi. Purtroppo in Italia, ed a me è successo, quando vai a suonare ed il posto è lontano da casa, per cui ti danno anche un alloggio, ti ritrovi veramente tra topi e scarafaggi e questo non è assolutamente sopportabile. Sembra quasi che fare il bluesman significhi vivere in un ghetto.

Che ne pensi di un blues cantato in italiano?
Ho avuto delle proposte, anche molto grosse, ma non ho accettato. Non mi trovo bene a cantare in italiano, comunque a dispetto della rigidità di cui parli, mi sono fatto fare dei testi in italiano, ma sinceramente mi veniva da ridere: musicalmente non c’è niente da fare, la lingua inglese ti permette cose quasi impossibili con la nostra. Oggi il problema non si pone nemmeno perché non voglio fare dell’Italia la mia patria concertistica quindi… sia chiaro che io in Italia ci sto benissimo e vorrei poter suonare sempre di più qui da noi, però mi sembra che in questo momento non ci siano le condizioni più adatte.

Che chitarristi ascolti attualmente?
Non ascolto molta musica attualmente, non so se è un bene o un male, ma voglio evitare di farmi influenzare da altri chitarristi. Caso mai preferirei farmi influenzare a livello compositivo, mi piacerebbe carpire qualche segreto a Robert Cray … Comunque se sento il desiderio di ascoltare un chitarrista, non sbaglio mai, torno al mio Magic Sam o a Buddy Guy, quando non si mette a fare il Van Halen della situazione, non tanto chitarristicamente quanto a livello delle situazioni in cui si mette. Io ho suonato anche nel suo locale assieme al fratello Phil Guy, devo dire che quando non impazzisce Buddy Guy è grande, ha una fantasia ed un estro che pochi altri hanno.

Giuseppe Barbieri, fonte Chitarre n. 54, 1990

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