Dopo anni di rinvii, prima annunciato, poi rimandato, poi allargato, ecco infine partire l’ambizioso e gigantesco progetto dell’americana Rounder (pioniera nel campo della musica etnica) di riproporre integralmente tutta l’opera registrata sul campo e non dal leggendario etnomusicologo Alan Lomax, un’opera monumentale pianificata in cento CD (e forse di più !!..) che usciranno nei prossimi anni e che vedremo quindi arrivare nei negozi specializzati con la forza di un uragano; sicuramente i boss dell’etichetta hanno fatto molto bene i loro calcoli cercando di cavalcare nel miglior modo possibile la crescente moda del momento ovvero quella musica etnica che va tanto per la maggiore.
Non importa di che tipo, di che paese o con quali strumenti, sembra che la popolazione mondiale sia stata improvvisamente assalita da questa febbre smodata per la musica popolare, fioriscono riviste, si organizzano concerti e sta diventando sempre più chic anche per artisti famosi in campo rock duettare con questo o quel gruppo africano o tirolese o zulù confermando come sempre la teoria degli estremi opposti, ovvero la musica etnica è sempre esistita solo che prima esisteva tra l’indifferenza generale, a beneficio di una ristretta élite mentre adesso tutti si sentono in dovere di conoscerla, è diventata quasi una mania collettiva, tutti si sentono intenditori e esperti, tutti sentono la necessità di dire la loro opinione e ormai i prodotti di questo genere musicale si trovano comodamente nelle edicole e nei supermercati: per carità, ben venga questo interessamento, ma per il sottoscritto puzza maledettamente di business.
Vogliate perdonare questo piccolo sfogo iniziale che c’entra poco sicuramente con il grande lavoro svolto da Alan Lomax, ma sono sicuro che andava fatto per mettere in guardia i lettori dal facile entusiasmo perché è in questi momenti di culmine del movimento etnico che le varie case discografiche raschiano il fondo del magazzino immettendo sul mercato anche prodotti beceri e assolutamente ridicoli tanta è la loro sicurezza che questo li assorbirà ugualmente.
Non è comunque il caso di questa opera e la Rounder, nonostante quanto detto prima, sta svolgendo un lavoro assolutamente meritorio in quanto metterà finalmente ordine in quel grande caos che è stato per anni lo sfruttamento delle bellissime e numerosissime registrazioni effettuate da Alan Lomax a vario titolo e per conto di svariate istituzioni e case discografiche, un lavoro epico e allo stesso tempo meraviglioso in quanto ci permette di aprire una finestra su quelle manifestazioni musicali, tipiche dei popoli, che sono al di fuori dei circuiti commerciali e dalle grazie dei media e che sarebbero altrimenti condannate all’anonimato o, peggio ancora, a sparire nell’oblio e nell’indifferenza generale in quanto trattasi di musica che le genti si tramandano di generazione in generazione.
Il grande merito di Mr. Lomax è stato (ed è…) soprattutto questo, l’aver reso di dominio pubblico questi grandi tesori musicali, queste testimonianze indelebili della cultura dei popoli, dei loro usi e costumi soprattutto musicali senza porsi mai il problema del “piacerà o no?” che tanti guasti sta apportando alla cultura generale in questo periodo glorificato al dio dell’audience; Alan Lomax, nato nel 1915, ha dedicato tutta la sua vita a questa ricerca musicale, che per lui ha rappresentato quasi una mania, un desiderio profondo da soddisfare continuamente e che ha impegnato tutte le sue forze alla continua ricerca di tutto ciò che poteva rappresentare in musica, un’etnia o una particolare zona del mondo.
Mr. Lomax, unitamente al padre, ha attraversato il Mississippi e l’Arkansas già nel 1941-’42, ma quando gli arrivò la notizia che gli stati del Sud stavano cambiando profondamente, riuscì a farsi finanziare una nuova spedizione effettuata negli anni 1959 e 1960 con l’ausilio, questa volta, di un equipaggiamento tecnico di registrazione veramente ottimo (un apparecchio Nagra portatile e stereo) e con un itinerario da coprire ancora più ambizioso: dai monti Appalachi agli Ozarks, dal Delta alle isole al largo della Georgia, all’epoca, queste ultime, completamente isolate e prive di acqua corrente ed elettricità.
Il grande etnomusicologo ha effettuato un’opera di registrazione veramente a tappeto, registrando tutto quello che cantava, ballava, raccontava storie e faceva del ritmo: blues, gospel, ballate, inni, reels, string band, orchestre di flauti, spirituals, work songs, folk songs, ecc, ore e ore di musica di tutti i tipi che all’epoca apparvero, parzialmente, nella prestigiosa serie edita dalla Atlantic con il titolo Sound Of The South (box di sette LP recentemente rieditato in formato CD) e in maniera molto più completa per l’etichetta Prestige nella serie intitolata Southern Journey e che comprendeva 12 LP mono. Adesso, appunto la Rounder decide di ripubblicare l’integrale di quella serie battezzata Southern Journey in tredici volumi comprendenti numerosi inediti, e soprattutto i brani sono presentati completamente remasterizzati con il procedimento digitale 20 bit che dona agli stessi un’aurea di magia, quasi da rito pagano e che, unitamente agli splendidi libretti allegati a ciascun CD (che comprendono quasi tutti i testi delle canzoni), ci danno l’impressione di essere nel profondo Sud degli States alla fine dei ’60.
Ebbene, i tredici volumi sopraccitati sono ora finalmente tutti disponibili e a questo punto conviene analizzarli singolarmente, anche soltanto per aiutare il lettore a districarsi nella miriade di pezzi e di generi musicali presentati, e per favorire la comprensione e l’apprezzamento per un’opera che comunque va sempre e soltanto valutata nella sua interezza; e qui il discorso è diverso perché l’importanza storico-musicale e documentaristica è certamente fuori discussione, qualsiasi appassionato di musica con la ‘M’ maiuscola dovrebbe avere in casa opere di questo tipo perché aiutano a capire certa musica attuale e perché aiutano a capire e a conoscere le tradizioni dei popoli altrimenti perdute per sempre.
Occorre subito precisare (contrariamente a quanto si potrebbe pensare) che non si tratta esclusivamente di musica eseguita da artisti neri e che, anzi, la grande maggioranza dei brani è eseguita da artisti o gruppi bianchi che eseguono anche generi musicali tipicamente neri come il blues e il gospel, con risultati anche apprezzabili e comunque giova soffermarsi, credo, soltanto sulla qualità musicale delle proposte evitando di cadere in una sorta di ‘razzismo’ musicale che non ha nulla a che vedere con lo spirito del progetto.
Il primo volume (Voices From The American South: Blues, Ballads, Hymns, Reels, Souths, Chanteys And Work Songs, Rounder 1701, 1997) si presenta con molte referenze per gli amanti del blues e il punto focale della raccolta è senza dubbio rappresentato dalla presenza di brani inediti del leggendario Fred McDowell, di Sid Hemphill e di Sidney Carter, quest’ultima grande interprete di spirituals e gospel e rappresentante magistrale dello spirito della savana africana trasportato nella campagna del Mississippi: ascoltarla mentre esegue lo splendido brano Walk In The Parler con quel suo stile interpretativo calmo e rilassato (accompagnata al banjo dal grande Lucius Smith) è sicuramente la maniera migliore per riconciliarsi con la musica e per apprezzare anche le strepitose doti vocali (soprattutto nel falsetto) della cantante che sembra quasi arrampicarsi sulle note musicali per non parlare poi del brano The Gospel Train eseguito dai Belleville A Capella Choir in maniera assolutamente superlativa.
Il secondo volume (Ballads And Breackdown: Songs From The Southern Mountains, Rounder 1702, 1997) è certamente ancora più accessibile per gli amanti del blues e i due brani Old Joe Clark e Black Annie, eseguiti rispettivamente da Wade Ward e da Hobart Smith, sono lì a dimostrarlo, esempi importanti per capire come il suono del banjo si sia modificato nel tempo con il passaggio dagli esecutori neri ai bianchi, stili diversi ma ottima qualità musicale come si può evincere anche dall’ascolto della famosissima John Henry, brano nero per eccellenza ma ugualmente affascinante anche nell’esecuzione di un bianco.
Ottimo anche il brano The Fox Chase che arriva direttamente dalla tradizione irlandese e vede Wade Ward, in coppia con Bob Carpenter, cimentarsi nell’imitazione molto spiritosa di versi di animali; il CD (registrato in otto giorni nell’agosto del 1959 sulle colline nel sud della Virginia) affronta, quindi, stili diversi e soggetti vari come la commedia sensuale (The Bruglar Man) oppure le tribolazioni del matrimonio e dei figli (Single Girl) ed è quindi consigliato anche e soltanto per l’aspetto musicale, agli amanti del country blues.
Il terzo volume (61 Highway Mississippi: Delta Country Blues, Spirituals, Work Songs And Dance Music, Rounder 1703, 1997) è sicuramente quello interamente dedicato al blues e al gospel nero e tutti gli artisti presenti sono, chi più chi meno, già stati ascoltati in altre antologie con l’unica eccezione di John Dudley che certamente sotto questo nome cela un’identità diversa, forse qualcuno degli stessi artisti presenti nel CD in quanto è impossibile (tanta è la bravura) che sia al momento stesso un formidabile virtuoso strumentista e un imitatore così talentuoso dei grandi del passato come Charley Patton e Tommy Johnson, e infatti la sua versione del brano Clarksdale Mill Blues non è certo inferiore all’originale di Mr. Patton e comunque (questo è quello che conta!) rappresenta ottimamente il Delta.
Il resto del CD inoltre ci presenta tutte esecuzioni di altissimo livello a cominciare dai brani (splendidi!) registrati nel tristemente famoso penitenziario di Parchman, tutti veramente commoventi e di altissima intensità emotiva per proseguire poi con gli altri brani eseguiti direttamente nelle fattorie nel nord del Mississippi, dove l’improvvisazione degli artisti la fa da padrone senza mai intaccare la qualità tecnica delle esecuzioni che resta assolutamente sublime e che fa di questo CD la punta di diamante (per i bluesofili!) della serie in questione.
Il quarto volume (Brethren, We Met Again: Southern White Spirituals, Rounder 1704, 1997), come si può intuire dal titolo, è interamente dedicato allo spiritual bianco degli stati del Sud e, per il tipo di musica che appunto tratta, possiamo accomunarlo, nell’analisi, con gli altri due CD dedicati quasi allo stesso genere ovvero il volume nove (Harp Of A Thousand Strings – Sacred Harp Singing Alabama 1959, Rounder 1709, 1998) e il volume 10 (And Glory Shone Around – Sacred Harp Singing, Rounder 1710, 1998), questi ultimi registrati live al Fyffe Alabama Sacred Harp Convention del 1959. Probabilmente i puristi di gospel, spirituals e gruppi vocali e/o a cappella tutti rigorosamente neri, saranno li a storcere il naso e soprattutto i timpani, ma l’importanza di queste incisioni è indubbiamente storico-musicale e serve per farci capire che esisteva (ed esiste…) anche una cultura musicale-religiosa bianca dedita a questo tipo di manifestazioni cristiano-canore che si pensava fossero di totale dominio della popolazione nera.
Il CD in questione ci presenta numerosi brani di artisti in solitaria oppure di piccoli combo al seguito di predicatori che, forse anche per un discorso razzista mai completamente sopito soprattutto in Alabama, cercano in tutti i modi di rubare la scena ai loro colleghi di colore e qui non vogliamo assolutamente entrare nel merito del discorso tecnico o nei paragoni tra la tecnica e la qualità musicale delle proposte, sicuramente il discorso diventerebbe fazioso in quanto ognuno propenderebbe per quelli che sono i suoi gusti musicali e le sue preferenze interpretative e il giudizio non sarebbe neutrale.
Noi invece vorremmo soltanto soffermarci sull’importanza di tale documentazione sonora per la completezza del panorama musicale offerto, che permette appunto di avere la possibilità di giudicare anche un aspetto della musica bianca che magari ai più risultava sconosciuto. In particolare i due volumi dedicati alle armonie dei Sacred Harp merita senz’altro un ascolto e un approfondimento da parte dell’appassionato del genere in quanto trattasi pur sempre di musica sacra, i cui testi non sono certamente diversi o inferiori agli altri, si parla comunque e sempre di inferno e redenzione, di peccati e dannazione eterna e le qualità vocali degli esecutori sono una vera sorpresa.
Ascoltate ad esempio il brano Sherburne (incluso nel volume nove) eseguito dagli Alabama Sacred Harp Convention e registrato nel 1959, un brano che parla dell’apparizione dell’angelo del Signore che annuncia la nascita del Salvatore, un inno che parla quindi del Natale e che sorprende non tanto per il testo ma per le doti vocali dell’ensemble, per l’assoluta padronanza tecnica e stilistica del gruppo che non fa certamente rimpiangere le esecuzioni dei gruppi gospel doo-wop di colore ma tant’è, sarà il pubblico a decidere, e comunque ripeto che, estraniandosi per un attimo dall”intregalismo nero’ del genere, l’ascolto vale certamente la candela, non ve ne pentirete!
Moreno Matteoni, fonte Out Of Time n. 27, 1998