Tony Rice

Dalla metà degli anni ’70, quando si parla di chitarra contemporanea flatpicking, il primo nome che viene in mente è quello di Tony Rice. Mostruoso, sfavillante ed imbattibile sul suo strumento ora Tony non si accontenta più di essere solo un grande chitarrista. I suoi confini si sono allargati, le sue ambizioni cresciute: non c’è dubbio, il futuro è nelle mani di Tony Rice. Dal bluegrass allo spacegrass, dalla musica old time al country d’autore, dalle composizioni originali alle cover dei grandi maestri, inchiniamoci davanti alla scelta di Tony.

E’ stato nell’agosto del 1979 allo Universal Amphitheatre di Hollywood, California, che avvenne il mio primo ‘incontro ravvicinato’ con Tony Rice.

Percorrere la U.S. 101 da San Francisco a Los Angeles, senza superare il ‘double nickel’ (che, nel linguaggio dei ‘truck drivers’, è il limite di velocità delle highways americane fissato a 55 mph, poco meno di 90 chilometri l’ora) significava farsi un bel nove ore non-stop che, pur alleggerite da un incantevole e vario paesaggio, dovevano essere molto giustificate. Eppure quando, sfogliando il Bay Area Magazine, scoprimmo che il giorno dopo, ad Hollywood appunto, il David Grisman Quintet avrebbe aperto un concerto di Graham Nash non ci furono esitazioni: via, più veloci della luce, destinazione L.A. David Grisman più Graham Nash: quale più valida giustificazione per fare tutto d’un fiato uno dei più classici (e consigliati) tragitti del turismo californiano?

Lo Universal Amphiteatre è situato a fianco di quell’enorme complesso turistic-fieristic-cinematografico degli Universal Studios, cuore della produzione hollywoodiana degli ultimi anni e casa di megaprogetti quali Lo Squalo, Guerre Stellari, ecc, che vengono quotidianamente riproposti a migliaia di turisti di tutto il mondo sotto forma di attrazioni stile Disneyland. L’Amphiteatre è una di quelle strutture di cui tanto sentiamo la mancanza in Italia: sette/ottomila posti a sedere, comodi, da dove si vede e si sente benissimo, unicamente dedicati alla musica.

E lí, davanti a un ‘tutto esaurito’ da brivido, salì sul palco il quintetto quasi originale di David Grisman. Quasi originale perché Mike Marshall era già della partita con il bravo Todd Phillips confinato al contrabbasso. Dei settemila presenti, in verità solo io e pochi altri erano lì ‘anche’ per ‘The Dawg’: il resto era in attesa di poter cantare Teach Your Children o Won’t You Please Come To Chicago.

Nella pur non facile situazione, devo dire che Grisman & Co. fecero un figurone: applausi scroscianti, grande entusiasmo, richieste di bis. Fu allora che Grisman presentò Rice con il classico “Ladies & gentlemen, the greatest guitar player in country music: Mr. Tony Rice”. Bene, quelle parole che allora mi parvero un tantino enfatiche, sarebbero forse le stesse che, oggi, a distanza di quasi dieci anni, io vorrei usare se avessi la fortuna di presentare Tony Rice. Non solo: allargherei i meriti di Tony, che ormai vanno ampiamente al di là del semplice virtuosismo chitarristico, definendolo uno “dei migliori artisti country degli ultimi anni”.

Non deve essere stato facile per Tony Rice scrollarsi di dosso il marchio di chitarrista-mito. In primo luogo, credo, dal punto di vista psicologico. A parte il talento naturale, deve essere stato enorme, lungo e faticoso il lavoro tecnico che ha permesso a Tony di sviluppare quel suo stile chitarristico personalissimo, variegato e straordinariamente fluido che io definisco ‘liquido’. Non trovo infatti altro aggettivo che possa descrivere in modo appropriato le fresche cascate di note che scaturiscono dalla Martin di Tony morbidamente e senza apparente sforzo.

Fonte di ispirazione di migliaia di giovani flatpicker, a sua volta lo stile di Tony Rice è stato influenzato dal culto di grandi miti della sei corde come Doc Watson o Clarence White così come dalla musicalità di artisti quali Bill Evans, Dexter Gordon o John Coltrane. Il fraseggio creativo, le capacità improvvisative, il volume (già, pare che Tony sia uno dei pochi chitarristi in grado di competere con lo strapotere acustico del banjo!) e l’incredibile tono hanno fatto e fanno tuttora di Rice un chitarrista irraggiungibile. La sua fama e il suo carisma sono così solidi che il nome di Tony Rice è diventato, nel campo della chitarra flatpicking, quello che Maradona è nel calcio, Pavarotti nella lirica, Baryshnikov nel balletto: il massimo, il top, il numero uno.

Facile sarebbe stato cullarsi sugli allori e continuare una produzione intesa a valorizzare un chitarrismo sempre più fatto per stupire. E invece no. Le prime avvisaglie della grandezza artistica di Rice si ebbero nel 1980 quando, senza molto clamore, uscì uno dei più bei dischi della storia della musica country: Skaggs & Rice, straordinario gioiello musicale ed esemplare lezione di come sia possibile fare arte con una chitarra, un mandolino e due voci.

Tony Rice, in quel periodo, era in pieno ‘trip’ da dopo-Grisman, quando con il suo gruppo (The Tony Rice Unit) aveva coniato la sua personale formula alla New Acoustic Music, il cosiddetto ‘spacegrass’. Devo ammettere che la versione ‘spaziale’ di Rice non ha mai convinto: forse proprio per mancanza di una forza propulsiva e di una originalità che permettessero a Tony di entrare davvero in orbita. Molto meglio, allora, l’ibrido di Manzanita, dove venivano rivisitate melodie tradizionali con classe e sufficiente innovazione da renderle prodotto valido ed attuale.

In questa alternanza di generi e di proposte uscì abbastanza a sorpresa un’operazione che risulterà fondamentale per il rilancio del bluegrass nei primi anni ottanta. L’idea fu quella di formare una super-band che riproponesse la collaudata formula ‘erba-blu’ con due importanti varianti: pescare dal repertorio dei grandi maestri alcuni brani meno sfruttati e arrangiarli con cura, pulizia e con un intelligente e raffinato uso del back-up. Voilà, nacque così The Bluegrass Album di cui Tony fu indiscusso leader e cervello. Grande successo (anche economico) per una band che nella realtà non esisteva (ciascuno dei 5 interpreti aveva infatti consolidate carriere con il proprio gruppo).

Sorvolando sul fatto che il primo disco (forse il migliore) fu registrato in  due soli giorni (!!), nel progetto Bluegrass Album troviamo l’altra fondamentale svolta della carriera di Tony: la scoperta di essere un grande cantante. A testimonianza di ciò, non vi è infatti, in tutto il primo disco della serie, la minima traccia di un assolo di chitarra. Rice spiegò che obiettivo del gruppo era quello di riproporre lo schema della bluegrass band tradizionale dove il massimo della libidine per il chitarrista è esibirsi in un G-run di flattiana memoria.

In realtà, molto più verosimilmente, Tony volle mettere se stesso alla prova di una virata artistica ancora più brusca di quella di Skaggs & Rice. Il successo della Bluegrass Album, superiore alle aspettative, se convinse definitivamente Tony al suo ruolo di cantante in un certo senso gli creò nuovi bisogni chitarristici, questa volta perfettamente esauditi da Church Street Blues, altro album capolavoro in cui venne ufficializzato il tributo di Rice ai suoi grandi ispiratori: Watson, White e Blake.

Ma è dal lavoro successivo (Cold On The Shoulder) che il progetto di Tony Rice comincia a prendere una forma definitiva grazie a proprie composizioni, rivisitazioni di brani di cantautori come Gordon Lightofoot o Townes Van Zandt, arrangiamenti moderni ed originali. Lo spacegrass, la musica di tradizione, il suono country, la tecnica stellare: tutto si miscela perfettamente nella nuova produzione in un magnifico equilibrio musicale e sonoro.

L’ultimo album Me And My Guitar (già, proprio il pezzo di James Taylor!) è il suggello della nuova formula. Un amico comune mi ha confidato che Tony è in un periodo d’oro perché sente di aver trovato la sua strada e ne è felice. Ha scelto dei compagni di avventura adatti al suono che voleva ottenere e sufficientemente rodati dal punto di vista personale per sopportare le lunghe ore di convivenza. E’ abbastanza conscio del fatto che, nonostante un recente abboccamento della Columbia, il suo sarà sempre un ‘labour of love’ per la musica, quella con la emme (e non con il simbolo del dollaro) a lettere maiuscole.

Tony ha fatto la sua scelta: a noi il piacere di seguirlo.

Ezio Guaitamacchi, fonte Hi, Folks! n. 25, 1987

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