E’ ormai evidente a tutti che la pubblicazione di cofanetti e tributi è diventato un fatto meramente commerciale ed assolutamente privo di contenuti che non siano una manciata di inediti e la riunione di vari artisti che, bene o male, possano motivare l’acquisto del dischetto. Così, l’enorme ondata di ‘ricordi’ che è arrivata sul bagnasciuga del mercato, ha coinvolto artisti grandi, meno grandi ed altri francamente inutili da celebrare; ma è altrettanto certo che, questa confusione ha travolto ed ha nuociuto a chi, invece, meritava questo tipo di riconoscimento, rischiando di passare così inosservato o, semplicemente, di arrivare a portafoglio ormai vuoto.
Mi auguro che non siate in quest’ultima condizione, poiché No Big Surprise, vale veramente la spesa e, visto che oltre alla straordinaria qualità artistica della musica di Steve Goodman, possiamo cuccarci la bellezza di 23 brani inediti, tra versioni live ed in studio, penso che non possano esserci esitazioni su un acquisto che appare doveroso.
Dal ’70 all’84 Steve è entrato ed uscito dal mondo delle sette note in punta di piedi, facendosi conoscere ed apprezzare, più attraverso gli altri che in prima persona, ma lasciando ben impresso in tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, il marchio indelebile della sua personalità. Johnny Cash ricordandolo diceva: “Era un uomo molto comprensivo, sempre disponibile e pronto al sorriso. Il suo talento era unico e noi vorremmo averlo ancora qui. Io canto ancora le sue canzoni, a volte da solo. Ci manchi Steve”.
Molti hanno cantato le sue canzoni e molti le canteranno ancora per lungo tempo, quantomeno quelli che amano il vero spirito della canzone americana. L’esordio su vinile di Steve Goodman risale al 1970 con tre pezzi su un album della Dunwich, ormai introvabile, che lo impose subito all’attenzione della critica e della Buddah, che, in quegli anni, vantava uno dei più bei cataloghi sul mercato. Messo sotto contratto, ci volle poco meno di un anno per avere il primo vero album, destinato a notevoli traguardi, sospinto anche dall’enorme successo che Woodstock aveva tributato alla sua City Of New Orleans, che Arlo Guthrie aveva magistralmente interpretato, facendone il vero inno del raduno.
A questo punto, le porte per Steve erano tutte aperte: il suo talento, la sua sensibilità, la carica umana positiva avevano contagiato tutti gli operatori e tutti volevano lavorare con Steve e cantare le sue canzoni.
Nel 1972 Somebody Else’s Troubles, lascia ancora una volta stupiti; siamo di fronte ad un capolavoro, un esempio di arte cristallina, innovativo e rispettoso della tradizione, aveva proposto la perfetta fusione di quanto di meglio l’America fino ad allora aveva cantato tra folk, country e blues.
L’amicizia con David Bromberg, altro astro nascente, aveva garantito il sound ideale alle canzoni di Steve, perfettamente in equilibrio tra l’acustico, l’elettrico e l’orchestrale, condividendo inoltre, quella vena ironica che sarà sempre uno dei cardini del songwriting goodmaniano.
Un altro personaggio che fa capolino nella sua vita in questo periodo, è un John Prine allo ‘sbando’, in cerca di una identità messa in discussione sia nella vita che nella musica; a metà strada tra il rock ed il blues, Prine viene ricostruito da Steve che ne riconosce la vena folk ruvida ma pura, facendolo quasi diventare la voce dei propri sentimenti.
Jessie’s Jig And Other Favourites del ’75, su Asylum, vede Steve all’apice della propria carriera: popolarità e successo, per l’antitesi della star, sono forse più un castigo che un premio, ma non riescono neppure a scalfire la sua semplicità.
Il sound dell’album si arricchisce di suoni arrangiati con sempre maggiore proprietà e la lezione di Goodman con il vinile, diventa pressoché annuale e così il ’76 ci porta Words We Can Dance, l’album della maturità artistica e della coscienza dei propri mezzi espressivi, anche se questa volta il risultato ci appare in qualche caso, fin troppo ridondante nell’arrangiamento mentre, peraltro, la vena melodica è quanto mai felice e brani come Banana Republics, saranno destinati a diventare dei classici.
L’album successivo trova Goodman impegnato a riportare la sua musica entro i binari di sonorità a lui più consone, magari meno ricche ed originali, ma sicuramente più vicine alla sua personalità ed alla sua recuperata ispirazione; il fiore all’occhiello, questa volta, si intitola My Old Man.
Negli anni successivi si apre il capitolo della lotta alla leucemia, una battaglia improba e destinata al peggiore epilogo, ma che viene vissuta con estremo coraggio, senza cedimenti apparenti alla disperazione, anche se spesso la malinconia viene a velare l’humour ed il sorriso di Steve, confondendolo con una smorfia: la copertina di Say It In Private diventa un oscuro presagio. Hot Spot nell’80 non riesce a camuffare un certo smarrimento, si ha quasi l’impressione che l’artista voglia chiamarsi fuori, alla ricerca di una tranquillità irrinunciabile e sentita come definitiva; malinconia e humour non riescono a fondersi come in passato e il risultato non riesce ad uscire dalla mediocrità della canzone commerciale quasi di routine.
Ci vogliono ben tre anni per riascoltare Goodman su vinile, tanto tempo intercorre tra la pubblicazione di Hot Spot ed Artistic Hair, con il quale ci presenta anche la sua label, la Red Pajamas. L’album è dal vivo ed ha nel successivo, a pochi mesi di distanza, Affordable Art, parte in studio e parte live, un suo naturale secondo capitolo. Sono 2 LP in cui il suono diventa, volutamente, sempre più acustico per poter essere più immediato e comunicativo, forse più intimo nel suo rapporto finale con chi lo ha amato e seguito nella sua carriera. Il senso del tragico nella voce, diventa più forte e le interpretazioni si fanno più liriche e toccanti ed a nulla servono gli ammiccamenti e l’ironia per nasconderne il destino. Santa Ana Winds è l’ultimo capitolo della sua storia dal vivo, l’ultimo regalo di un grande artista prima di concedersi un ‘immeritato riposo’, e forse è uno dei suoi lavori più riusciti, in cui ritorna al suono corposo dei suoi giorni migliori ed a comporre le sue ballate nelle quali tutta l’America si può riconoscere.
Goodman se ne va, da qui in poi, tra un tributo e l’altro, passando per Infinished Business, si arriva a questo No Big Surprise che, oltretutto, mente spudoratamente poiché di sorprese ne riserva parecchie, sia dal vivo che in studio; 23 inediti non possono non essere una grossa e gradita sorpresa. Il doppio CD ripercorre l’intera carriera del cantautore, senza trascurare nessun periodo, ripescando sia i brani più famosi che quelli, forse non capiti dal pubblico, ma meritevoli di essere riscoperti; e poi i brani dal vivo, nei quali l’istrionismo semplice e la comunicativa di Steve traguardano la freddezza del dischetto per arrivare al cuore di chi ascolta.
Gradevole, divertente, intrigante e musicalmente esemplare, Goodman rappresenta il classico songwriter senza tempo, adatto a tutti i palati e che neppure quella strana voce nasale, riesce a far diventare ingombrante.
“…Era un uomo generoso, con la sua passione per la famiglia, gli amici, la musica. Egli amava il mondo, io penso, ma più di tutto amava la gente che ci vive dentro. …Ed alla fine lui ci ha regalato se stesso nelle sue canzoni” (Emmylou Harris).
Un must per Natale!!!
Red Pajama RPJ008 (Singer Songwriter, 1994)
Claudio Garbari, fonte Out Of Time n. 7, 1994
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