Il recente successo incontrato da Suzanne Vega ha finalmente riportato in auge una figura non certo in via d’estinzione ma comunque assai trascurata dal grosso pubblico e dalle maggiori compagnie discografiche: il cantautore acustico d’ispirazione folk.
Benché dotata di una classe eccelsa e di altre virtù non del tutto comuni, la Vega infatti non è altro che uno dei mille frutti sbocciati in quell’eterna fucina di talenti nota come Greenwich Village. Vera e propria istituzione della cultura statunitense, il Village (come viene abitualmente chiamato dai suoi residenti) è molto diverso dagli altri quartieri di New York, sia per la singolare architettura che pare rimasta ferma all’inizio del secolo e crea un contrasto stridente con i grattacieli che lo circondano, sia per lo spirito cosmopolita ed intellettuale di cui è pervaso che lo rende un ambiente libero e creativo come pochi altri al mondo. Da sempre ritrovo degli artisti di ogni specie e colore (e soprattutto di quelli alla ricerca di fortuna nella grande metropoli), già negli anni ‘4O-‘5O la zona era la base permanente di Woody Guthrie, Pete Seeger e molti altri nomi che hanno rappresentato il punto di partenza del Folk Revival americano.
E’ stato però negli anni ’60, con la definitiva esplosione ed il relativo sfruttamento commerciale del folk urbano, che il quartiere è divenuto il fulcro della scena musicale americana, la terra promessa di quella che fu definita “la progenie di Woody Guthrie”. Accanto ad indomiti leoni, come l’eterno Pete Seeger ed il non meno esperto Jack Elliot, c’erano allora molti volti nuovi pieni di speranze e di buone intenzioni, musicisti che avevano trovato nel folk-song il veicolo ideale per raccontare le loro esperienze, per esprimere le proprie sensazioni e le proprie prese di posizione verso problemi come il Vietnam ed i diritti civili, al tempo particolarmente sentiti:
“A quell’epoca la gente aveva ancora illusioni e delusioni.
(…) Allora c’era spazio e nessuna pressione. Avevamo tutto il tempo che volevamo, non c’erano pressioni perché nessuno sapeva cosa stava succedendo. Così a Washington Square incontravi gente che conoscevi ed era un mondo fatto di musica.
(…) Potevano esserci venti cose differenti, magari duecento gruppi tutti nello stesso parco: quindici jug bands, cinque bluegrass bands ed una vecchia, sgangherata string band, venti gruppi irlandesi, una southern mountain band, cantanti folk di ogni colore che cantavano John Henry.
(…) Bongos, congas, sassofonisti, vibrafonisti, batteristi di ogni nazione e nazionalità, poeti che correvano e deliravano aggrappati a qualche statua. Sai, queste cose non succedono più, ma questo è quanto accadeva allora.
(…) Questa è la New York che trovai quando vi arrivai negli anni ‘6°.” (Bob Dylan, nella storica intervista a Playboy nel marzo 78).
Ogni posto dunque era buono per discutere e fare musica, da Washington Square alle centinaia di coffee-houses sparpagliate in tutto il Village, locali poi entrati nella leggenda, come il Bitter End, il Gaslight, il Gerde’s Folk City; qui mossero i primi passi Bob Dylan, Eric Andersen, Tom Paxton, Phil Ochs e tanti altri che il tempo ha dimenticato. Inutile dilungarsi ora su quel fenomeno irripetibile poiché già è stato esaminato e approfondito da molti critici ed autori. Diciamo piuttosto che, una volta conclusosi quel periodo d’oro, il Greenwhich Village è sembrato cadere quasi in una sorta di letargo diventando per molti poco più che una tappa nel giro turistico di New York – non solo per quel che concerne la musica ma il campo delle arti più in generale. Eppure, anche negli anni considerati più bui quando la scena musicale era dominata dai primi fermenti new wave, il Village non ha mai smesso di produrre o di ospitare talenti nel campo della canzone folk d’autore: è sempre lì infatti che sono maturati artisti come Steve Forbert, Sammy Walker, Loudon Wainwright III e le Roches, solo alcuni fra i tanti attratti dal fascino irresistibile del quartiere e dall’idea di ripetere le gesta dei loro eroi.
Nonostante la loro comparsa sulla scena sia stata isolata, senza la minima parvenza di un movimento, è anche grazie ai loro sforzi che, verso la fine dello scorso decennio, il cantautorato americano è nuovamente sbocciato mostrando i segni di una vitalità non certo pari a quella del passato ma tuttavia creativa e pulsante.
Principale responsabile di questa rinascita è un nativo di Aspen, Colorado, che dopo essere giunto a New York senza destare il minimo clamore, si è reso protagonista e propulsore praticamente di tutte le più interessanti iniziative riguardanti la locale scena folk. Accompagnandosi con la chitarra e l’armonica, come avevano fatto i suoi idoli del passato, qui Jack Hardy prese a frequentare i bar e i pochi altri posti a lui accessibili trovando comunque terreno fertile per le sue canzoni e le sue idee. Rifiutando ogni compromesso e muovendosi in un contesto perlopiù sotterraneo, Hardy ha realizzato da allora una mezza dozzina di dischi autoprodotti che l’hanno rivelato come autore ed interprete personale ed intelligente.
The Nameless (Great Divide 1761) e Landmark (Great Divide 1762) sono forse le sue opere più felici, due gemme imperdibili che non rinnegano il passato ma intendono al contempo rinnovare il linguaggio della musica folk senza trascurare l’importanza degli strumenti elettrici.
Accanto a Jack Hardy si sono lentamente riuniti altri giovani artisti che hanno trovato rifugio in un piccolo ma accogliente locale chiamato Cornelia Street Café, nato solo nel 1977 ma immediatamente trasformatosi nel luogo ideale per incontrarsi, scambiare idee, discutere e soprattutto fare canzoni.
Questa ritrovata attività comunitaria, del tutto scevra da qualunque tipo di invidie o gelosie personali, ha avuto una sorta di consacrazione ufficiale con l’uscita dell’album The Songwriters Exchange (Stash ST 301) che raccoglie le primissime registrazioni di cantautori come David Massengill, Rod Mc Donald, Tom Intondi, Brian Rose ed altri non meno validi nomi che sono arrivati a ridar lustro al Greenwich Village.
Alcuni di essi, sempre sotto l’egida di Jack Hardy, nel 1980 si sono organizzati stabilmente come gruppo con l’intento precipuo di portare ad un pubblico più grande le loro canzoni cercando contemporaneamente di non fossilizzarsi su uno stile vecchio e superato. Dopo vari cambi d’organico il gruppo, noto come Song Project, si è assestato nel quartetto comprendente Tom Intondi, Frank Christian, Martha P. Hogan e Lucy Kaplancky, lo stesso che pochi mesi fa ha realizzato lo stupendo In Rome (Folkstudio FK 5019) che Dave Van Ronk ha presentato così egregiamente nelle note di copertina: “I loro arrangiamenti sono originali, utilizzando armonie raramente ascoltate nella musica folk. Un vasto campo dinamico, con una intonazione impeccabile, un ottimo sottofondo strumentale e con un repertorio eccezionale che ha permesso di definire il gruppo come il più eccitante ed innovativo dopo i Weavers”.
Di tutte le iniziative partite da Jack Hardy la più importante è senz’altro la creazione di una cooperativa che riunisce molti di questi artisti al fine di far conoscere in svariati modi la
migliore produzione del Village. The Coop, questo il nome dato all’organizzazione, ha chiuso i battenti nel 1983 per problemi legali ma resta in pratica attiva su più fronti: oltre a coordinare l’attività di un Club di nome Speak Easy, essa si occupa in particolare della pubblicazione mensile di una rivista battezzata Fast Folk Musical Magazine sulle cui pagine trovano spazio dibattiti, interviste, notizie di concerti, profili di artisti e, soprattutto, canzoni. Allegato alla rivista ogni mese c’è un L.P. realizzato con pochi mezzi e copertina quasi sempre spartana che tuttavia dimostra come la situazione musicale sia estremamente vivace e ricca di buoni propositi. Questa singolare iniziativa permette di far circolare musica di grande qualità lavorando nel più completo autocontrollo e soprattutto mantenendo i costi molto bassi; i dischi infatti vengono generalmente incisi nel piccolo studio domestico del bassista Mark Dunn con una strumentazione semplice ma efficiente e vengono quindi prodotti con il sistema già adottato da molte etichette indipendenti (ogni provento viene cioè immediatamente reinvestito per la realizzazione di un nuovo album).
Accanto a protagonisti dimenticati come Steve Forbert e Sammy Walker e a gloriosi alfieri come Dave Van Ronk e Oscar Brand, molti dei musicisti provenienti dall’attuale giro del Greenwich Village (fra cui la stessa Suzanne Vega) hanno trovato un adeguato sbocco alla loro musica proprio attraverso i dischi prodotti da The Coop. Frank Christian è uno di questi. Già presente su The Songwriters Exchange e membro dei Song Project, Christian è da tempo uno stretto collaboratore di Jack Hardy nei cui lavori è spesso apparso come chitarrista. Di recente ha debuttato con un lavoro personale intitolato Somebody’s Got To Do It (Great Divide 1746) che lo vede protagonista di una manciata di canzoni delicate ed amare, talora lievemente impregnate di blues.
Altro artista da tenere in considerazione è Rod Mc Donald, l’autore della bellissima Saylor Prayer che proprio i Song Project hanno incluso nel loro disco e che pure Happy Traum ha voluto riprendere e registrare nel suo Friends And Neighbours (Folk Freak FF 4O.4O15).
Ex cronista della rivista Newsweek, Mc Donald ha finora inciso un paio di album dei quali il più recente dovrebbe essere Album 2/For Sale (Autogram ALLP 287), uscito lo scorso anno e non di impossibile reperibilità.
Ancora c’è da dire di Christine Lavin, co-editrice di Fast Folk e autrice dotata di humor, perspicacia ed acutezza. Il suo recente Future Fossils (Philo PH 1104) contiene una serie di motivi che descrivono abilmente le molte imposizioni della società contemporanea con uno stile che deve molto alla ballata più classica ma non disdegna di incorporare elementi estranei come il ragtime.
E poi naturalmente c’è Suzanne Vega…
Forte dell’appoggio della A&M e grazie alle maggiori possibilità che un simile contratto le ha offerto, la dolce Suzanne ha raccolto consensi un po’ ovunque, sia fra il pubblico che fra la critica specializzata. Il suo lavoro d’esordio, semplicemente intitolato Suzanne Vega (A&M 395O72-1), è arrivato a conquistare un disco d’argento ed ha ottenuto ottimi piazzamenti nelle classifiche, così come il singolo che ne è stato tratto (Marlene On The Wall), facendo immediatamente di lei una piccola star. Certamente una delle più gradevoli sorprese degli ultimi tempi, Suzanne Vega è riuscita a condensare tutto il suo universo lirico e sonoro in un collage di canzoni che ci auguriamo ripetibile poiché già il suo nuovo singolo Left Of The Centre (dalla colonna sonora del film Pretty In Pink) è permeato di timbri rock che non le si addicono e contrastano apertamente con le sonorità morbide, dolci e vagamente decadenti del debutto.
Nonostante ciò questa giovane ragazza – che nelle sue interviste cita usualmente Leonard Cohen, Bob Dylan, Laurie Anderson e Lou Reed fra le sue influenze – resta un personaggio di grande talento e capacità artistica: la sua musica, o perlomeno quella che esce dai solchi del disco, pare a tratti fredda ma è altresì espressiva e raffinata, le sue liriche sono sempre emotive, coinvolgenti e profondamente connesse alla realtà che la circonda.
Il suo stesso successo inoltre potrebbe finalmente spalancare le porte ad altri misconosciuti e validi cantautori che premono alle sue spalle ma che, per volontà propria o per pura sfortuna, sono ancora lì in attesa del loro momento propizio per emergere definitivamente dall’ombra.
I nomi di Cliff Eberhardt, Bill Bachman, David Roth, David Massengill, Caroline Mc Combs, Richard Meyer, Tom Mc Ghee, Lydya Davis, John e Rob Stachan (tutti più o meno regolarmente apparsi sui vari dischi editi da Fast Folk) non diranno ancora molto al pubblico nostrano ma testimoniano indubbiamente i nuovi fermenti che agitano le acque inquiete del Greenwich Village.
Certo la scena del quartiere newyorchese oggi è molto diversa da quella di vent’anni fa, pochi locali sono sopravvissuti al passare delle mode, altri hanno chiuso i battenti o si sono necessariamente dovuti convertire al nuovo rock.
Anche le grosse case discografiche, con qualche rarissima eccezione, hanno finora snobbato il fenomeno preferendo semmai proseguire nell’inutile ricerca del ‘nuovo Dylan’, un motivo che è ricorso praticamente dalla metà degli anni ‘6O sino a tempi recenti risultando sempre anacronistico e poco conveniente per gli artisti stessi che di volta in volta si sono visti appiccicare addosso questa scomoda nomea.
Ma, a dispetto di tutte le difficoltà che incontra chi vuole cantare folk oggi a New York, c’è entusiasmo, partecipazione e tanta voglia di fare. Una pietra insomma è stata scagliata, ora staremo a vedere cosa succederà e se potremo prima o poi parlare di ‘progenie di Bob Dylan’.
Massimo Ferro, fonte Hi, Folks! n. 20, 1986