SXSW 2000

“Ho fatto quel che ho fatto perché mi andava. Quattrini? Sempre pochi. Problemi? Beh, di quelli ne ho avuti anche troppi… Io sapete, sono stato in galera e ho provato in tutti modi a distruggere ciò che mi è stato donato, sì perché la musica è un dono. E oggi sono felice, come potrei non esserlo? Sapete quanta gente c’è la fuori, quante giovani band che hanno pagato per suonare la loro musica qui al SXSW, e sono felici di essere qui, anche se, come accadrà forse stasera, tutti preferiranno andare a vedere uno dei tanti artisti famosi, uno come me magari e loro saranno venuti sino ad Austin per niente, o quasi. Stiamo vivendo una nuova stagione di democrazia. La musica è dappertutto, ognuno può dal computer di casa caricare la propria musica e metterla a disposizione del mondo e ognuno può scaricarsela. L’arte è sempre arrivata da qualcuno che stava fuori dai giochi, dal mainstream. L’arte arriverà da Internet”.

Benvenuti allora, con le parole di Steve Earle, atipico testimonial, al SXSW 2000, nella capitale del Texas, Austin, piccola città universitaria che ogni anno dedica cinque piccoli eppur interminabili giorni di marzo, alla convention musicale più importante degli States, e non solo.
1000, o giù di lì, le band e gli artisti che, come diceva Earle, hanno pagato per esibirsi, praticamente ovunque, dalla lobby d’arrivo dell’aeroporto, all’Austin Music City Hall, la sala oggi più capiente e prestigiosa, passando per le decine di club sparpagliati nel downtown, e qualcuno anche più in là, per l’Outdoor Stage nel Waterloo Park, negli angusti palchetti dei negozi di dischi o anche nell’elegante, ma insopportabilmente rumorosa, cornice del Trade Show, ovvero la Fiera di tutto quanto fa, o ci prova, music biz.

Ci sono decine di percorsi possibili, praticamente uno per ogni genere che l’industria dello spettacolo abbia inventato per catalogare la musica, ci sono debuttanti spauriti che arrivano dalla provincia più sperduta (sempre meno di anno in anno, a dir il vero) e ci sono le rock star, o quasi, gente come John Paul Jones o Patti Smith. E soprattutto c’è una folla, eterogenea e chiassosa, che arriva da ogni angolo d’America, del Canada, del Giappone e anche dal nostro vecchio continente, a rimpinguare, se mai ce ne fosse bisogno, la gente del posto, gli studenti, gli operai, i managers, o anche quelli che vengono giù in città a farsi una birra, che dura un weekend.
Insomma, un gran bel posto per fare casino, un gran bel posto per ubriacarsi, di musica ovviamente. Tra le decine di percorsi possibili, uno fra i più frequentati dal pubblico e dagli artisti, è la grande carrettera detta, da qualche tempo, Americana, una autostrada scassata, fuori dagli itinerari turistici dei tutto compreso, ma che attraversa dritta il cuore degli Stati Uniti e che vede, instancabili autostoppisti, le anime belle di singer songwriters, band ubriacone, folkers senza macchia e senza paura e anche, soprattutto negli ultimi tempi, sfacciati improvvisatori lestamente riciclati o semplicemente senza altre possibilità di scelta se non quella di prendere una chitarra e tentare la sorte.

Insomma, una carrettera ove non è difficile imbattersi nell’artista di culto, vagheggiato e cullato dall’immaginazione romantica del fan, o nel giovane talento destinato a diventare the next (little) big thing, ma anche ove occorre guardarsi, di tanto in tanto, alle spalle, perché i dischi, anche qui nella capitale mondiale della musica dal vivo, costano sempre una manciata di bei soldini.
Quest’anno, di next thing, piccole o grandi, non se ne son viste poi molte, forse nessuna (quanto vorrei poter essere smentito dalle future cronache musicali), ma in compenso si è avuta conferma, da parte di alcuni vecchi draghi, e di non più debuttanti, ma pur sempre giovani artisti, dell’eccellente stato di salute della canzone americana e d’autore in genere, da intendersi sotto il profilo della vitalità artistica e non, purtroppo per loro, del benessere commerciale.
Uno dei maestri, per sua stessa ammissione, di Steve Earle, David Olney, ha dimostrato di non aver ancora abbassato le armi dell’ironia e del rock and roll, presentando, in superba solitudine, alcune pagine del suo recente Omar’s Blues, frutto di un nuovo contratto discografico, questa volta con la Dead Reckoning.
Assieme a Olney, proseguendo una disordinata carrellata su alcuni dei grandi vecchi presenti quest’anno alla Convention, con piacere segnaliamo Billy Joe Shaver, honky tonkers impenitente. Billy Joe ed il figlio Eddie, unitamente ad una solida sezione ritmica, da qualche anno portano in giro il marchio di famiglia, Shaver, furibonda mescolanza di country, blues e cavalcate chitarristiche di stampo southern. Anche quest’anno, inseriti nello showcase della New West Records, recentemente associatasi con la Doolittle, Shaver hanno dato vita ad un set infuocato, innovando la tradizione semplicemente con la verità di una musica che è, prima di ogni altra cosa, una ragione ed uno stile di vita: la verità del rock and roll.

Rimanendo in casa New West, un applauso va a Stephen Bruton, gran signore del blues, e a Jon Dee Graham, cui dal vivo si perdonano anche le scivolate santaniane del suo più recente lavoro, mentre fra le giovani leve Tim Easton pare aver una marcia in più del già conosciuto Jim Roll. Easton, che ha confezionato uno show di matrice roots rock culminato poi in un trionfo rockabilly, è un songwriter sbilenco e un po’ maudit, con il gusto della ballata elettricamente folkeggiante e desertica, percorsa da nervosismi alterantive-rock, un autore non certo al debutto (ricordate The Haynes Boys?), ma che potrebbe avere nel prossimo disco, il primo per New West, la sua occasione per ora più importante.
Jim Roll, che avevamo già conosciuto per un paio di fortunate prove soliste, pare invece non possedere quelle qualità che fanno di un buon autore di canzoni, un interprete di eccellenza. Sbiadito il suo profilo di performer, a poco gli ha giovato avvalersi di una robusta band capitanata da Walter Salas Humara (The Silos) nella insolita veste di batterista.

In caccia di un nuovo contratto discografico, ora che ha abbandonato definitivamente la guida della Sweetfish Records, anche Rees Shad, che il pubblico italiano ha già imparato ad amare. Si chiama Carving Away The Clay il nuovo album di Shad, e le anticipazioni offerte al SXSW confermano la statura dell’autore, e dell’interprete. Ballate dall’irresistibile uncino melodico e dal respiro west coastiano, lo stesso di Jackson Browne. “Mamma mia,..” ha detto in italiano Dirk Hamilton inatteso (vista la tarda ora in cui è andato in scena lo show di Shad) spettatore “…quanta energia! E quante belle nuove idee…”.
Anche Hamilton, e chi conosce Dirk sa che questo è davvero un piccolo evento, si è buttato nella kermesse del festival, sia pure (non per snobismo, ma per beghe discografiche) in veste non ufficiale. Visto da Art’z, il tempio delle costolette di maiale, Hamilton ha presentato alcune nuove vecchie cose tratte da Orphans, suo recente album che restituisce una casa a canzoni inedite, dimenticate da vent’anni, e ha rispolverato qualche canzone del suo più recente passato, regalandoci un assaggio di quello che è stato il suo tour italiano conclusosi all’inizio dello scorso mese di maggio.
Nello stesso showcase che ha ospitato Rees Shad, abbiamo incontrato un nuovo autore, il debuttante, almeno per il mercato americano, Henning Kvitnes. Scandinavo, Kvitnes ha recentemente pubblicato Heartland per una piccola label del nord Europa, un disco di pura roots music, pieno di belle ballate dal grande respiro melodico. Dal vivo, in perfetta solitudine, ha mostrato una grande padronanza della chitarra, ed un piglio alla Steve Earle che ha molto ben impressionato.

Di debuttante in debuttante, è piaciuto anche Nathan Hamilton, songwriter texano con un album, Tuscola, per la Steppin’ Stone Records. Pur nella poco intima cornice di un negozio di dischi, Hamilton è riuscito a restituire alle sue storie di pura americana, lo stesso fascino desertico e di epica quotidianità, che l’album aveva ben svelato.
In un negozio di dischi, il più grande di Austin, Cheapo, si è esibita anche la dolcissima Victoria Williams con Marc Olsen, ovvero The Originai Harmony Ridge Creek Dippers. Uno show lunghissimo, per esser solo uno showcase, concluso solo dopo due bis richiesti a gran voce dalla piccola folla radunatasi per l’occasione. Piccola poesia acustica.
Dal taccuino del cronista caviamo fuori due battute anche per Jeff Black, probabilmente tagliato definitivamente dalla Arista Austin, che aveva pubblicato il suo (inosservato) esordio, Birmingham Road. Jeff si è presentato infatti con una nuova band, una nuova compagna e nuove canzoni, 5 nuovissime ballate scolpite nello stesso country rock che ce lo aveva fatto amare quando ancora era (ehm…, come oggi, insomma) un autore in cerca di contratto.
Prima di Black, sullo stesso palco, Chuck E. Weiss aveva, sia pure per un brevissimo act (poi replicato il giorno successivo al party Ryko), incendiato la sala, con la sua stralunata miscela di blues e rock and roll dalla attitudine jazzy e soprattutto con la sua straordinaria personalità da vero rock and roll animal. Non solo Weiss al party Ryko: in un fresco pomeriggio, reso ancor più frizzante dalla generosa spuma della birra locale, graziosamente offerta (i modi del business a Austin meriterebbero un piccolo articolo a parte), Willard Grant Conspiracy in formato full band hanno sbalordito chi si aspettava un act low file no depression, roccando e rollando con forza ed ironia, presentando alcune delle canzoni che presto saranno disponibili nel nuovo disco.
A ruota, Josh Rouse, da mesi on the road, ha confermato di essere un artista in costante crescita, soprattutto nella dimensione live.

Di party in party, una menzione anche a quello della Doolittle, dove oltre alla birra ardeva anche un eccellente barbecue. Apertura delle danze ai Mount Pilot, il cui show è ben diverso dalle atmosfere del disco, con ben pochi accenti bluegrass e soprattutto nessuna concessione al pop, ma tanta energia e solido rock and roll.
Ancora più rocciosi e punkettari gli Slobberbone, qui ad Austin una vera band di culto. In mezzo a questi ragazzacci, due belle signore della canzone d’autore, Trish Murphy e Cindy Bullens. Della bella Trish sapevamo già quasi tutto: la band è ormai rodatissima e Trish una performer di grande versatilità e talento, di Cindy Bullens, ahimè nulla, ed è stata una delle sorprese più belle dell’intera conference. Bullens, dopo due nomination ai Grammy nel ‘78 e nel ‘79 (la prima assieme a Travolta e Olivia Newton John per la colonna sonora di Grease, la seconda per la sua canzone Survivor) quale best female rock vocal, si era allontanata dai palchi e dalle sale di registrazione, pur continuando a scrivere canzoni per altri, per crescere le sue due bimbe. Quattro anni fa la più piccola delle sue figlie, Jessi, a soli 11 anni morì di cancro. Questa esperienza, incredibilmente, ha riportato Cindy Bullens alla musica e ad un nuovo bellissimo disco, Somewhere Between Heaven And Heart (Artemis Records), interamente dedicato a Jessi ed alla gioia di vivere. Da sola, con molta semplicità, nella rumorosa e festaiola cornice del party, Cindy ha introdotto le sue canzoni, un atto d’amore verso la vita, cantandole con voce potente e spavalda, scusandosi per non aver potuto portare la band con sé.
Rimanendo nella canzone d’autore al femminile, con piacere segnaliamo Martha Wainwright, elegante interprete di belle ballate folkie, e Ginger McKenzie, popolarissima a Austin, dalla bella voce sottile e dalla scrittura di raffinato folk-rock.

Chiudiamo questi appunti disordinati dal SXSW 2000, con i bei ricordi dallo show dei Jayhawks, una vera american modem band, a dispetto delle evidenti inflessioni beatlesiane di alcune delle composizioni più recenti, con Roger McGuinn, salito sul palco assieme ai Jayhawks e protagonista di due show in acustica solitudine, con David Gray, cui il nuovo contratto con ATO Records ha riacceso una carriera americana e con Mark Ryan, nella doppia veste di solista, acustico e dylaniano, e di leader di Whyskeytown, la band per eccellenza nel panorama alternative-roots-country, o come si diceva in apertura, americana.

Mauro Eufrosini, fonte Out Of Time n. 35, 2000

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