La prima volta che ho sentito i Gibson Brothers è stato quasi un colpo. Avevo in mano la copertina di un CD, Long Forgotten Dream (HHH CD-1201), di cui non sapevo nulla, tranne che i titolari sono due fratelli che suonano l’uno, Leigh, la chitarra, e l’altro, Eric, il banjo.
Sembrava ovvio aspettarsi in apertura un potente kick off di banjo, di quelli con le doppie note: io almeno, che sono un conservatore, me lo sarei aspettato.
Infatti il loro primo album ‘ufficiale’, violando ogni regola scritta e non scritta, apre con un coro (un coro!) a due voci: scoperte.
Improvviso, potente, dirompente. Un vero kick off vocale, cui gli strumenti si agganciano solo dopo due misure complete. Da lasciarmi a bocca aperta. E che mi ha fatto, letteralmente, sussultare.
Ma andiamo con ordine.
I due vengono su in una comunità agricola, Ellenburg Depot, New York upstate (attenti a non confondere mai un abitante dello Stato di New York con uno di New York City: vi fareste un buon nemico) (oserei dire, sommessamente parlando ed a puro titolo personale, con qualche buona ragione). Il posto è così up da essere quasi in Canada, tanto che alcuni dei contatti musicali di Eric e Leigh, e buona parte dei loro primi rifornimenti discografici, provengono da oltre frontiera.
Infatti il Canada, con tutto il suo clima, è così vicino che, nel corso dell’ultimo inverno, la famiglia Gibson ha perso un’intera baita in una tempesta di neve: l’hanno poi ritrovata, con l’aiuto e la fatica anche dei due fratelli musicisti, solo al disgelo, schiantata dal peso della neve.
La distanza dal ‘bluegrass country’, geografica, climatica e sociale, non potrebbe sembrare più grande (be’, ci siamo noi in Europa, poi ci sono l’Australia, il Giappone…). Gli storici, ed anche i sociologi, ci informano infatti che l’agricoltore Yankee ha origini, cultura e mentalità molto diverse da quelle del boscaiolo Appalachiano. Ciononostante, qualcosa in comune con Bill Monroe, gli Osborne Brothers ed Earl Scruggs, pur senza essere laureato in sociologia, io penso di riuscire a vederla semplicemente osservando, sulla copertina del già citato Long Forgotten Dream, una ripresa aerea della fattoria di famiglia. E quello che vedo è una cosa che si chiama isolamento. Forse non culturale, ma fisico di sicuro.
Ellenburg Depot, meno di 2500 abitanti, non può essere certo definita un importante centro urbano, e la fattoria, annegata in pascoli e boschi percorsi da strade sterrate, dista da una tale metropoli cinque miglia di boschi. Che, al cambio con il sistema metrico decimale, fanno quasi nove chilometri (nella campagna lombarda, in nove chilometri, si incontrano tre o quattro tra paesi e frazioni, trascurando le cascine).
Un’altra cosa che trovo accomunare Eric Gibson ad Earl Scruggs, oltre al fatto di suonare il banjo, è il desiderio, direi abbastanza legittimo, di evitare una vita di totale fatica fìsica: Earl chiese un’audizione a Bill Monroe non perché spinto dal sacro fuoco dell’arte, ma sperando di non dover trascorrere il resto della sua esistenza in un opificio.
Eric ricorda che, all’età di otto anni, disse a suo padre che avrebbe voluto fare l’agricoltore. Suo padre gli rispose “Non lo farai”. Luì: “Lo farò!” (un po’ alla Roger Rabbit). Il padre allora lo prese e lo mise sui campi per una settimana, facendolo lavorare come uno schiavo (non chiamate a questo punto, per favore, il telefono azzurro per denunciare un eccesso di mezzi educativi). Poi gli chiese: “Vuoi ancora fare il contadino?”. “No, il giocatore di baseball”.
Al di là degli aneddoti, Eric e Leigh la faccia da contadino ce l’hanno davvero, e lo scrivo senza alcuna intenzione malevola, ironia o pregiudizio (personalmente, sono fìerissimo di alcuni miei parenti contadini nella bassa reggiana, ed il mio unico rammarico è che, non essendo molto stretti, non riesco a vederli troppo spesso): e lo considero un segno di concretezza, schiettezza ed onestà, sia morale che intellettuale.
Anche la carriera musicale dei due fratelli ha qualche punto in comune con quella che è considerata la tradizione. Il primo contatto con la musica bluegrass arriva dalla radio, che veniva ascoltata specialmente quando la famiglia andava a spasso in automobile.
Ricorda Eric che non ne rimaneva particolarmente impressionato, anzi, il bluegrass proprio non gli diceva niente. Finché non sentì una voce particolarmente alta e brillante, che attirò la sua attenzione: ed era Ricky Skaggs.
Leigh aveva iniziato con il fiddle, ma senza particolare successo, tanto che lo abbandonò abbastanza presto, mentre Eric si dedicò subito al banjo. Si accompagnavano a vicenda con la chitarra per partecipare a fiddle e banjo contest di importanza locale, a cominciare da quando avevano undici e dodici anni. La regola stabilita dal padre era che, in caso di vittoria, il premio dovesse essere spartito equamente tra i due. Ed un premio per uno lo vinsero anche (ma ricordano che, al fiddle contest vinto, c’erano tre partecipanti).
Suonavano anche in chiesa altra cosa in comune con la scuola sudista. A differenza che nel sud, nelle chiese del nord est gli strumenti musicali sono non solo accettati, ma spesso benvoluti, tanto che i due eseguivano solo versioni strumentali, banjo e chitarra, di alcuni pezzi sacri. Mi sarei stufato io, che pure possiedo uno Stelling Virginian proprio come Eric (che quindi dimostra un gran buon gusto anche nella scelta dello strumento) (hem…). Figuriamoci il prete: che chiese loro di imparare le parole di alcune canzoni. Eric imparò qualche gospel di Lester Flatt, che Leigh si rifiutava però di cantare, perché, dice lui, allora era timido.
Avevano sedici anni Leigh, e diciassette Eric: prima solo in privato, e poi timidamente in pubblico, cantavano insieme soprattutto Jim & Jesse, fino a quando scoprirono Buck Owens e Don Rich. E, ricorda Leigh, fu ascoltando Don Rich che lui comprese esattamente, ed improvvisamente, il senso ed il ruolo dell’armonia tenor.
Da un loro amico di Montreal ricevevano anche nastri di Flatt & Scruggs, Bill Monroe, Reno & Smiley, Red Allen, Jimmy Martin. Questo loro amico diceva loro: “Voglio che sentiate queste cose, prima che vi facciate pigliare dal newvgrass” (meditate, gente, meditate).
Erano infatti per finire gli anni ottanta, ed i Newgrass Revival, quasi alla fine della loro corsa, erano all’apice del successo. Ma questi giovanotti di campagna ascoltavano Reno & Smiley, ed i fratelli Monroe.
Nel 1994 esce, autoprodotto, Underneath A Harvest Moon, ormai irreperibile, che conteneva cover come How Mountain Girls Can Love, il che è abbastanza normale per un’opera prima. A qualcuno però deve essere piaciuto, perché, nel 1996, arriva un contratto discografico con un’etichetta importante (almeno secondo gli standard bluegrass): esce su Hay Holler Records Long Forgotten Dream, già citato. La produzione è affidata nientemeno che a Tim Austin, ed il disco entra nelle charts sia come album che con diversi pezzi, e, se non ricordo male, fu proprio questo il motivo che mi spinse a procurarmelo.
A parte il kick off vocale di cui si diceva all’inizio, colpiscono altre cose strane.
La formazione, ad esempio. Chitarra, banjo, contrabbasso e chitarra resofonica, affidate queste ultime rispettivamente a Mike Barber ed a Junior Barber (nonostante il nome, Junior è il padre di Mike). Niente mandolino, quindi, e niente fìddle. Sono molte le band, anche importanti o importantissime, in cui manca o mancava l’uno o l’altro strumento; ma, che manchino entrambi, non è molto comune.
Osserva Junior Barber a questo proposito che, essendo loro del nord, non conoscono le regole, e quindi non si sono mai posti la questione se la strumentazione fosse quella ‘giusta’: semplicemente la banda suona quello che sente e che sa, nel modo migliore che può. In questo concordano anche i due fratelli, ritenendo che, se si fermassero ad analizzare puntigliosamente ciò che fanno, ne risentirebbe la spontaneità della loro musica.
E spontanea lo è davvero; e, nonostante le nominate, supposte violazioni alle regole, è ben radicata nella tradizione, a partire da quella cosiddetta del ‘duet brothers’, che tanto ha influito, da subito e direttamente, sulla formazione di quel suono che chiamiamo bluegrass.
L’intero album, infatti, sembra quasi un tributo ad una delle più importanti coppie di fratelli della musica country: ben quattro o cinque pezzi (su una generosa dose di quindici) in Long Forgotten Dream sono composti o comunque riconducibili a Charlie e Ira Louvin, che i due dichiarano apertamente di amare e citano come importante fonte di ispirazione.
Ed in ogni caso, dovendo mettere un’etichetta sulla musica dei Gibson, direi che quella di bluegrass tradizionale calza come un guanto.
Delle due, la voce di Eric è quella decisamente più ‘High & Lonesome’, mentre Leigh ha un timbro più caldo, ma comunque molto brillante. Entrambi sono perfettamente in grado di raggiungere note basse, ma, dicono loro, cantano “tanto alto quanto possono permettersi di rischiare”, perché “high significa lonesome”.
Non è solo questo che li differenzia dai Louvin e da molti altri: è semplicemente straordinaria la loro capacità di scambiarsi liberamente il ruolo di lead e tenor, non solo da canzone a canzone, ma anche spesso durante la stessa canzone, e perfino durante lo stesso coro.
Sono queste loro voci che veramente distinguono i Gibson dal resto del mondo, e che mi hanno immediatamente conquistato.
La strumentazione può anche essere anomala (su Long Forgotten Dream è presente, come guest, Ray Legere a fiddle e mandolino: che, comunque, si limita ad aggiungere qualche assolo e qualche scarno backup solo ad alcuni pezzi, senza modificare sostanzialmente il suono della banda): ma è sempre e comunque adeguata, e, nel corso del tempo, ha raggiunto un livello decisamente elevato, sia negli assoli che nei backup.
Junior Barber non conoscerà magari le regole, ma quanto a buon gusto e discrezione, non è secondo a nessuno. Tuttavia, l’accompagnamento musicale funge chiaramente da supporto alle due voci. Qui il concetto di break è ricondotto veramente al suo significato originario, di intermezzo tra una strofa e l’altra. E le voci distraggono così tanto che mi sono reso conto di non aver mai veramente ascoltato l’aspetto strumentale della banda fino a quando non mi sono messo a scrivere queste note.
Childish Love, dei Louvin, che sto sentendo proprio mentre scrivo questa frase, è semplicemente straordinaria, anche e soprattutto se confrontata con l’originale.
Un pezzo scritto da loro, Looking For A Smile In A Hertache, che segue, non è solo una gran bella canzone, ma il coro è un assoluto pezzo di bravura, con un continuo scambio tra lead e tenor. Inutile tentare di capire cosa succede: bisogna rilassarsi e godersi la musica.
Così come su ogni coro, quando il secondo fratello si unisce al primo. Si chiudono gli occhi e ci si abbandona ad un piacere che, a volte, è quasi fisico.
La bellezza di otto canzoni su quindici è dovuta alla penna di uno od entrambi i fratelli, con Eric che sembra il più prolifico, mentre Leigh è più intimista e narrativo. E non si tratta, intendiamoci, di canzoni inserite nell’album perché erano lì, o, al contrario, scritte perché andava riempito in qualche modo il disco: sono, praticamente senza eccezioni, grandi canzoni, decisamente sopra alla media. Direi una notevole risorsa per chi cerchi materiale fresco, ma di sapore tradizionale.
Il CD, come già detto, si fa notare. Tanto che, nel 1997, esce, sempre per Hay Holler, Spread Your Wings (HH CD-1335). Può darsi che la scelta del titolo ha un’altra storia, ma l’uscita del disco coincide con la decisione dei Gibson di abbandonare il loro lavoro regolare per dedicarsi alla musica a tempo pieno: consapevoli che, trovandosi una volta alla settimana, il livello musicale del gruppo non può progredire oltre un certo limite. Il CD è registrato e prodotto ancora da Tim Austin, mentre il compito di completare il suono della banda passa da Ray Legere ad Aubrey Haynie, due nomination IBMA per il 1998 (album strumentale ed artista emergente).
Il repertorio è più variato: rimane generoso il contributo dei due fratelli come autori, quattro pezzi su quattordici, e dell’amico Seth Sawyer dal Vermont (altro posto non molto frequentato da opossum e procioni), già abbondantemente presente come autore nell’album precedente; ma compaiono anche nomi come Dolly Parton (Kentucky Gambler), Peter Rowan (I’m Gonna Love You Like There’s No Tomorrow) ed Hank Williams (When God Comes And Gathers His Jewels).
Comincia a sentirsi qualche assolo di Leigh, che prima si limitava al ritmo. Il banjo di Eric si è decisamente evoluto, gli arrangiamenti sono molto curati. Il risultato è molto professionale, anche se, forse, un po’ meno spontaneo.
Il CD guadagna subito posizioni in classifica, come quello che segue l’anno successivo, Another Night Of Walting (HH CD-1341).
L’interesse che suscitano i due è ormai evidente: l’ultimo album è prodotto da Alan O’Bryant (quello della Nashvìlle Blegrass Band, sissignore), che aggiunge la sua voce a We’ll Stay Here. Fra i tecnici del suono è elencato un certo David Ferguson, che potrebbe essere quel tale che suonava il violino nei Country Gazette attorno alla metà degli anni ’70.
Più numerosi rispetto a prima sono i musicisti ospiti: oltre al già citato Aubrey Haynie, anche Mike Compton e Roland White, anche lui ex Country Gazette ed oggi con NBB.
Con una banda di studio così completa il suono diventa ovviamente più convenzionale, pur mantenendo una sua netta personalità, ma anche più maturo: e, sopra la base strumentale, svettano sempre e comunque quelle due inconfondibili voci, alte, cristalline, in perfetta e stupefacente armonia.
Tra gli autori compare anche Jimmie Rodgers (con Traveling Blues), che da a Leigh l’occasione di sfoggiare per la prima volta uno yodel che non deve invidiare nulla a nessuno.
Il repertorio è più variato e più maturo, con cinque pezzi su tredici di uno od entrambi i fratelli. In più, questa volta, sono inclusi i testi delle canzoni: il che non può che essere gradito a chiunque, ma specialmente a chi, come me, è molto più abituato alla pronuncia dixie che a quella yankee.
Più o meno in questo periodo Ricky Skaggs li sente cantare al Ryman Auditorium, a Nashville: una canzone sola, ma è sufficiente a spingerlo backstage per incontrare i due, per segnarsi il loro nome ed indirizzo, e per chiamarli poi per chiedere loro di passare alla Ceili, la sua etichetta di famiglia.
La Ceili, come noto, è praticamente neonata, ma ha già sotto contratto, oltre ovviamente ai Kentucky Thunder, anche Del McCoury: non si tratta esattamente di gruppi minori, e quindi, quella di Skaggs, assomiglia molto ad un’offerta che non si può rifiutare.
L’uscita di un nuovo album dei Gibson per Ceili è prevista per il 1999: nel momento in cui state leggendo potrebbe quindi essere già disponibile.
E siamo all’ottobre del 1998, che è davvero pieno di avvenimenti. La conferma del contratto già nominato con Ceili; Leigh compie 27 anni, e si sposa; Eric compie 28 anni; e l’IBMA, il giorno 22, assegna i suoi awards. La cerimonia delle premiazioni, al Kentucky Center For The Arts a Lousville, Ky, è più o meno a metà, quando due persone si avvicinano al microfono per chiamare il gruppo emergente dell’anno.
Qualcuno porta una busta. Dice una voce: “And thewinner is…~ (notevole rumore di carta stropicciata: lo SM 58 è sempre il re dei microfoni – ed il microfono dei Re) “…the Gibson Brothers”.
Il pubblico mostra molto chiaramente di essere completamente d’accordo con la giuria. Anche io mi alzo in piedi, come tutti gli altri, e mi spello le mani, come tutti gli altri, e non so perché, ma sono felice, e penso tra me che, davvero, l’ambiente bluegrass è pulito, e vengono premiati i migliori, anche se vengono da lontano, e non sempre e solo gli amici dei giurati.
Interrogato poco più tardi su cosa significasse, per lui, ricevere un Award IBMA, Eric risponde semplicemente: “Earl Scruggs era seduto lì davanti e, per venti secondi, ha saputo di me”. Solo chi suona il banjo può capire. Ho avuto la fortuna ed il piacere di incontrare Eric e Leigh di persona proprio nel pomeriggio che precedeva quella serata. Erano appena arrivati da New York, li avevo riconosciuti subito nel vederli, e, senza rendermene conto, li avevo ricoperti di complimenti smodati.
Gli Americani, quando di mestiere non fanno il presidente o l’avvocato, o non abitano a New York City, dì solito non dicono bugìe, nemmeno per fare complimenti, per cui, per far sapere a qualcuno che è bravo, gli dicono “sei bravo”, e stop.
Noi, che siamo invece diplomatici e beneducati, facciamo di solito molti complimenti, per cui, per far sapere ai Gibson che mi piacciono molto, li ho trattati pressappoco come divinità, con un certo imbarazzo da parte loro (e anche da parte mia, quando me ne sono reso conto).
Forse mi sono riscattato un po’ la mattina dopo, quando li ho incontrati di nuovo mentre cercavano vecchi dischi da comprare, e ho detto loro “ve l’avevo detto” (oddio, non che il mio parere sìa proprio determinante: ma, a volte, scoprire di essere in assonanza con i maestri di color che sanno magari fa anche piacere).
Parlando con loro si è rafforzata in me l’impressione di onestà e schiettezza che mi avevano già dato i loro ritratti. E mi sono trovato d’accordo con un loro amico, fra l’altro molto rassomigliante a Junior Barber (forse un parente?): “Cantano proprio come i Louvin Brothers, però meglio”. Mi promisero che, anche se non inseriti nel programma ufficiale del festival (e come mai?), li avrei sentiti cantare di sicuro, “for we are going to jam” (altra differenza con un Kentuckyano, che avrebbe probabilmente detto qualcosa del tipo “fer w’re g’in’ t’jaem”). Qualcuno mi ha poi detto che, quel giorno, hanno davvero suonato e cantato, tra gli altri, con Ricky Skaggs. Io, per la miseria, ero da un’altra parte.
Aldo Marchioni, fonte Country Store n. 49, 1999