Rolling Stones articolo

La prima volta che Keith Richards ascoltò Robert Johnson chiese, «hey ma chi suona l’altra chitarra?» e quando gli risposero che non c’era una seconda chitarra, ne rimase sbalordito, esattamente come accadde a Bob Dylan quando fece la stessa cosa. Sono passati cinquantadue anni da quell’aprile del 1964, in cui uscì il primo album dei Rolling Stones. Era un album di cover di blues, per loro l’unica ragione per la quale valeva la pena vivere, come direbbe Woody Allen. Capolavori come I’m A King Bee, che apriva il lato 2 del disco, rivissuti dal genio di Richards, Jagger, Jones, Wyman e Watts. Come scrive Richards nel suo bellissimo Life: «La tenuta della band era molto precaria, nessuno si aspettava che sfondassimo. Voglio dire, eravamo contrari al pop e alle sale da ballo, la nostra unica ambizione era essere la migliore blues band di Londra e far vedere a quegli stronzi come stavano le cose, perché eravamo certi di esserne capaci. Venivano ad incitarci strani drappelli di persone. […] Noi stessi non avevamo in mente di fare chissà che, se non avvicinare altra gente a Muddy Waters, Bo Diddley e Jimmy Reed. L’idea di fare un disco ci era del tutto estranea. I nostri propositi allora, erano di natura idealistica. Eravamo promotori non retribuiti del blues di Chicago. Con distintivi lucenti e tutto il resto. Inclusa una applicazione monastica intensa, almeno da parte mia. […] Le donne erano solo al terzo posto della lista, luce, cibo e poi ehi se sei fortunato. Avevamo bisogno di lavorare insieme, di provare, di ascoltare musica. Era una fissazione. Non avevamo niente da invidiare ai benedettini. Chiunque si allontanasse dal nido per scopare o tentare di scopare, era un traditore. Nostro dovere era spendere ogni singola ora di veglia a studiare Jimmy Reed, Muddy Wateres, Little Walter, Howlin’ Wolf e Robert Johnson. […] Finchè, credo, non ci rendemmo conto, come inevitabilmente capita a quell’età, che il blues non si può imparare in un monastero. Dovevamo uscire di casa e tornare con il cuore infranto, allora avremmo potuto cantare il blues».

Sono passati tanti anni da quell’incontro fatale sul treno che da Dartfod andava a Londra. Un incontro destinato a cambiare non solo la vita e la musica di Richards e Jagger e non solo la loro. Novelli Myskin e Rogozin, cent’anni dopo il capolavoro di Dostoevskij, vanno a vivere con Brian Jones in uno squallido appartamento in Edith Grove, senza riscaldamento, con poca luce e acqua corrente. Da veri bohemiens, come Rodolfo, Marcello, Colline e Schaunard nell’opera di Puccini, sbarcano il lunario raccattando qualche spicciolo per mangiare. E’ un inverno freddo quello del 1961/62 a Londra, lo stesso in cui il giovane Dylan arriva nel Greenwhich Village, nel cuore di New York. Se i Rolling Stones sono tornati a incidere un album di blues, può darsi l’abbiano fatto per gioco o per divertimento, o forse no. Richards non riuscendo a riportare gli Stones in cantina, come ebbe a dire qualche anno fa, per ritrovare quello che Garcia Lorca chiama il duende, lo spirito della terra, che permise di realizzare lo straordinario Exile On Main Street, inarrivabile e insuperato, li abbia chiusi in uno studio di registrazione di Londra, questo non possiamo saperlo. O forse sì, li ha riportati al leggendario crossroad, quello dove Robert Johnson aveva a che fare con lo spirito della terra o il diavolo, verso il quale saranno così comprensivi da scrivere Sympathy For The Devil. Li avrà portati lì a pentirsi di qualche occasionale sbandamento, come Sonja porta Raskolnikov a pentirsi del delitto commesso al crocicchio di piazza Sennaja e a conquistarsi il castigo? Li avrà riportati lì per vedere la strada che presero nel lontano luglio del 1962 quando si esibirono per la prima volta al Marquee? Forse era quella la strada da seguire, quella che riportava idealmente alla Dockery Plantation, alle origini del Delta Blues. La strada sarebbe stata lunga, le deviazioni inevitabilmente pericolose.

E qualcuna l’hanno presa, in tanti anni di vita on the road, finendo a volte nelle paludi, come nella Louisiana dei romanzi di James Lee Burke. Spesso hanno perso il treno giusto, come cantano in No Expectations, da quell’altro capolavoro di Beggars Banquet, che li riportò verso la stazione giusta. Ma se lo persero, rincorrendolo mentre lasciava la stazione, videro che aveva due luci accese dietro, the blue light was my blues and the red light was my mind, e rimasero senza fiato. Un giorno, non ci è dato sapere quando, visto anche l’imprevedibile tenore di vita dei personaggi, Richards, Jagger, Watts e Wyman non ci saranno più. Forse andranno anche loro a sedersi al banchetto dei mendicanti, ritrovando Brian Jones, Ian Stewart, Nicky Hopkins e Bobby Keys, intenti a discutere animatamente sul solito accordo venuto male. Si siederanno e di sicuro Stu li rimprovererebbe chiedendogli, «dove eravate finiti? Sono anni che vi aspettiamo». Ma poi sarebbe contento di aver ritrovato i suoi ‘ragazzi dei due accordi’. Il riconoscere ancora, soprattutto da parte di Richards, l’importanza dell’insegnamento dei padri del blues e di ripagarlo in qualche modo. Molti di essi hanno a loro volta ringraziato questi ‘figli anomali’, che hanno fatto conoscere in giro per il mondo (e continuano a farlo), la loro musica immortale. Quando Richards sente l’armonica forse ha la sensazione di ritrovarsi in paradiso, o, tornando cosciente, all’inferno. Magari per rivedere altri eroi, come Blind Boy Fuller, che omaggiarono nel titolo del live Get Yer Ya-Ya’s Out, lui che era noto per canzoni così piena di doppi sensi da far impallidire parecchie ‘honky tonk women’.

D’altra parte se tutti i fratelli sono finiti davvero all’inferno il barcone di Caronte, ammattito nel traghettarli, si sarà trasformato nel bateau ivre di Rimbaud. C’è una foto di Jagger e Richards a fianco di un uomo di colore di spalle, indossa una felpa su cui si legge when I die I’ll go to heaven because I’ve spent my time in hell. Il fatto che nel nuovo album ci siano quattro canzoni del repertorio di Little Walter è forse la conferma della ‘trappola’ tesa da Richards a Jagger, ‘costringendolo’ in questo modo a suonare di più l’armonica. Il cruccio di Jagger quando iniziarono a suonare era proprio quello di essere solo cantante. L’idea che tutti gli altri suonassero uno strumento e lui no, lo angustiava a tal punto che decise di imparare a suonare l’armonica. Ed oggi è un ottimo armonicista. Anche in un pezzo come Midnight Rambler, considerato da Richards una ‘sinfonia blues’, tanto da aver richiamato qualche anno fa Mick Taylor a dialogare con lui e Ron Wood, quando Jagger entra con l’armonica, Richards lo sprona a continuare, prima dello stacco che arriva perentorio. Gli Stones sono una band in cui nessuno strumento può permettersi il lusso di fare la primadonna, ma tutti devono contribuire a fondere il suono. L’armonica così si insinua tra le chitarre, accoltella come un assassino, si nasconde furtiva nel vicolo, come il vagabondo, come Svidrigajlov, aspettando una nuova preda, in quella città astratta, che il diavolo ha portato in un paniere, sparpagliandola in vicoli malfamati, di bordelli, di criminali, usurai e corruttori, sul delta della Neva come su quello del Mississippi.

Duke Ellington disse che «il blues è un biglietto di sola andata dalle cose che ami verso il nulla. E’ amarezza, disperazione, miseria, questo è il blues.» Non a caso, l’album si intitola Blue & Lonesome, triste e solo e si chiude con I Can’t Quit You Baby, non posso lasciarti, non posso vivere senza i blues.

Piermario Greco e Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 137, 2016

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