Senza girarci attorno, cosa fa di Blue & Lonesome un bel disco di blues? Crediamo ci sia più di una risposta sensata. Di certo il divertimento e l’immediatezza che trasudano da queste esecuzioni, senza fiati, coriste o sovraincisioni. Sembra siano riusciti a catturare quel suono che Richards in Life descriveva così: «[…] Quel che interessa è il punto esatto in cui i suoni si fondono l’uno nell’altro, sostenuti da un ritmo-con qualche aggiustamento, il resto andrà a posto. Se i suoni restano scollati, il risultato è insipido. L’obiettivo è trovare intensità e forza, ma senza volume, una forza che scaturisca dall’interno. Un modo per saldare l’apporto di coloro che sono in studio e farne un unico sound.[…]». Ecco qui succede proprio questo e forse sono stati loro per primi a stupirsene quando, a sentire i racconti, hanno provato quasi per caso il brano di Little Walter che ha finito per diventare il titolo dell’album. Una versione vibrante di ruvido clangore. Come se attraverso di esso abbiano trovato, un po’ per caso e un po’ per felice intuizione (giustamente seguita), quella coesione tipica dei momenti migliori della loro lunga carriera. Il tutto è ancorato dalla ritmica di Charlie Watts, erede degno di maestri quali Fred Below e Earl Phillips, dal basso di Darryl Jones (che tra l’altro è nativo di Chicago e ha iniziato con Otis Clay) e dalle chitarre di Richards e Wood.
Lo strumento principe però è l’armonica di Jagger, indicativi quattro brani estratti dal repertorio di Little Walter, una novità nella storia del gruppo, sebbene lo abbiano sempre avuto tra i loro riferimenti. Le tastiere di Chuck Leavell (valido soprattutto il piano) e Matt Clifford completano il suono. Da eterni studenti del blues, il che non vuole essere sminuente, ma indicazione di un atteggiamento di costante tensione verso i maestri, conoscono la concisione degli originali e sanno fin troppo bene quando è il momento di chiudere un brano. Curioso infine che l’unico ospite, (anche qui apparentemente per caso, mixava il suo disco nello studio accanto), sia un vecchio amico, Eric Clapton, anche lui folgorato, già imberbe dal blues, come in un viaggio all’indietro nel tempo si lascia andare a due begli assolo. Bene che si torni, ogni tanto, a parlare di blues anche fuori dalla nicchia e per un disco valido. Tanto meglio se poi qualche ascoltatore (ovvio non tra i lettori di questa rivista) ma del pubblico generalista, dovesse andare a comprare un CD di Magic Sam, Little Walter o Jimmy Reed.
Polydor 5714942 (USA) (Blues, Chicago Blues, 2016)
Matteo Bossi, fonte Il Blues n. 137, 2016