Tony Rice Unit

Quando siamo arrivati allo stadio noi, i Capuzzo erano già lì da ore, più irritanti che mai, nonostante non si fossero “sparati 10 ore di 128 a tavoletta sotto un sole che neanche a Modica…”
Stavano chiacchierando amabilmente col Ferretti, e l’articolo su Bill Monroe non l’avevano ancora concepito, dato che il Grande Vecchio sarebbe venuto in Europa oltre un mese dopo. Ci piacerebbe vedere oggi un incontro tra Carmine, Alfio e il Silvio. Comunque davanti allo stadio i soliti noti c’erano tutti, più qualche non noto che guardavamo con diffidenza perché ci sembrava curioso che qualche sconosciuto potesse dividere con noi la passione per il chitarrista acustico più bravo del mondo.

Che quelle facce potessero essere lì per gli altri artisti non l’abbiamo proprio pensato. Mancava solo Renzo Bagorda, ma sarebbe apparso due giorni dopo al Folk Studio. Si, perché abbiamo potuto godere di due concetti di Tony Rice a Torino. Più un terzo che si è goduto qualcun altro a Biella. Purtroppo il problema è che anche se ci muoviamo tutti, siamo pochini lo stesso, circa 400 allo stadio dove lo spazio non è certo un problema e oltretutto per  un mostro sacro come Tony Rice.

Preceduto dal nostro Franco Morone e dalla leggenda vivente Leo Kottke, che ha tamponato in extremis il forfait di David Bromberg, Tony Rice è apparso seguito dalla Unit e con la mitica D28 a buca allargata, che dovremmo smettere di chiamare ‘la chitarra che aveva Clarence White’, dato che con tutto il rispetto per quest’ultimo, se è arrivata dov’è adesso lo deve al signore coi baffi che la manovra adesso.

E già che siamo in argomento, ci s’impone il dovere d’informare i fanatici che autorevoli musicisti italiani, anche di Genova, dichiarano di averla provata e d’avere rilevato una action talmente bassa da non essere riusciti a controllare il buzzing (Cfr. B. Gambetta Manuale di flat-picking) spolverando così di paranormale il già abbastanza lodato tocco di Tony Rice.

Lui, una volta rivelatosi, ha attaccato Blue Railroad Train, da Manzanita, e per un’ora e un quarto ha estratto, principalmente da Cold On The Shoulder, Me And My Guitar e Native American, una scaletta di brani scelti di volta in volta e infarcita di qualche standard di bluegrass più un paio di canzoni rese famose dai Seldom Scene.

La voce di Tony è sembrata leggermente sforzata, con qualche incertezza, pare dovuta ai postumi di un recente intervento alla gola, ma il timbro era lo stesso dei dischi, come pure tutti i suoni della band, sempre puliti e naturali, controllati da un magnifico Rob Griffin al mixer, che ha saputo gestire con maestria i problemi d’acustica dello stadio.

La Unit era formata da Wyatt Rice  alla chitarra, da Jimmie Gaudreau al mandolino e dai fratelli Simpkins, Ronnie e Ricky rispettivamente al contrabbasso e al violino. Proprio quest’ultimo si è rivelato la sorpresa della serata, suonando con un’intensità e un’energia incredibili, culminati in una vorticosa  Sally Goodin che ci ha letteralmente sollevati dalle sedie.

Gli altri sono stati decisamente all’altezza della situazione: solido e presente Ronnie, esperto e versatile Jimmy, di interessanti capacità Wyatt, anche se visibilmente rassegnato a  fare il fratello di Tony Rice. Quest’ultimo poi è stato come ce l’aspettavamo: straordinariamente bravo tecnicamente  e di grande espressività di canto, nonostante i limiti già ricordati.

Ma la qualità più evidente è stata ancora una volta, l’eleganza impareggiabile degli arrangiamenti, e il gusto nella costruzione degli assoli, tali da considerarlo un vero e proprio Re Mida musicale, capace di trasformare in capolavoro qualsiasi cosa.

E dimostrandosi un grande professionista  ci ha lasciati con un po’ di fame, ci ha firmato i dischi e venduto le magliette con il suo logo, ma ci ha anche obbligati a tornarlo a sentire al Folk Club. Insieme ai Capuzzo Brothers.

Nirvano Barbon, fonte Country Store n. 17, 1992

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