Voices Of America

24 febbraio 1942: da 79 giorni gli Stati Uniti d’America sono in guerra contro la Germania nazista e i suoi alleati.

Da uno studio di San Francisco, grazie a un trasponder della Bbc, una voce viene lanciata sulle frequenze radiofoniche europee. È quella dello speaker William Harlan Hale che testualmente dice: “Salve, questa è una Voce dell’America. Tutti i giorni, a quest’ora, vi parleremo dell’America e della guerra. Potremo comunicarvi buone o cattive notizie. Ma, sempre, vi diremo la verità”.

Da quel momento, l’America trova la sua voce all’estero. E quell’introduzione leggendaria di W.H. Hale diventa addirittura il marchio della radio più famosa della storia.
Autentico precursore delle ‘all news television’ stile Cnn o Al Jazeera, il canale radiofonico Voice Of America è stato per anni il medium che ha trasmesso informazione, cultura ma anche suoni d’America nel vecchio continente.

Diffondendo notizie e rendendo di pubblico dominio fatti importanti; facendo ascoltare, al tempo stesso, note, ritmi e melodie che avrebbero fatto innamorare il mondo. Attraverso VOA, si sono conosciute le mille facce dell’America. Anche di quella musicale che ha spesso anticipato gusti e tendenze della società statunitense.
Ancora oggi, in piena società ‘globale’, esistono tante Americhe. Alcune delle quali efficacemente rappresentate dagli artisti che sono protagonisti della nostra storia; ma che, da un certo punto di vista, dopo “September Eleven” (come lo chiamano lì) hanno voluto compattarsi illudendosi di avere un’identità comune e trovando solo un surrogato chiamato patriottismo.

Lo abbiamo visto anche nella musica: era dai tempi della guerra in Vietnam o da quelli dei grandi benefit a favore di cause umanitarie che non si assisteva ad una mobilitazione artistica così massiccia. Sono sparite (o quasi) persino le tensioni razziali. Perché, di fronte al “nuovo spauracchio islamico”, anche neri e portoricani, cubani, messicani e asiatici di colpo sono diventati parte della famiglia WASP. Di quell’America, cioè, bianca (White), Anglosassone e Puritana che tutto digerisce, tutto trasforma, tutto omologa. E i cui ‘valori’ (con buona pace di Malcolm X, del vecchio Hoagy Carmichael e delle sue Pantere Nere o della rivoluzionaria Angela Davis) sta riuscendo a inculcarsi persino nei ‘fratelli neri’.

Si chiama ‘nu soul’ la loro nuova metafora musicale. E sono le patinate (peraltro bravissime) Alicia Keys, Mary J. Blige o Erykah Badu le nuove stelline; così come nello sport le black icons sono l’algido Tiger Woods, le ipervitaminiche sorellone Williams, il gigante buono Shaquille O’Neal. E nel cinema, per il popolo dei neri d’America, questo è il momento del raffinato Denzel Washington, dello spensierato Will Smith, del colto Morgan Freeman.
“Dove sono finiti”, gridava un ‘fratello’ di Chicago, “Muddy Waters, Mohammed Ali, Miles Davis o Tommy Jet Smith?” Lui, lo stesso che giudicava Spike Lee un venduto alla corte dei bianchi, non può però negare la controrivoluzione hip-hop, l’impegno di alcuni cineasti (Mario Van Peebles), la coscienza di qualche nuova diva (India.Arie), persino la rivalutazione culturale della storia musicale afroamericana.

Oggi, quando si parla di roots non s’intendono più soltanto le tradizioni radicate tra le colline degli Appalachians. Blues, jazz, gospel e soul sono american roots allo stesso modo (e nelle stesse compilation) di old time, folk, bluegrass e country.
Forse perché l’America rurale non c’è più. Neppure la country music (per anni la sua voce ufficiale) insiste nel cantarla. Oggi, per avere successo a Nashville, non bastano più cappelli Stetson e stivali Justin. E nemmeno canzoni con tre accordi (rigorosamente in maggiore), testi rassicuranti, pedal steel suadenti e violini in sottofondo. Lo dimostrano le nuove country star come Shania Twain o Faith Hill. E persino quelli come Garth Brooks che, pur continuando nel look a restar legati al cappellone e allo stereotipo da cowboy, nella musica hanno fatto del crossover una regola ferrea.

Il nuovo prototipo di macho-country è, ad esempio, quello proposto dal giovane Shannon Lawson: look aggressivo e sexy, musica spumeggiante che non rinuncia ai suoni della tradizione ma strizza l’occhiolino al ritmo forsennato, canzoni che parlano di vita reale. E che ne denunciano anche il lato oscuro. Come ad esempio gli abusi all’infanzia o le diffusissime (specie nel Sud) violenze alle donne: li hanno cantati nei primi anni 90 Martina McBride (Independence Day) e persino l’ottimo Garth (The Thunder Rolls), scontando per primi gli strali della censura. Ma i tempi cambiano rapidamente e oggi le Dixie Chicks possono permettersi addirittura di suggerire l’omicidio come unica soluzione possibile (Goodbye Earl). Incredibile, vero?

Eppure, anche questa è una delle nuove contraddizioni americane: un trio texano che si fa chiamare “le pollastre del Sud”, che suona banjo e fiddle, che incita le proprie fan che subiscono violenze a farsi giustizia da sole. Altro che Thelma & Louise… altro che Lilith Fair.
Perché nel Terzo Millennio è Ani DiFranco più che Sarah McLachlan a rappresentare in musica l’indipendenza femminile. È tosta e concreta Ani. Le parole sono importanti (e i testi delle sue canzoni sono lì a dimostrarlo), ma i fatti lo sono di più. E allora, ‘fanculo le multinazionali: lei i dischi se li produce, se li promuove e se li distribuisce da sola. E non ha bisogno di giocare sulla sua bisessualità o sul gossip. È brava e tanto basta. A dire il vero, brave come lei in America oggi ce ne sono tante. Specie sul versante della musica al femminile. Ma nessuna è così determinata. Nessuna, forse, così integra e ispirata.

Determinato, integro e soprattutto ispiratissimo lo è anche James Taylor. Prototipo del songwriter intimista, JT nel 1968 fu il primo artista scelto dai Beatles per la loro nuova etichetta, la Apple Records. Ma il suo talento era troppo grande per star confinato all’interno di un universo (seppur dorato) come quello della “mela londinese”. Tanto che proprio Peter Asher (ex songwriter ma all’epoca già talent scout della Apple) lasciò i Fab Four per seguire James nella sua America.

Già, ma qual è l’America di Taylor? O, come qualcuno potrebbe suggerire, qual era? Ma non sarebbe più logico sostenere che l’America di JT non esiste? O meglio, che esiste soltanto dentro di lui. E nelle fantasie dei suoi (tanti) estimatori. Perché James è figlio di un’America colta, borghese, sofisticata (suo padre era un medico affermato) che può permettersi di girare, conoscere culture diverse, raffinare gusti, fare scelte. Di un’America che sa premiare come nessun’altra società i suoi figli più dotati. Taylor ha tutto: è dolce, intelligente, ricco, avvenente e ha un talento assoluto per la musica. Il successo per lui è dovuto, oltre che assicurato.

Ecco perché, dopo 35 anni di carriera, è ancora lì. La sua musica, qualcuno ha detto, è come un maglione di cachemire: un classico intramontabile. Sempre la stessa; elegantissima, intimista, riflessiva, sa essere melanconica e divertente, brutale e spietata oppure assolutamente romantica. Come i panorami dell’amata Martha’s Vineyard dove casa Taylor non è distante dalle proprietà dei Kennedy. Tanto bella e suggestiva da non stufare mai e far addirittura pensare a buona parte del suo pubblico europeo degli anni 70 che lui, James il bostoniano, fosse nato in California. Così sottile e seducente, la sua musica, che ancora oggi rapisce. Perché lui (pur con qualche diottria e molti capelli in meno) è sempre il tipo affascinante di un tempo. Dolce, intelligente, ricco e avvenente, con un talento assoluto per la musica.

Il giorno in cui Bruce Springsteen compiva trent’anni (23 settembre 1979), Ani DiFranco spegneva le sue prime nove candeline e James Taylor (con l’allora moglie Carly Simon, e gli amici John Hall e Graham Nash) era sullo stesso palco del Boss (Madison Square Garden a NYC) a cantare The Times They Are A-Changin’. Insieme, avevano deciso di scuotere l’America e farle prendere coscienza dei pericoli dell’energia nucleare. Quel concerto lo avevano chiamato No Nukes. I meno giovani, si ricorderanno il film e il triplo, leggendario album.
Non sono mai stati degli attivisti, Bruce e James. Anzi, spesso (specie per il primo) l’etichetta ‘politica’ che ogni tanto è stata loro appiccicata non è mai piaciuta. Eppure, mai si sono tirati indietro quando è stato il momento di “stand up and be counted”. Ecco perché, entrambi, cantano oggi con affetto e commozione l’America ferita. Lo fa con maggior coscienza sociale (solo perché è sempre stato maggiormente nel suo stile) il vecchio Boss.

Che per l’occasione rispolvera il suo celebre, sano e ruspante rock’n’roll che, per qualche anno, aveva accantonato in favore di un più spartano folksinging. E anche se, poco tempo prima, aveva ‘osato’ attaccare la polizia new-yorkese rea di aver abusato del proprio potere (American Skin) oggi Bruce canta della sua città in rovine e dei suoi nuovi eroi (pompieri e NYC cops).
Non è più il “working class hero” e nemmeno “the ultimate rock’n’roll superstar”. Certamente, non è più neppure il Boss di Born In The Usa.

Come James, anche Bruce, è diventato ormai un classico. Un grande classico americano. Ma che, come tutti i classici, ha irrimediabilmente e definitivamente perso il contatto con la sua essenza artistica e (in qualche modo) con lo spirito del suo pubblico. Guadagnando, in compenso, uno status che lo farà passare alla storia. Ammesso che, nella storia, James Taylor e Bruce Springsteeen (così come Bob Dylan, Leonard Cohen, The Doors, Lou Reed, Patti Smith e tutti i grandi eroi del rock americano) già non ci siano. Tutti insieme, ma un gradino sotto colui che prima di tutti e meglio di tutti ha saputo coniugare rock e America: Elvis Presley.

Ezio Guaitamacchi, fonte JAM n. 85, 2002

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