A oltre due anni di distanza dalla sua registrazione esce finalmente l’atteso doppio album dal vivo che celebra il 15° anniversario di una delle bluegrass band più amate. Per festeggiare questo fantastico compleanno si sono riuniti, al Kennedy Center di Washington, Linda Ronstadt, Emmylou Harris, Ricky Skaggs, Tony Rice e altre superstar della country music.
Alexandria, Virginia, rappresenta la base ideale per una visita intensiva di Washington. Fuori dal caos della metropoli e con un clima più ventilato e fresco, la piccola cittadina, quietamente adagiata sulle storiche acque del fiume Potomac, è perfettamente attrezzata per garantire un soggiorno rilassante dopo le scarpinate per le stanze dei musei della Smithsonian Institution o tra i perfetti prati inglesi che separano il Campidoglio, la Casa Bianca e gli altri monumenti della capitale.
Ma per l’appassionato di musica, meglio se country, Alexandria è soprattutto famosa per essere la sede di un locale divenuto, nel giro di pochi anni, il più importante club di bluegrass e country music di tutti gli Stati Uniti. Sulla Mount Vernon Avenue che attraversa longitudinalmente tutta la città, si trova infatti The Birchmere, piccolo ristorante il cui interno trasuda riff banjoistici, assoli di fiddle mozzafiato e straordinarie armonie vocali. La sera, sul piccolo ma attrezzatissimo palco, si succedono le band più stimate, gli artisti più amati, i gruppi più sensazionali della storia della musica acustica americana ed europea: il tutto testimoniato da una infinita serie di fotografie appese alle pareti rappresentanti gli artisti che il locale ha ospitato nel corso degli ultimi anni.
Il Birchmere è nato nel 1966 come bluegrass club ma da otto anni, da quando si è trasferito nella sede attuale, ha allargato i suoi orizzonti musicali. Ma è al giovedì che si celebra un rito che è ormai tradizione: la voce di Gary Oelzee, proprietario del locale, e manager del gruppo, invariabilmente (proprio tutti i giovedì sera!) annuncia: “Ladies and gentlemen, live at The Birchmere, please make welcome…. The Seldom Scene!”
Per cogliere l’essenza di questo straordinario gruppo, da oltre quindici anni sulla cresta dell’onda, bisogna venire proprio qui, al Birchmere, e seguire nelle oltre due ore di spettacolo, lo humor caustico di John Duffey, le raffinatezze stilistiche del banjo di Ben Eldridge, la classe musicale di Mike Auldridge e le straordinarie armonie vocali del gruppo.
Nati nel 1971 sviluppando il nucleo originalmente formato da Ben Eldridge, John Starling e Mike Auldridge (a cui si aggiunsero gli ex-Country Gentlemen John Duffey e Tom Gray), i Seldom Scene scelsero questo nome poiché tutti i membri avevano altri lavori che, si pensava, avrebbero fortemente condizionato la vita artistica del gruppo. In realtà accadde esattamente il contrario.
Il solo John Starling ad una vita musicale full-time ha preferito l’attività di otorino-laringoiatra in quel di Montgomery, Alabama. Ben Eldridge, intellettuale del gruppo, conserva l’insegnamento della matematica e delle scienze come attività parallela a quella di banjoista ma gli altri, per un motivo o per l’altro, hanno deciso di dedicarsi interamente alla musica.
Vero è che, negli ultimi due anni, il gruppo ha subito un paio di sensibili variazioni. A Phil Rosenthal, che sostituì – anche se mai in modo pienamente convincente – il grande John Starling è subentrato il polistrumentista Lou Reid, già con Doyle Lawson e Ricky Skaggs. E soprattutto il formidabile contrabbasso di Tom Gray è stato soppiantato dal Fender elettrico di T. Michael Coleman, per anni fido accompagnatore di Doc Watson. I motivi di queste sostituzioni ci vengono brevemente forniti da John Duffey: “Abbiamo pensato che il basso elettrico si adattasse di più alle nostre necessità e inoltre T. Michael è musicista full-time mentre Tom era comunque sempre impegnato con il suo lavoro (come cartografo al National Geographic, n.d.a.). Con Phil il rapporto si è chiuso abbastanza male. E’ un tipo strano, è stato con noi per anni, ha scritto delle belle canzoni ma ha un problema: pensa che le sue canzoni siano le più belle del mondo”.
Nel camerino del Birchmere, tra un set e l’altro, ripercorriamo con Duffey la storia dei Seldom Scene.
“Abbiamo iniziato l’avventura con i Seldom Scene per gioco. Tutti quanti avevamo altri lavori e io, in particolare dopo l’esperienza con i Country Gentlemen, ne avevo abbastanza del music business. Ma il gruppo molto presto destò l’interesse generale e, soprattutto, quello di molti promoter che iniziarono a chiamarci e ad offrirci serate, tour e ingaggi interessanti. Si può dire che il successo venne senza che noi lo cercassimo”.
Già, anche se non era difficile prevederlo. Secondo George Mc Ceney, critico della rivista superspecializzata Bluegrass Unlimited “…. raramente una band di bluegrass ha visto la combinazione di tali e tanti talenti sin dall’inizio. Ed ancora più raramente c’è stato un gruppo che ha saputo mantenere inalterato lo standard qualitativo così a lungo”.
Sono più di quindici anni, infatti, che i Seldom Scene sono considerati una band di culto nel panorama bluegrass: sono unici, inimitabili, qualcuno dice, irraggiungibili. La creazione di un sound originale in cui ogni elemento del gruppo gioca un ruolo preciso e, a suo modo, stilisticamente personale, ha permesso ai Seldom Scene di affrancarsi una posizione di privilegio nel campo della country music americana. Le diverse sostituzioni sono state il frutto di decisioni difficili e dolorose: sacrifici necessari per la vita della band e per mantenere il più possibile inalterato l’inconfondibile suono.
La perdita più dolorosa, in questo senso, è stata forse la prima: la calda, pastosa voce di John Starling si è rivelata insostituibile soprattutto in quei brani di raffinato country acustico che da sempre sono il ‘trademark’ della band.
Anche se il parere di John Duffey rispetto alla country music nashvilliana è tassativo: “Non sopporto la country music. Anche le nuove generazioni non mi convincono e gente come Nanci Griffith, Desert Rose Band o Dwight Yoakam non so se abbia realmente il successo che si vuol far credere: spesso le ‘charts’ vengono truccate”.
Di fronte a tanta determinazione, mi sembra inutile tentare di convincere il vecchio John che le cose migliori dell’universo country degli ultimi tre anni non sono certo venute dal bluegrass. Duffey è perentorio nelle sue affermazioni e non concede repliche. “Il pubblico oggi è molto più competente: non credo che si possa salire sul palco e prenderlo in giro. Vent’anni fa il bluegrass era come le riviste pornografiche: venduto sottobanco; oggi è normale che un Presidente degli Stati Uniti (Ronald Reagan, n.d.a.) dichiari con orgoglio di ascoltare bluegrass. Il pubblico del bluegrass è molto vasto: abbiamo fans che vanno dagli otto anni fino agli ottanta”.
E’ anche vero che il bluegrass per sopravvivere ha dovuto creare dei grossi steccati difensivi che, se da una parte hanno mantenuta alta la fidelizzazione dei suoi fans, dall’altra hanno molto spesso impedito quell’indispensabile ricambio generazionale che, soprattutto dal punto di vista dei suoi interpreti, sembra oggi minare le radici della beneamata ‘erba blu’. E’ infatti dai tempi della ‘rivoluzione grismaniana’ della New Acoustic Music che all’orizzonte bluegrass non compaiono giovani talenti a rinvigorire le gesta dei vari Bela Fleck, Jerry Douglas, Mike Marshall, Darol Anger, Mark O’ Connor, Sam Bush, Tim O’ Brien, allora ‘enfants prodige’ della musica acustica nordamericana.
Ma tutto questo non sembra preoccupare più di tanto Duffey che pur all’epoca dei Country Gentlemen fu considerato un dissacratore per i suoi assoli di mandolino stravaganti e per la potentissima e quasi oltraggiosa voce tenore. “Bluegrass will never die”, il bluegrass non morirà mai, ci dice con fiducia Duffey.
A proposito del suo incredibile modo di cantare, da considerarsi uno dei principali ingredienti del sound Seldom Scene, John ammette: “Devo tutto a mio padre, cantante lirico. Non ha mai sopportato le cose che io facevo, ma venne ad ascoltarmi una volta e mi disse: “Canta con il diaframma e non con la gola”. Tenni a mente questo consiglio e la mia voce ne uscì molto potenziata nel volume e nella timbrica”. Ed ora non è concepibile immaginare le armonie vocali del gruppo senza l’inconfondibile ‘high and lonesome sound’ di John Duffey.
Il suono dolce, rotondo e sempre equilibrato del dobro di Mike Auldridge è un’altra componente di base della ricetta Seldom Scene. L’uomo è pacato, diligente, molto ‘ordinary’, come direbbero in America; e se non fosse per gli improbabili colletti delle sue camicie western, egli potrebbe tranquillamente essere scambiato per un tranquillo funzionario del ‘Post Office’. Per questa sua indole tranquilla, Mike è la vittima preferita degli scherzi e delle angherie che Duffey gli propina sul palco. John è il front-man del gruppo e un concerto dei Seldom Scene non sarebbe tale senza le sue gag e i suoi giochini con il pubblico.
Se Auldridge è la vittima predestinata, il suo quasi omonimo Eldridge lo segue a ruota. Dall’alto del suo look intellettualoide, Ben si distingue per i raffinati e caratteristici back-up banjoistici, che riempiono così bene le pause tra le varie battute e per gli assoli precisi, originali e mai oltre misura: un maestro del suo strumento.
Di Lou Reid e di Michael T. Coleman null’altro si può aggiungere alla già nota qualificata ma anonima professionalità: d’altronde sono stati scelti proprio per questo.
“Mi piace credere” dice John “che il gruppo sia in continua crescita pur mantenendosi coerente dal punto di vista musicale. Le richieste che riceviamo da tutto il mondo sono una testimonianza inequivocabile della nostra vitalità artistica”.
Ma i Seldom Scene, checché ne dica Duffey, sono sempre più un triumvirato. Il disco con Jonathan Edwards e la recente celebrazione dei 15 anni di carriera al Kennedy Center hanno dimostrato che il gruppo è ancora potenzialmente valido, versatile e in grado di produrre qualcosa di nuovo: lotte di potere a parte.
Ezio Guaitamacchi, fonte Hi, Folks! n. 33, 1989