Ho parlato di recente con Beppe Gambetta, una persona che, sospetto, la maggior parte dei lettori conosca già. È stata un’opportunità di parlargli quando usa la sua voce giù dal palcoscenico. Ma, e questa non è una sorpresa per chiunque lo conosca, la nostra conversazione è stata tranquilla e spontanea, come se stessi assistendo ad uno dei suoi spettacoli dal vivo.
Beppe è stato molto impegnato nell’esibirsi qui in America negli ultimi 10 anni, e volevo sapere come si sentiva nel lavorare per il pubblico americano. E mi ha detto, dal punto di vista di un musicista professionista italiano, com’è lavorare ‘da questo lato dello stagno’. E, allargando il discorso, mi ha anche detto, e lo dice anche a voi, un sacco di cose interessanti che non sapevo. Ma, prima di iniziare, lasciatemi dire alcune cose che riguardano Beppe e che non trovano spazio nell’intervista. Come vedrete, quest’intervista non è molto ‘tecnica’, perché io non suono alcuno strumento. Ma ci sento molto bene, e capisco la musica bluegrass ed il flatpicking, perché le ho ascoltate per ormai quasi 40 anni. Per cui quando vi parlo di diversi dei suoi concerti cui ho assistito negli ultimi anni, vi posso dare le mie emozioni più profonde, e quanto meglio ricordo.
A parte il suo incredibile modo di suonare, lui è un meraviglioso intrattenitore. Se non lo avete mai sentito, vi perdete qualcosa. Sono trascorsi alcuni anni da quando ho assistito la prima volta ad un suo concerto dal vivo, ma ricordo ancora la sua divertente storia sul fatto di suonare alla radio per i panettieri, alle 4 del mattino, o la sua storia d’amore andata male con quella ragazza tedesca, da cui è nata la sua composizione Maibaum, o i suoi problemi nel parlare e capire l’Inglese quando racconta la sua storia di Polka e giocatori di Poker (questa la capiscono solo gli Americani. NdT). È difficile afferrare questi dettagli dai suoi dischi. Così come quando suona ‘unplugged’, e viene avanti, davanti al microfono, e suona e canta mentre va su e giù per le poltrone, a volte facendo una serenata ad una signora, altre volte suonando qualche strano lick che gli piace in modo particolare.
E sì, le sue esibizioni sono semplicemente incantevoli. LA sua personalità ed il suo entusiasmo contagioso, un grande senso dell’umorismo ed una impressionante comunicatività costruiscono un legame non comune tra lui e te nel pubblico. Di recente qualcuno ha detto, di Beppe, che quando lo vedi esibirsi, “ridi, canti, batti il piede, piangi, rifletti, ridi ancora, ed alla fine ti senti come lui, che sta sul palco dietro alla chitarra. Ti senti come se avessi un nuovo amico”. Vorrei averlo detto io, perché è esattamente così che mi sento. È quella stessa identica magia che produce Pete Seeger quando si esibisce dal vivo. Si, non si dovrebbe mancare un concerto dal vivo di Beppe in America (neanche in Italia, NdT).
Ma baste con le mie divagazioni, e veniamo all’intervista.
DK – In che modo è diverso esibirsi per gli americani piuttosto che per gli europei.
BG – In genere, il pubblico americano è tra quello che ascolta meglio in tutto il mondo. Non è che voglia fare dei complimenti, ma sento veramente che gli americani nell’uditorio sono in particolarmente buona relazione con la musica che stanno ascoltando. Non so esattamente come spiegarlo in buon inglese, ma sembra che loro abbiano, con ogni tipo di musica, un miglior rapporto con ciò che ascoltano. Mi sembra, e vedo, che il pubblico americano dimostri una maggior risposta, e una maggior partecipazione. In confronto, nel pubblico di altri paesi è a volte più difficile trovare quel tipo di corrispondenza. Trovi dei muri. Forse quel pubblico è interessato, forse è felice, ma non si lasciano coinvolgere più di tanto. Se lo facessero, sarebbe di grande incoraggiamento per l’artista. Spezzare questo muro tra te ed il pubblico richiede una notevole capacità di comunicare in entrambe le direzioni. Il pubblico ti dà, in parte, l’energia per suonare. È sempre uno scambio, tu cerchi di darti come artista, di dargli le migliori emozioni che hai con la tua arte, e loro ti comunicano indietro la loro gioia. Questo tipo di comunicazione mi sembra molto più intenso con un pubblico americano. In effetti, è uno dei più intensi. Lo percepisco specialmente al festival, è davvero intenso, là. Ad alcuni festival raggiunge livelli molto alti.
DK – Penso di capire. Come quando, nel giro bluegrass, applaudiamo durante un assolo, quando altri magari aspetterebbero la fine della canzone per applaudire. Se qualcuno suona un lick particolarmente buono, la gente spesso si alza in piedi e applaude, proprio nel mezzo dell’esibizione. C’è qualcosa del genere, in Europa, o trovi che abbiano più ritegno a comportarsi così?
BG – In effetti, in tutto il mondo bluegrass vedi quella cosa, perché nel bluegrass c’è una mentalità diversa. La mentalità bluegrass è simile in tutto il mondo. La gente che ama il bluegrass, al di là di diverse culture, si comporta in questo modo. Anche a certi festival in Europa la gente applaude dopo gli assoli. Ma, se dovessi scegliere un uditorio che partecipa davvero in modo più sincero, lo sceglierei americano. Forse è per la capacità americana di organizzare le cose. Qui i concerti si tengono sempre in buone sale, hanno buona pubblicità e sono organizzati meglio. Questo, in alcuni paesi, è meno possibile.
DK – Che ne pensi delle differenze geografiche in USA? Hai suonato nel Texas, nel nostro Midwest e nel New Jersey. Senti differenze regionali? Chiaramente, il pubblico nel Texas sarà più orientato verso la country music di quello che potrebbe a New York o nel New Jersey, ma tu, come artista, senti differenze?
BG – Veramente, non molto, probabilmente perché sono abituato all’Europa, dove il regionalismo è molto più accentuato. Se ci pensi, l’Italia è un paese che è molto più giovane degli Stati Uniti, perché l’Italia è diventata una nazione unificata solo a metà dell’800. Quasi un secolo dopo gli Stati Uniti. Per cui le differenze regionali, in Europa in generale ed in Italia in particolare, sono così forti che, se faccio un confronto, trovo che la cultura americana è molto più omogenea.
DK – Americani prima di tutto! È interessante, non pensiamo sempre di noi stessi di essere gente più individualista. Nelle tue esibizioni più recenti canti una canzone in dialetto genovese, ed un’altra in piemontese. Se guardo solo questi due dialetti diversi, mi aspetto di trovare una ancor maggiore eterogeneità tra gli Europei.
BG – Certo. E naturalmente, queste differenze sono una buona cosa. Perché da queste differenze puoi prendere nuove idee musicali. E questo è vero anche nel vostro country. Dove la regione degli Appalachi aveva la sua propria cultura, ben preservata, e fu da lì che venne un tipo di musica completamente separato. E per questo mi piacciono le differenze regionali, ma negli Stati Uniti c’è meno regionalismo, perché il vostro paese è così ben organizzato, e comunicate meglio tra le diverse regioni, e c’è anche una grande mobilità nel lavoro. Qui una persona nel corso di una vita normale può cambiare lo stato in cui vive due, tre, o quattro volte. Questo succede meno spesso in Europa. Ma, per me, questa mobilità è molto pratica. Perché so che in ogni città che visiterò troverò un Radio Shack dove posso trovare quello che mi serve per la mia chitarra.
DK – Parliamo un po’ dei tuoi dischi. Nel tuo Dialogs mi piacerebbe sapere come hai messo insieme e registrato quei duetti con alcuni dei migliori flatpicker americani. E poi, tutti nel fìatpicking conoscono Dan Crary o Norman Blake, ma nomi come John Jorgensen e Raul Reinoso non sono esattamente nomi familiari nel bluegrass americano. Ciò nonostante, il loro flatpicking è superbo. Come hai fatto ad incontrare tutti questi super musicisti americani per produrre un così fantastico disco.
BG – Si. la prima ragione per fare quel disco era promuovere il flatpicking in Italia. Mi sono detto, allora, dovrei portare un po’ di questa musica qui in Italia per promuoverla meglio. Nel frattempo Joe Carr. che continua lo stile di Clarence White ed ha anche suonato per diversi anni con i Country Gazette, mi ha detto, dovremmo fare qualche duetto, e se vieni negli States dovremmo preparare qualcosa per il mio prossimo album. Ho anche ricevuto altre offerte da altri vecchi amici, ma abitavano in posti molto diversi negli US. Così mi lambiccavo su come fosse possibile portare tutta questa gente in uno studio. Era chiaramente impossibile.
Ma ho la fortuna di avere una buona amicizia con Rob Griffìn, che è anche sull’album, e che, a quell’epoca, ha cambiato la sua carriera da musicista bluegrass più verso la tecnica del suono. Mi disse; “Dovresti portare il tuo studio da loro. Invece di portare i musicisti in studio, vai tu da loro”. Così, tramite il fratello di Rob, che è un tecnico di sala d’incisione, ci siamo procurati il primo dei due o tre registratori digitali originali prodotti negli USA. Era un portatile di marca DAT, ed allora non era disponibile al pubblico. Era il 1988.
DK – Quando è stato finito Dialogs?
BG – Nel 1988
DK – Così questo progetto colossale è iniziato e finito in meno di un anno?
BG – Meno di così. Avevo uno speciale biglietto aereo, a prezzo fisso, che mi permetteva di volare ovunque negli USA per un mese. Per cui ho dovuto fare tutto in un mese.
DK – Wow!
BG – Se osservi le date, era incredibile. Stavo due giorni in un posto, due giorni in un altro. Ed avevo quell’incredibilmente pesante marchingegno DAT, con un grande microfono, e dovevo viaggiare per tutto il paese.
DK – E ti facevi il suono da solo, senza un tecnico?
BG – Si, perché Rob mi aveva dato qualche buon consiglio. Sai che il suono, in questo campo della musica bluegrass per chitarra acustica, lo si ottiene all’80% con la scelta ed il posizionamento del microfono. Per cui ti serve un buon microfono. Poi devi scegliere un buon locale, e devi posizionare il microfono ascoltando attentamente, e devi spostare la chitarra intorno fino a che non ti piace quello che senti. È per quello che il suono di quel CD è così buono, perché avevo questo eccellente DAT portatile ed avevo imparato a posizionare il microfono. Non muovevamo nemmeno una manopola cercando di ottenere un suono più o meno asciutto. Era pulito, aperto, ma abbiamo lavorato un po’ in studio, quando abbiamo fatto il mix. Abbiamo aggiunto giusto un po’ di riverbero.
DK – Autentica registrazione sul campo, vecchio stile!
BG – Si, è così. In un posto era in cucina, in un altro nel salotto, qualsiasi stanza fosse più accessibile. Quando sono arrivato negli US, ho fatto molte telefonate ai musicisti, e loro mi hanno richiamato. Ci è voluto un po’ di tempo, ma la maggior parte disse che lo avrebbe fatto, e lo ha fatto. Perché è un po’ strano chiamare e dire. “Ehilà. sono un italiano, cui piacerebbe suonare un duetto con te…”. Il giorno che sono arrivato a casa di Norman Blake era quello dopo il suo compleanno, e mi sono mangiato gli avanzi della sua torta. In effetti, ci sono un sacco di storie interessanti collegate a questo album. Ad esempio, quel pezzo con Norman Blake, lo abbiamo registrato nel bel mezzo di un temporale. Ti puoi immaginare, essere in una stanza a suonare con Norman Blake per la prima volta in vita tua, con tuoni e fulmini di fuori?
DK – Raccontami di John Jorgensen. Mi interessa particolarmente quel pezzo, Incredible, perché mi da l’impressione della musica di Cape Breton, e la stessa sensazione di St. Anne’s Reel.
BG – John Jorgensen ha scritto quel pezzo per l’occasione. Disse, “Oh, stavo pensando a te, quando mi è venuto quel pezzo alla mente”. È veramente un bellissimo pezzo. E poi, con Red Wing, lo abbiamo suonato su quell’album, e ancora con Dan Crary lo abbiamo usato come pezzo d’apertura in uno spettacolo che abbiamo fatto insieme. Perché è veramente molto bello. Associata a quel pezzo c’è anche una storia buffa. È successo che quando sono venuto negli USA per preparare Dialogs avevo un gran bagaglio per via di quel pesante registratore DAT, e non avevo abbastanza spazio dove mettere tutti i miei vestiti. Per cui ho levato le corde alla chitarra, e ci ho ficcato dentro un po’ dei miei vestiti, e la usavo come valigia. Quando registrammo Incredible, mi dimenticai di tirare fuori tutto, e dentro alla chitarra c’erano ancora un paio di guanti ed una cravatta. Mi sembrava che quel giorno il suono della chitarra fosse un po’ ‘asciutto’ per la registrazione, perché non sapevo quello che c’era ancora dentro. Il giorno dopo, quando cambiai le corde, dissi, “Bellandi, è incredibile” (Nell’originale: “Oh my God, that’s incredible”; garantisco di aver sentito Beppe, almeno una volta, esclamare “Bellandi”, NdT). È da lì che il pezzo ha preso il nome.
Sono veramente felice che alcune delle persone su Dialogs fossero, in quel momento, veramente in forma con il loro flatpicking. Come Joe Carr, che adesso è più un insegnante, al South Plains College, e Phil Rosenthal, che in quel momento era al suo massimo. Ma altre persone, a quell’epoca, non erano molto famose, ma lo diventarono, come David Grier e John Jorgenson, che è eclettico, ed è diventato il chitarrista di Elton John. Comunque, Dialogs ha un suono prodotto molti anni fa, e probabilmente ora io suono un po’ meglio, ma ha ancora una notevole energia. Perché c’è l’energia di aver incontrato tutte queste persone, aver trovato un nuovo amico, e aver cercato di fare della buona musica insieme la prima volta che ci siamo incontrati. La gente può sentire questa energia scaturire dall’ album.
DK – Ora so che hai inciso parecchio dopo Dialogs, e voglio sapere qualcosa di questi progetti, ma vorrei cambiare argomento, e chiederti com’è per un artista europeo lavorare con un agente e manager americano, come la tua Stephanie Ledgin.
BG – È una bellissima cosa avere un manager negli USA, ed infatti, sento come un privilegio avere qualcuno come Stephanie che si prende cura di me in questo paese. Sai che la cosa fondamentale tra un artista ed il suo manager è l’entusiasmo. In passato ho lavorato con altra gente, che non aveva quell’entusiasmo. Non trovavano piacere nel loro lavoro, e quel rapporto si è spento. Direi che la cosa più importante fornita da Stephanie è il suo entusiasmo. È veramente entusiasta di quello che suono, e capisce esattamente perché tutti e due dobbiamo lavorare duramente. Inoltre, Stephanie se la cava molto bene con certi problemi particolari per un artista europeo, come i visti. Ogni anno devo ottenere un nuovo visto. Non è un grosso problema, ma all’inizio lo era. È buona cosa per un artista non americano avere un regolare visto di lavoro, perché se non lo hai, puoi essere espulso.
DK – Quanto tempo ci stai negli USA, quando sei in tour?
BG – Quando ho iniziato ci stavo da un mese ad un mese e mezzo, e venivo un paio di volte l’anno. Ora, grazie al duro lavoro di Stephanie c’è una maggiore richiesta. Ora sono qui durante tutto l’anno, forse per quattro mesi. Viaggio anche avanti e indietro diverse volte l’anno per qualche viaggio più corto. Ora ho una buona energia, sono nell’età in cui posso fare il massimo, per cui cerco seriamente di accettare il maggior numero di buone offerte che mi arrivano. Infatti quest’anno, dall’inizio di aprile fino a metà maggio, Stephanie mi ha prenotato non meno di 38 diversi concerti. Poi tornerò per due diversi tour in giugno e luglio, per qualcuno dei festival più importanti. Questo è ciò che significa avere un buon agente americano.
DK – Qual è la tua stagione migliore, l’estate o l’inverno?
BG – Forse settembre. Perché il posto dove sono accolto meglio negli USA è al festival di Winfield, in Kansas. Quel festival è il più magico per quello che faccio io. C’è una grande risposta, là, per cui quello è il mio miglior periodo per esibirmi.
DK – La prossima volta che vai a Winfìeld, salutami Bob Redford. Scrissi una storia riguardante il suo festival quando ero a Pickin’ Magazine, molto tempo fa. Forse Bob si ricorda ancora di me, è una brava persona.
BG – È una brava persona, e il suo festival l’anno scorso è stato il più affollato. Dicono che ci fossero circa 17.000 paganti durante il weekend, probabilmente di più se contiamo le persone che venivano in giornata. In ogni caso, è un gran bel numero, se consideri che in Italia ci sono forse 500 musicisti in tutta Italia (Bluegrass? Ottimista… NdT), e in un solo festival negli USA puoi arrivare a 17.000. Penso che sia un omaggio meraviglioso alla musica.
DK – A parte Winfield, a quali altri festival hai suonato?
BG – Negli USA, ho suonato al Merlfest in aprile, nel North Carolina. È stata una cosa davvero grande. B. Townes tiene in piedi quella cosa, ed è una persona meravigliosa. Ho suonato ad un grande festival ad Helena, Montana, che si chiama Last Chance Bluegrass Festival. E diversi anni fa, in Settembre, ho suonato a Owensboro, alla grande convention della IBMA. E ho suonato al Winnipeg Folk Festival. È probabilmente il maggior festival canadese, ed è il migliore! Dovresti davvero andarci e sperimentare la differenza tra America e Canada nei loro eventi musicali culturali. Ma il pubblico più grande per cui ho suonato in vita mia non è stato in America, ma nella repubblica Ceca, qualcosa come 35.000 persone. Quando 35.000 persone stanno su una collina davanti a te, e gridano verso di te… gente, senti l’aria muoversi e sbatterti in faccia. È una sensazione davvero forte. Un po’ come una tempesta di vento.
DK – Trovi diverso suonare in un ambiente più raccolto, come in un concerto, piuttosto che suonare sul palco di un festival dove ci possono essere magari 15.000 persone nel pubblico? Voglio dire, come fai a stare tranquillo quando Dan Crary o Doc Watson ti guardano o ti ascoltano suonare?
BG – Sento la differenza. È strano, ma a volte mi rende più nervoso l’avere un grande chitarrista seduto davanti a me in una piccola stanza, che un pubblico di 15.000 persone molto lontane. Una volta in una jam session, con Doc Watson là,. prima che lo riconoscessi, e scoprire che Doc Watson mi stava ascoltando… E’ stato duro.
DK – Torniamo alla tua attività dopo Dialogs. Credo che tu abbia registrato altri due o tre album, e che tu sia apparso diverse volte come ospite su album altrui, come sul Jammed If I Do di Dan Crary, uscito per Sugar Hill. E hai anche scritto un libro di cucina, di cui parleremo poi. Ma adesso parlami dell’album con Tony Trischka.
BG – Nel 1991 ho fatto Alone And Togheter, un album dal vivo con Tony Trischka. È stato prodotto in Europa da registrazioni effettuate negli Stati Uniti. Ora in America. È su Alcazar #118. La produzione di questo album è stata un po’ affrettata, perché c’erano pochi soldi. Amo i pezzi che ci sono su, ma ogni volta che lo ascolto, penso “Ah, se avessimo avuto una settimana in più per lavorarci sopra”. Ma è un bel documento; è una riflessione sul nostro viaggiare insieme. Tony ed io, per tutta l’Europa e tutti gli USA durante quegli anni.
DK – E nel ’95, è arrivato Good News From Home. Mi dici della grande varietà di musicisti ospiti lì?
BG – Decidemmo di usare le capacità artistiche di alcuni grandi musicisti, ma tentammo di tenere la cosa discreta. Voglio dire, io di solito eseguo un concerto solo per chitarra, con qualche variazione. Perché con una grande orchestrazione, la differenza tra il solo e la grande orchestrazione sarebbe così grande che la gente non riuscirebbe a capire che cosa stanno ascoltando. Per cui alla fine abbiamo un po’ mescolato, e fatto metà e metà. Abbiamo deciso, per alcuni pezzi, di avere solo la chitarra, per altri chitarra e basso, e per altri solo chitarra, basso e mandolino. Questo significa che quando senti un pezzo da solista, non ci sono più di due o tre strumenti al massimo. La nostra idea era quella di non soverchiare, o riempire troppo i pezzi, in modo che la gente trovi più o meno lo stesso suono che sente ai concerti dal vivo.
Ma per rispondere più precisamente alla tua domanda, gli ospiti erano superbi. C’era Gene Parsons, dei Byrds, che cantava in armonia, Mike Marshall, un grandioso strumentista da San Francisco, Todd Phillips, il contrabbassista della Bluegrass Album Band, e molti altri. C’era anche Carlo Aonzo, dell’Orchestra della Scala, e un altro speciale amico italiano che suona la fisarmonica nella canzone Margaritin. È Riccardo Tesi, l’uomo italiano giusto per la fisarmonica – un grandissimo gusto! E infine, un’intera orchestra di musicisti Cechi.
DK – Cavoli, che cast!
BG – Oh si! Il quarto pezzo, che si chiama Moravian Journey, è particolarmente interessante perché abbiamo usato una gran varietà di musicisti. Su questo pezzo io suono un ritmo veloce di danza (è un effetti una Czarda), ma lo suono nello stile di Doc Watson. L’accompagnamento della Moravian Folk Ensemble dimostra che l’energia presente nei fiddle tune è così forte che ha qualcosa in comune in tutto il mondo. E questo è Good News From Home.
DK – Ed è su Green Linnet, #2117.
BG – Si. ho deciso di mostrare l’intera varietà delle mie radici e dei miei viaggi. Per chiarire cosa sia la mia vita, continuo ad andare avanti e indietro attraversando tutti questi confini, per cui è stato bene per me non fare strettamente bluegrass o musica europea, ma mescolare queste diverse forme musicali che trovo nei miei viaggi. Questo è quello che ho cercato di fare, ed è stato un successo, perché a tutt’oggi Good News From Home ha venduto quasi 10.000 copie.
DK – È un bel po’ per un album di musica così specifica. Ma mentre noi parliamo qui, hai anche sotto mano i master del tuo ultimo progetto. Me ne puoi parlare?
BG – Si, anche questo è per Green Linnet, ma è un’esperienza musicale completamente diversa. Mi piace pensarlo come una specie di parentesi nella mia carriera. Cioè, è un tipo speciale di musica che ho scoperto qualche tempo fa, e su cui ho fatto qualche seria ricerca. Nella mia città di Genova all’inizio del secolo si ebbe un meraviglioso movimento di musica e di musicisti. Quello stile all’antica, una specie di musica romantico-virtuoso dall’Italia. E quando l’ho scoperta, era quasi del tutto dimenticata.
DK – È del tipo di Nino E Pasquale, che ti ho sentito suonare in concerto, e che hai registrato su Good News From Home, ma adesso hai messo fuori un intero album di questa musica? Dimmi un po’.
BG – Non solo un intero CD, ma un intero spettacolo con questa musica. Per cui ora ho una specie di direzione separata nella mia carriera. La vera ragione è che, per quel che ne so, nessun altro a Genova si prende la cura o il tempo per farlo. Questo significa che se non lo faccio io, l’uomo che adesso ha 92 anni, che ancora conosce qualcosa di questa musica, potrebbe morire e più nessuno ne saprebbe niente. L’intera collezione, l’intera storia ora sarà documentata. Ed io penso che sia importante documentare questa musica, perché gran parte della scena musicale negli USA fu sviluppata a partì da questo movimento di virtuosi italiani. Ma questa musica non era solo italiana, veniva da tutta l’Europa. Veniva suonata su mandolini, chitarre, ed anche arpe. Hai mai sentito il CD della Rounder Records su cui si sentono vecchie incisioni di virtuosi italiani. negli anni ’20 a New York? Be’, questi mandolinisti, e suonatori di banjo a quattro corde, ho la sensazione che questa catena musicale abbia preceduto la nostra string music acustica. I primi musicisti di strumenti a corda prendevano frasi ed idee da quel periodo, e le incorporavano nella propria musica. Alcuni lick sono gli stessi che Django Reinhardt svilupperà in seguito. Penso che non sia bello dimenticare completamente quel periodo musicale, solo perché è fuori moda.
DK – Come si chiama, e quando uscirà?
BG – Si chiama Serenata, che in Inglese è Serenade. Lo abbiamo intitolato in italiano, in modo che l’ascoltatore capisca che è all’antica. Italiano. Una cosa particolarmente interessante è che quando discutevo di fare quest’album con Carlo, che è il mandolinista classico che suona con me su Serenata, eravamo d’accordo nel pensare che rendevamo viva questa musica, perché entrambi avevamo un passato bluegrass. In altre parole, quella musica, in quel periodo, era veramente al confine tra la musica classica seria e quella folk allegra. E ti puoi rendere conto di come quei vecchi personaggi iniziavano ad improvvisare, di come diventavano più rilassati nel loro timing. Per cui quello che è veramente interessante è che, per interpretare questa vecchia musica, ti serve un po’ di sensibilità bluegrass, insieme ad un po’ di istinto. Perché il bluegrass è un’arte istintiva, non una cosa classica. E l’istinto, la volontà di infilarsi in qualche jam, di stare con gli altri, e l’aspetto improvvisativo che colma le distanze. Carlo è un grande fan di Jethro Burns, e lui possiede veramente quell’istinto.
DK – Conosci Barry Mitterhoff? Diversi anni fa fece un album di mandolino in stile italiano che era avanti rispetto al suo tempo. (Silk City, Flying Fish FF-472. NdR)
BG – Sicuro. Barry Mitterhoff è un grande mandolinista. Ho avuto qualche esperienza suonando con lui. Sono stato molte volte ospite della vecchia Skyline Band, nella Repubblica Ceca e anche in molti concerti in Pennsylvania dove gli Skyline suonavano, mi hanno chiamato sul palco a suonare. Per cui so quanto sia bravo. E lo ammiro perché lui ha questa grande visione globale del mandolino, una visione storica. Lui, naturalmente, va oltre i limiti, e insegna e suona la sua propria musica che è collegata alla tradizione americana, ma rispetta ogni altro tipo di musica tradizionale, ed è un esperto dello stile virtuoso. Sì, è un uomo con una visione grande ed aperta del mandolino.
DK – Bene, ti auguro buna fortuna con Serenata, e non vedo l’ora di ascoltarlo.
Ma, se me lo permetti, vorrei tornare indietro nella tua storia discografica, e parlare del gruppo Red Wine. Hai per caso con te il loro CD Full Taste (Red Wine #001)? Non l’ho mai sentito, e so che suonavi con loro.
BG – No, mi dispiace, non ce l’ho, ma ho una buona notizia. Red Wine sta per pubblicare un nuovo CD. È una loro retrospettiva, ed è intitolato, giustamente, Red Wine Retrospective, ed ho registrato un pezzo su quel disco. Red Wine Retrospective copre l’intera vita della banda. I pezzi più vecchi sono quelli in cui suonavo ancora nella banda. Ora, come ospite, mi hanno chiesto di tornare a suonare uno strumentale. Quel pezzo, veramente carino, è stato scritto da Silvio Ferretti, il banjoista, ed è stato molto bello specialmente per me ricordare che le mie radici bluegrass arrivano direttamente dalla musica che suonava la Red Wine.
DK – E’ già uscito Red Wine Retrospective?
BG – No, ma probabilmente lo sarà quest’estate
DK – Lasciami cambiare direzione un’altra volta. Che ne dici della televisione? Hai fatto un po’ di TV qui in America?
BG – Oh, si, la televisione. Questo è ciò che rende l’America la terra delle opportunità. Dove non importa quali siano i tuoi agganci, ma quello che conta è il vero valore di quello che fai. Questa è una delle ragioni per cui amo così tanto l’America.
Naturalmente, in tutto il mondo gli agganci aiutano, ma qui negli USA puoi superare i tuoi agganci e dire solo: “Eccomi qui. Questo è quello che faccio. Se ti piaccio, chiamami”. E la gente ti chiama! Ad esempio, una volta stavo suonando ad uno spettacolo ad Omaha. Nebraska. La mia foto era sul giornale, ed un tale che era un qualche importante direttore della rete TV Americana mi ha chiamato. Mi chiese se poteva venire da me e preparare uno spettacolo TV su di me. Ed io risposi, naturalmente, di si. E sono venuti e l’hanno fatto, ed era su questo importante canale TV, Americana TV network, solo perché un tizio decise che era una cosa interessante.
DK – Solo in America! (È una barzelletta americana). Bene, spero che tu abbia ottenuto una copia di quello show.
BG – Si, ce l’ho. Ma sai, in questo campo musicale così specializzato, niente può veramente cambiare il tuo stato. È un mercato indipendente, e ciò è diverso dal mercato commerciale. Qui ti trovi sempre in un piccolo spazio in cui devi lavorare. Per cui, anche se sono stato in televisione, ho dovuto comunque lavorare sempre sodo per essere riconosciuto. Ma ha molto aiutato la mia carriera l’essere visto in televisione. E questa è un’altra dimostrazione del fatto che, in questo paese, gli agganci contano in politica, ma la gente qui ha una maggiore libertà di scelta che in altri paesi, e questo è davvero bello.
DK – Parliamo della tua più recente pubblicazione, che non è strettamente musicale ma la musica ne costituisce una parte importante. E il tuo libro di cucina, intitolato Beppe Cooks! Recipes From The Homeland. Che cosa ti ha spinto a questo? Quando parli di questo progetto ai tuoi concerti, suona quasi come una barzelletta. Ma poi, quando mostri il libro di cucina dal palcoscenico, e dopo che le risate si sono spente, il pubblico è del tutto attento. Perché ti ho perfino sentito dire, dopo l’intervallo ad un concerto, che questa volta il tuo libro ha venduto più dei tuoi CD e cassette. È una facezia, o che?
BG – In effetti, è esattamente come hai detto. All’inizio era una barzelletta, perché non la si prendeva davvero sul serio. Ho scherzato sullo scrivere queste ricette per darle ai miei amici. Perché a volte cucino a casa loro, e loro mi chiedono sempre di scriverle. Così una volta, stavo con certi amici a Houston, Texas, che sono dei bravi fotografi, ed amano anche il bluegrass, ed avevo con me qualche ricetta. Così un giorno ho detto: “Okay, ci scherziamo su, ma oggi proviamo a fare una foto e vediamo cosa ne salta fuori”. E facemmo questa foto del pesto con un capotasto ed era bellissima. Era venuta così bene, che dissi, “Va bene, facciamolo ancora e facciamo un libro!”. Così ogni volta che andavo a Houston, lavoravo uno o due giorni per preparare quattro o cinque incredibili pasti. Ma la cosa peggiore è che dovevamo aspettare anche una o due ore prima di poterli mangiare, perché dovevamo fotografarli. Era così buono, che tutto il cibo veniva mangiato completamente dai musicisti, accompagnato da grandi jam session e feste. E questa è l’intera storia di come il libro è stato preparato. È stato solo una questione di allegria. Sai, senti dire tutte queste storie sul verniciare a spruzzo il cibo per rendere le foto più brillanti, o più eleganti. Noi abbiamo messo solo un po’ di olio d’oliva, perché non volevamo rovinarlo, per poter essere in grado di mangiarlo dopo.
E quando tutte le fotografie sono state fatte, abbiamo messo insieme i loro disegni con la mia arte culinaria, ma ho anche aggiunto alcune cose interessanti ed insolite. Ci sono un sacco di riferimenti alla musica, così come in ogni fotografia puoi vedere qualche riferimento ad uno strumento bluegrass o a qualche album famoso, e c’è sempre una lista di ascolti raccomandati mentre cucini e mangi quel tal piatto. In tutto il libro ci sono barzellette, ed alla fine c’è un importante capitolo umoristico sul modo migliore di schiacciare un pisolino. Il libro di cucina racconta un po’ di me, nello stesso modo in cui lo fa la mia musica. Perché con la musica tu parli di te, cerchi di trasmettere delle buone sensazioni. Io cerco di fare lo stesso con il cibo. Il cibo mantiene la gente in buona salute, difficilmente litigano quando sono a tavola.
DK – Questo suona molto bene! Così magari l’anno prossimo preparerai un libro sul vino italiano?
BG – Può darsi. Sono più pratico di cibo che di vino, ma in effetti ho una certa affinità anche con il vino. Una volto sono andato nella zona del Barolo, in Piemonte, e ho tenuto un concerto in un grande, antico castello con Dan Crary. Là servivano i più grandi tartufi sul mercato, ed una incredibile varietà di Barolo. Era stato molto difficile suonare, dopo. Quando vieni in Italia, ti insegno dov’è il castello.
DK – Oh, miodio, sarei morto e andato in Paradiso, pur di essere stato là. Mi piacerebbe molto trovare quel castello. Eh si, hai stuzzicato la mia gola ed il mio palato, e sono pronto a partire. Ma. prima, devo finire questa intervista. Per cui lascia che mi ricomponga e cambiamo argomento. A parte le tue registrazioni, concerti e libri, hai mai insegnato qualcosa qui in America?
BG – È una bella domanda. Ogni musicista, per campare, cerca anche di insegnare. E questa è una cosa veramente difficile da fare. Tenterò di spiegare, ma il mio inglese non è un granché su questi soggetti delicati. Per cui, cerca di scusarmi. Vedi, se sei completamente musicista, è difficile essere un insegnante totalmente buono. Perché se ti limiti a suonare musica, sei di solito estremamente focalizzato sulle tue proprie cose, ossia sul tuo ego. Sì, sei un po’, e magari anche molto, egocentrico. Però c’è un modo gentile di essere egocentrico, senza essere aggressivo. E cioè quello di stimolarti quando ti senti giù, perché la vita di un musicista è molto dura. Ma ancora a volte il tuo ego si intromette nel tuo modo di insegnare. In genere, ci sono molti grandissimi musicisti che non sono buoni insegnanti, e vice versa. Io cerco di essere veramente positivo quando insegno, perché ti può dare la stessa soddisfazione che suonare. Ma l’insegnamento richiede una notevole arte psicologica. Devi convincere lo studente ad adottare certe scelte, e a seguirle, devi dargli l’energia e l’entusiasmo per farlo. Questo va al di là della tecnica, o del metodo di insegnamento.
Io insegno molto nei workshop. È veramente difficile capire la psicologia di ciascuno lì, e cercare di aiutare un po’ tutti quanti, perché non tutti sono allo stesso livello tecnico, e provengono da formazioni molto diverse. In Italia, quando insegno, ho spesso studenti che sono musicisti country, o metallari, gente di estrazione classica, tutti che vengono allo stesso workshop. Cerco di fare del mio meglio, e cerco di dimenticare, per il momento, che loro sono anche musicisti, e io devo cercare di dar loro il miglior insegnamento di cui sono capace. Perché devi scegliere esattamente il tipo giusto di difficoltà che li incoraggi ad imparare.
Poi, devi essere molto amichevole, ma se sei completamente amichevole, quelli pensano. “Oh be’, questo insegnante è una persona mediocre…”. È così strano; a volte deve mantenere un po’ le distanze, in modo che quegli studenti ti considerino, o pensino che sei più importante. Questo è un aspetto dell’insegnamento che non mi piace, perché mi piace essere me stesso. Ad esempio, in giugno parteciperò ad un grande workshop con Steve Kaufman, nel Tennessee. Figurati, 250 chitarristi nello stesso edificio. Sarà terribile! E terrò il mio personale workshop in agosto, nei monti della Slovenia, dove avrò gente di 9 o 10 nazionalità diverse che si riuniranno solo per trascorrere una settimana di flatpicking. Sarà pauroso.
Sempre per quanto riguarda l’insegnamento, nel 1995 ho fatto un video di istruzione per la Homespun Tapes. Sono molto contento di quello, ed è uno dei prodotti che vendo ai miei concerti. C’è un’incredibile quantità di informazioni che ho messo in questo video; circa un’ora e mezza di musica, spiegando le idee e insegnando come suonare questa musica nel modo migliore, e come inventare variazioni.
DK – Chi altro c’è nel video oltre a te?
BG – Ci sono solo io, ma sono accompagnato da Artie Traum alla chitarra ritmica. Questo video dà allo studente molte diverse direzioni in cui si può andare con il flatpicking. Ci sono idee su come suonare in accordature aperte, su come suonare in stile europeo, sul crosspicking, e così via.
DK – Come sai negli USA i video sono di solito in formato NTSC, ma esiste una versione PAL per l’Europa?
BG – Si, e, per l’Italia, attraverso Karish a Milano, il mio video è già in formato PAL.
DK – È importante da sapere per i tuoi lettori italiani. Un’altra domanda tecnica: pensi che i lettori di Country Store possano essere interessati a qualche informazione sui tuoi strumenti, pickup e microfoni?
BG – Be’ vediamo, se l’editore non taglia questa parte, forse gli piacerebbe sapere che faccio da testimonial alle chitarre Taylor e suono una Taylor 810. Questo perché mi piace in modo particolare il suo sustain naturale e la sua versatilità. È una chitarra che ti permette di andare in diverse direzioni musicali. È come se seguisse molto più facilmente la tua versatilità. Questa è la mia sensazione. Ha una tastiera moderna ed una potenza molto brillante sulle note più alte, specialmente sulla prima e seconda corda sopra il settimo tasto. Ci sono tante chitarre folk molto forti e sonore sui bassi, ma perdono gli alti.
DK – È molto largo il manico della Taylor?
BG – È appena un pelo più largo dello standard, ma appena un pelo. In passato ho avuto molte altre chitarre, e possiedo ancora una grande chitarra tedesca a 12 corde, ed una chitarra-arpa a dieci corde fatta da un liutaio italiano, una chitarra-bouzuki tedesca, ed una chitarra a 7 corde. Quanto al microfono, uso un Earthworks M a condensatore. È americano, e trovo che sia il migliore come presenza per quanto ho sperimentato.
DK – È omnidirezionale o unidirezionale?
BG – È omni, ma con una particolare forma di segnale. Per le situazioni più grandi, mi piace il sistema Fishman. Preferisco un pick Dunlop da 0.96 mm. e, per le corde, uso le tedesche Pirazzi.
DK – Ora vorrei tirare le conclusioni. Ossia vorrei rinfrescarti la memoria su alcune esperienze particolarmente interessanti che hai avuto suonando qui in America. Ne puoi raccontare qualcuna?
BG – Si, ci sono tante piccole storie che ricordo bene. Mi ricordo in modo particolare lo Stage 5. Lo Stage 5 è un palcoscenico speciale per esecutori non professionisti che sta nel mezzo dell’area al festival di Winfìeld nel Kansas. Là hanno i normali palcoscenici più importanti, ma hanno anche lo Stage 5 che è aperto a tutti, e sul quale chiunque si esibisce un po’ per tutta la notte. Ha uno speciale, non saprei come di dire, potere, perché quello va avanti fino alle due, tre, o cinque del mattino.
Quando gli spettacoli principali sono finiti, chiunque sia veramente interessato alla musica raggiunge questo posticino che ha questo incredibile potere. La gente va lì solo per amore della cosa, non perché sono pagati. E così mi hanno chiesto se volevo suonare qualche pezzo, il primo anno che sono andato a Winfìeld, ed ho suonato sullo Stage 5 con centinaia di persone davanti a me, perché tutti quelli che sono svegli al festival vanno lì. Ed ho avuto alcuni dei miei momenti di massima intensità nel suonare su questo piccolo palcoscenico per musicisti non professionisti. Perché la gente dice, non m’importa che tu sia professionista o no, vorrei solo venirti a trovare e sentirti suonare. Quello è stato un grande momento che ho sperimentato con il pubblico americano.
Un’altra volta è stato al grande spettacolo della IBMA. Mi invitarono per presentare alcuni musicisti, e per consegnare gli importanti premi per l’IBMA Music Award. Là avevano questo teatro zeppo di quattro o cinquemila persone, e si supponeva che io parlassi e basta. Così decisi di parlare in italiano e di parlare in tutte le lingue della gente straniera che suona bluegrass. Dissi una breve frase in molte lingue, per dimostrare l’universalità della nostra musica. Ci sono stati dei bei momenti con il pubblico americano.
DK – Bene, dopo un’esperienza così emozionante questa domanda potrebbe sembrare un po’ stupida, ma hai mai avuto qualche momento memorabile suonando nel New Jersey?
BG – Sì, ho suonato a Princeton, New Jersey, per diversi anni ormai, ed è bello vedere come il pubblico aumenta ogni volta. Nella nostra musica è così difficile far crescere il pubblico. Perché anche se te la cavi veramente bene, la gente a volte dice: ” L’ho già visto due anni fa, non so se andarci. Magari l’anno prossimo”, o qualcosa del genere. Ma nel New Jersey, sembra che io sia in grado di mantenere un crescita consistente. E non solo nella quantità di pubblico, ma anche nella loro attenzione alla mia musica. Per qualche motivo Princeton è uno dei posti dove ho avuto sempre più gente, e la gente mi dice che gli piace molto il mio modo di suonare. Spero di poter suonare presto un po’ del materiale di Serenata con Carlo Aonzo a Princeton. Ho anche qualche interessante spettacolo con Dan Crary, che sarebbe bello poter suonare là.
DK – Vorrei ringraziarti molto per aver diviso il tuo tempo e le tue impressioni per questa intervista. C’è altro che vorresti dire?
BG – Sì. sono molto felice che tu lavori con Country Store, perché sono così brave persone. Specialmente quel Maurizio, è un vero gentiluomo. È un vero amante dell’arte, e cerca di fare del suo meglio per questa.
DK – Grazie, gli passerò i tuoi saluti.
(Traduzione di Aldo Marchioni)
Aldo Marchioni, fonte Country Store n. 40, 1997