Back To The Roots. Newport Folk Festival

Oggi ci piace chiamarla ‘roots music’. Che volete farci, siamo tutti un po’ più snob e il vecchio monosillabo ‘folk’ (che tanta gloria ha raccolto nei favolosi Sixties) da qualche anno suona stonato, fuori moda. Eppure, a ben guardare, la sostanza non cambia. Perché quella musica pura, onesta, credibile che viene dalla ‘gente’ e che affonda le proprie ‘radici’ nella tradizione anglo-americana continua, ora come allora, a ispirare fior di musicisti.
Come Mark Knopfler che nel suo ultimo, elegantissimo lavoro Ragpicker’s Dream, dà libero sfogo alla sua immortale passione per il country & folk.
O come l’eccentrica Sinéad O’Connor, che tra matrimoni vari, ordini religiosi e fallimenti discografici, ha deciso di ripartire artisticamente proprio dall’inesauribile patrimonio musicale celtico. Patrimonio che Paddy Moloney e i suoi Chieftains da più di quarant’anni diffondono nel mondo, spesso mescolandolo con le culture più disparate. In particolare con quella nordamericana, bianca da sempre, diretta derivazione del folk anglo-scoto-irlandese.

Si chiama Down The Old Plank Road l’ultima avventura di Paddy, registrata a Nashville con i nomi di culto della Music City USA. Già, proprio là dove, 30 anni dopo l’edizione originaria del leggendario Will The Circle Be Unbroken, si sono ritrovati più o meno nello stesso periodo quelli della Nitty Gritty Dirt Band. Con un obiettivo preciso: dar vita al terzo volume della più importante saga discografica della storia del country & bluegrass.
A qualche settimana di distanza e qualche centinaia di miglia più a nord, nella sofisticata Newport e cioè nel medesimo posto in cui 37 anni prima era stato accusato di aver ‘tradito’ la tradizione e di aver ‘ucciso’ il folk, Bob Dylan è tornato sul luogo del delitto. Perché lui questo nuovo ‘profumo di folk’, come sempre molto prima di tutti, lo ha ‘annusato’ già da qualche anno…
Fort Adams State Park, Newport, Rhode Island. Sabato, 3 agosto 2002. Sono le 5 del pomeriggio. Sul palco principale del Newport Folk Festival sta per salire Bob Dylan. L’atmosfera è assolutamente particolare: tutti sanno che non si tratta soltanto dell’ennesimo concerto del Never Ending Tour. Proprio qui (esattamente 37 anni e 9 giorni prima, il 25 luglio del 1965) Dylan ha dato vita alla più famosa delle sue innumerevoli rivoluzioni artistiche. Davanti al pubblico selezionato del primo e più prestigioso folk festival del mondo, aveva infatti deciso di presentare le sue canzoni con gli arrangiamenti ‘elettrici’ sperimentati in Highway 61 Revisited, l’album che proprio in quei giorni stava registrando a New York. Ad aiutarlo c’erano Mike Bloomfield e altri musicisti (il batterista Sam Lay e il bassista Jerome Arnold) che come lui militavano nella Blues Band di Paul Butterfield. Con loro un amico di Bloomfield (il pianista Barry Goldberg) e soprattutto la rockstar nascente Al Kooper. Proprio il suono dell’organo Hammond B3 di Kooper era diventato il marchio caratteristico del nuovo corso dylaniano.

Di quella performance, da qualcuno etichettata come “il concerto che uccise il folk”, ci sono racconti e aneddoti discordanti. Se è vero che Pete Seeger, uno dei padri indiscussi del folk revival nordamericano, minacciò gli organizzatori urlando loro “o lo fate smettere, o salgo sul palco e gli taglio i cavi degli amplificatori!”, è anche vero che l’esibizione di Dylan provocò vivaci reazioni del pubblico. Ma non esattamente violente e cariche d’insulti come i giornali dell’epoca riportarono influenzando negativamente folkettari ‘duri e puri’ e altri ‘agitatori’ che diedero libero sfogo ai loro istinti più bassi nei successivi concerti di Dylan. Uno che c’era, Al Kooper, e che stava sul palco di Newport proprio insieme a Dylan ricorda che “…avevamo provato la notte prima in una di quelle enormi ville di Newport affacciate sull’oceano. Aprimmo dunque la nostra porzione di show con Maggie’s Farm e terminammo con una Like A Rolling Stone suonata in modo perfetto. Dylan scese dal palco e sembrava molto soddisfatto. Il pubblico urlava perché voleva altri pezzi. I resoconti della serata furono quasi tutti incentrati sui fischi ricevuti da Dylan e sul fatto che la gente lo costrinse a tornare sul palco per una versione acustica di It’s All Over Now Baby Blue. Un’immagine romantica, non c’è dubbio.
Ma le cose non andarono così. Alla fine del nostro set, Peter Yarrow (dì Peter, Paul & Mary, nda) abbracciò Dylan appena sceso dal palco. Entrambi avevano come manager Albert Grossman ed erano buoni amici. Il pubblico, nel frattempo, chiedeva rumorosamente il bis. Anche perché, di fatto, avevamo suonato soltanto un quarto d’ora! Credetemi, io ero proprio lì, di fianco ai due. ‘Hey’, disse Peter, ‘non puoi andartene così Bobby. La gente ti vuole: fai almeno un’altra canzone…’ ‘Ma questo è tutto quello che abbiamo provato’, replicò Dylan indicando la band. ‘Beh, allora torna sul palco con questa’ gli disse Yarrow porgendo la sua chitarra acustica a Bob. Ecco come andarono davvero le cose. La verità è che Dylan era il re di Newport e che la maggior parte del pubblico era lì per lui. Tutti gli altri suonavano set di 45 minuti e lui aveva fatto poco più di un quarto d’ora. Quelli furono i veri motivi delle proteste. Ecco perché il pubblico fischiava: voleva più pezzi di Bob.”

Eppure, la famosa ‘svolta elettrica’ di Dylan (apprezzata o disprezzata che fosse) rappresentò uno dei momenti chiave della storia del rock. Ma anche del folk. Che da quel momento, contaminandosi con il rock, risorse a nuova vita. Perché, proprio come indicava Dylan nel testo di It’s All Over Now Baby Blue quando cantava “you must leave now, take what you need you think will last” (Ora te ne devi andare, porta con te quello di cui hai bisogno e che pensi possa durare nel tempo) intendendo tutto fuorché il voler porre fine a qualcosa. Piuttosto, segnalava l’inizio di un nuovo ciclo. E infatti, anche nella musica, così è stato. Folk-rock e country-rock hanno contrassegnato gli anni ‘60 e ‘70, un nuovo revival del traditional i primi anni ‘80 mentre tutto il decennio dei ‘90 ha vissuto la sbornia dell’etno-world.
Il nuovo millennio si è aperto ancora con una riscoperta della ‘musica delle radici’. Dylan ha come sempre anticipato le tendenze. Ma con lui (o dopo di lui) molti songwriter vecchi e nuovi (da Bruce Springsteen a Ani Di Franco) hanno fatto un deciso ritorno alle matrici folk. Per non parlare di coloro che sono risorti a nuova vita artistica dopo essersi rivolti alle culture ‘altre’ (Peter Gabriel, Paul Simon, David Byrne, Robbie Robertson, Sting, ecc.) o di quelli come Mark Knopfler o Eric Clapton da sempre ammaliati dai suoni e dalle melodie della tradizione nordamericana. Il blues per Clapton, il country & folk per Knopfler: non a caso i due filoni dalla cui unione è nato il rock’n’roll.

Sono parecchi gli artisti che di questi tempi stanno riscoprendo il fascino degli strumenti acustici così come quello di melodie centenarie il cui ascolto trasporta immediatamente in epoche lontane. A enfatizzare queste suggestioni ci ha pensato ancora una volta il cinema che è nuovamente venuto in soccorso della musica. E così, come già successo negli anni ‘60 per Bonnie & Clyde prima e per Un Tranquillo Week-end Di Paura poi, il film dei fratelli Coen, O Brother, Where Art Thou?, ha di colpo fatto tornare la moda della musica old time & bluegrass.
Ma non è stata una semplice coincidenza. Da anni il folk e l’etnico vengono proposti con determinata passione nei festival di mezzo mondo. Che seguono gli illuminati esempi di autentici colossi del genere come il già citato Newport Folk Festival, il Philadelphia Folk Festival, il Kerrville Folk Festival o il New Orleans Jazz & Heritage, giusto per citare i più celebri negli USA, senza scordare i grandi festival canadesi (Winnipeg, Vancouver, Edmonton) o quelli altrettanto celebri della Gran Bretagna (Cambridge, Edinburgo) tutti, da più di quarantanni sulla breccia.
Chi ha avuto la fortuna di poter assistere almeno una volta a uno di questi eventi si sarà reso conto che lì la musica viene proposta e fruita in modo completo e significativo. Si crea una vera e propria interrelazione tra artista e pubblico, un cerchio comunicativo ed energetico assolutamente rigenerante.
E al di là di immagini evocative, nostalgie di mondi o culture perdute, fascino di suoni e ritmi rurali, la semplicità, l’integrità e l’estrema accessibilità di queste musiche sono alla fine il vero segreto del loro successo. E del loro inestinguibile appeal sulle nuove generazioni.

Ezio Guaitamacchi, fonte JAM n. 86, 2002

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