- Lo sviluppo socio-economico e l’industria culturale
2.1 L’industrializzazione e il boom economico
Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, superata l’impasse dovuta alle conseguenze della Guerra Civile e ad una politica interna protezionista, gli Stati Uniti conobbero un periodo di straordinaria crescita economica uscendo come protagonisti dalla Seconda Rivoluzione Industriale. Il primo fattore scatenante lo sviluppo fu in parte determinato dal fatto che nella società ottocentesca dominasse il pensiero positivista, il quale vedeva nella scienza e nella ratio, la soluzione a tutti i problemi del genere umano. La ricerca scientifica, legandosi con la tecnologia e la produzione industriale, seppe infatti dar vita in breve tempo a delle invenzioni che cambiarono radicalmente gli usi e costumi della società. La lampadina, il telefono, il cinema, il motore a scoppio, le automobili e la plastica, fecero la loro comparsa e trovarono velocemente applicazione nella vita quotidiana, portando non pochi benefici. Il secondo fattore che favorì gli Stati Uniti rispetto all’Inghilterra (la protagonista della Prima Rivoluzione Industriale), fu un’ incredibile ondata di immigrazione che raddoppiò la popolazione americana incrementando notevolmente la forza lavoro nella produzione e l’ampliamento dei centri urbani25.
Le innovazioni tecnologiche e scientifiche non giovarono solamente all’industria ma portarono miglioramenti anche al settore agrario statunitense, che al contrario di Germania e Inghilterra, conservò una grande popolazione rurale pronta a beneficiare dei progressi fatti nella chimica su pesticidi e fertilizzanti artificiali per migliorare e salvare i raccolti, o nel caso di macchine come il trattore, impiegate per aumentare l’efficienza lavorativa. La vasta espansione produttiva portò un generale aumento dei redditi che toccò anche gli operai, i contadini e gli impiegati, ed ebbe un clamoroso effetto sulla richiesta di beni, creando nuove abitudini di consumo e un grande mercato di prodotti. Lo stipendio di un lavoratore, oltre a coprire le spese destinate alla sussistenza, poteva essere impiegato anche in beni voluttuari (il cinema, gli strumenti musicali, il grammofono) o in beni di consumo durevole (la bicicletta, la macchina da cucire, l’automobile, gli attrezzi per il lavoro agricolo). Questi consumatori, capaci adesso di avere un potere d’acquisto, dettero il via alla nascita del mercato di massa, perché fino ad allora la possibilità di acquistare beni non di prima necessità fu appannaggio solo di poche persone abbienti26. Come conseguenza di questo grande mercato, venne organizzata una rete capillare di distribuzione che poteva portare i prodotti commerciali fino alle regioni più remote attraverso la vendita per corrispondenza o in negozi di vendita al dettaglio che ricevevano la merce da grossisti, dal piccolo country store al grande negozio cittadino27. Come già accennato, anche il diffondersi degli strumenti musicali aumentò in seguito allo sviluppo del mercato di massa; così le chitarre acustiche Martin & Co., Epiphone, i mandolini Gibson e i banjo Vega, cominciarono ad essere venduti per posta tramite i cataloghi di Roebruck o Ward & Sears, incrementando a dismisura il numero di musicisti e di conseguenza la possibilità di accrescere il proprio bagaglio culturale28.
Nell’America dei beni di consumo, fondata sull’ideale democratico, dove ognuno può coltivare l’aspirazione a diventare ‘qualcuno’; esisteva tuttavia un malumore tra gli operai che temevano di rimanere degli ‘schiavi salariati’, dove la mobilità sociale era destinata a rimanere soltanto un sogno. La situazione delle condizioni lavorative, la riduzione dei salari e il riconoscimento dei sindacati, mossero nell’ultimo trentennio dell’Ottocento numerosi operai, specialmente tra gli immigrati non aglosassoni, in violenti scioperi ma «Negli Stati Uniti non decollò allora né un forte movimento sindacale, né un partito operaio indipendente fondato su una coscienza e una politica di classe». 29
2.2 Tempi di guerra, depressione e new deal
Gli anni che precedettero la Prima Guerra Mondiale, furono per gli Stati Uniti un’epoca di riforme e di prosperità che coinvolse tutti i livelli del paese. Lo sviluppo industriale e le società quotate in borsa erano al loro apice, una nuova classe media poteva godere di un tenore di vita migliore e furono approvati provvedimenti in campo sociale; alcuni atti a tutelare il lavoro minorile e femminile, altri introducendo forme di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e l’istituzione uffici di collocamento statali30. Negli stessi anni, in Europa si aprì lo scenario bellico che porterà al conflitto mondiale e gli Stati Uniti, in un primo tempo neutrali, si ritrovarono coinvolti nel finanziamento della guerra a causa dei prestiti concessi a Inghilterra e Francia. Questa situazione, legata alla necessità di controllo sugli investimenti all’estero e scatenata da ripetuti attacchi sottomarini tedeschi contro dei convogli statunitensi, convinse gli americani ad entrare come parte attiva nella guerra, che nel 1917 diventò mondiale. Usciti come potenza vincitrice, gli Stati Uniti diventarono la prima potenza economica e il loro dollaro si impose su tutti i mercati.
Il benessere economico rimase in piedi per una decina d’anni fino a quando, il 29 ottobre del 1929 il crollo della borsa di Wall Street diede vita ad una crisi economica e finanziaria che si protrasse per i dieci anni successivi devastando il paese e ripercuotendosi sul resto del mondo. A generare la crisi fu una bolla speculativa dovuta al fatto che gli operatori di borsa non considerarono il reale rapporto che c’era tra i prodotti di mercato con quello delle vendite. In pratica il mercato era saturo di beni durevoli che non venivano più venduti, ma il valore delle azioni continuava ad essere molto alto e non rifletteva più la loro reale posizione sul mercato. Quando i prezzi dei titoli crollarono mostrando la loro reale valutazione, la conseguenza fu una rapida vendita che fece scendere drasticamente le quotazioni azionarie, scatenando una reazione a catena che colpì dapprima i risparmiatori — mandandoli in rovina — poi l’intera società, provocando un abbassamento dei consumi, della produzione e un inevitabile aumento della disoccupazione31. Nonostante gli sforzi del governo, la crisi non sembrava destinata a finire fino a quando non fu eletto presidente nel 1932 Franklin Delano Roosevelt (1882 – 1945).
Roosevelt promise un nuovo corso, un piano di ricrescita politica e sociale per il paese, un New Deal, dove il governo doveva assumersi la responsabilità nei confronti del benessere di tutti e dove il tema centrale era lo stato sociale, il welfare state. La brillante politica di Roosevelt affrontò la crisi con l’aumento della spesa statale a favore di lavori pubblici e di opere assistenziali che, contrariamente a quanto molti pensavano, non indebolì ulteriormente lo Stato ma dette occupazione e fece ripartire i consumi e l’economia. L’intervento dei governi di Roosevelt si mosse su più fronti: incentivi per la riorganizzazione dei territori, milioni di persone occupate nella costruzione di scuole, strade, ospedali e case popolari, un nuovo piano energetico per portare l’elettricità anche nelle aree rurali più isolate, un sistema nazionale di assegni di disoccupazione, di previdenza sociale e il riconoscimento di una maggiore forza alle organizzazioni sindacali. La politica Rooseveltiana non risolse tutti i problemi nazionali e dovette affrontare ancora delle ondate di disoccupazione e crisi; ciononostante seppe «..ridare speranza, tranquillizzare, dare almeno la sensazione che nessuno è lasciato del tutto solo, completamente in balia del suo destino».32
2.3 La nascita dell’industria culturale
2.3.1 L’era di Tin Pan Alley, il jazz e il blues
Con la crescita del consumo di massa si svilupparono anche nuovi mercati orientati verso l’intrattenimento e i prodotti culturali, dove gli imprenditori videro un terreno fertile per investire grossi capitali; la diffusione della radio, del fonografo, del cinema e degli spettacoli, diventarono parte integrante della vita quotidiana e aprirono anche molte possibilità di impiego. New York fu senza dubbio il centro economico e culturale americano, la più grande città, la sede della borsa e degli interessi finanziari, il porto di arrivo degli immigrati e il primo punto di contatto con il vecchio mondo; fu anche il luogo dove nacque l’industria culturale e dove dominò almeno fino agli anni ’50 del Novecento.
In una specifica zona metropolitana denominata Tin Pan Alley, si sviluppò una fitta rete di case editrici dove compositori, musicisti ed editori lavoravano per vendere le loro opere come dei prodotti in un’industria vera e propria. Gli introiti delle aziende venivano inizialmente dalla vendita degli spartiti musicali e dalle royalties sui pezzi, dopodiché, grazie alla diffusione del fonografo e delle stazioni radiofoniche, i brani ebbero un’esplosione di popolarità e le vendite di dischi toccarono delle cifre esorbitanti.
Contestualmente allo sviluppo dell’editoria musicale, la rete teatrale Broadway impose sulla scena il musical, un genere di rappresentazione che faceva ricorso alle canzoni e alla danza in chiave più contemporanea. A differenza delle produzioni teatrali tradizionali come l’operetta, il musical seppe portare in spettacolo e in musica le caratteristiche della società dell’epoca, ambientando le opere in contesti dove la comunità poteva riconoscersi e sapendo trovare la giusta miscela tra le componenti musicali nere e bianche che l’America stava giusto scoprendo, con quelle tradizionali della musica classica. Broadway lavorò fianco a fianco con l’editoria di Tin Pan Alley e consentì l’emergere di nuovi talentuosi compositori tra i quali George Gershwin (1898 – 1937), autore di opere come Rapsodia in blu (1924), Un americano a Parigi (1928), e Porgy and Bess (1935) e canzoni come Summertime, che diventeranno degli standard del songbook internazionale.
Per conoscere meglio il terreno da cui sorse l’industria musicale americana, occorre fare un breve passo indietro nel tempo e percorrere 1300 miglia a sud di New York. La città in questione è New Orleans, scalo portuale del Sud degli Stati Uniti e punto d’incontro di molte etnie, popolata da moltissimi musicisti più o meno preparati che suonavano il ragtime, il blues, il folk bianco e che si esibivano nelle marching bands lungo le strade cittadine: qui nacque il jazz33. Il fermento musicale era attivissimo e la sperimentazione all’ordine del giorno; venivano provati nuovi strumenti all’interno dei gruppi e assimilati fraseggi uditi magari dalla strada. Questa pratica quotidiana portò, soprattutto nell’ambiente afroamericano, a sviluppare diverse tecniche strumentali e ad elaborare un linguaggio musicale più sofisticato fondendo i punti di vista del blues (le blue note), del ragtime (l’andamento sincopato) e della musica africana (la poliritmia) in un’ensemble di ottoni, pianoforte, ance, contrabbasso e talvolta chitarra con un denominatore comune: l’improvvisazione. La caratteristica principale che differenziò il jazz dagli stili suoi contemporanei fu infatti non solo la tecnica applicata allo strumento ma soprattutto l’approccio esecutivo e concettuale; l’improvvisazione su un tema melodico era il cuore della musica stessa e quello che poteva fare la differenza tra un esecutore e un altro. La novità sonora e la dinamicità con cui questo genere sapeva adattarsi ad ogni tipo di composizione ed esecuzione, seppe dare vita ad un fenomeno che da New Orleans riuscì ad attecchire anche in altre parti del paese e acquistare popolarità anche tra gli esecutori e i compositori bianchi. Non a caso uno dei primi che seppe sfruttare il potenziale del genere non fu un afroamericano ma James ‘Nick’ La Rocca (1889 – 1961), un italoamericano di New Orleans che fondò la band Dixie Land Jazz Band, portando questa musica al di fuori dei confini della Louisiana e riscuotendo un discreto successo. Molti altri seguirono l’esempio di La Rocca e abbandonarono New Orleans spostando il centro jazzistico a Chicago e poi a New York, in cerca di una migliore condizione economica nelle città industrializzate34. La flessibilità congenita del jazz, fece la fortuna del genere perché seppe adattarsi a svariati contesti; dalla musica da ballo alla musica colta di Gershwin e Tin Pan Alley, non rimanendo chiuso dentro uno schema ma sempre soggetto ad una evoluzione sonora.
Nel precedente capitolo ho accennato al blues come genere tra i peculiari della musica popolare degli afro-americana, al fatto che fosse già noto nel periodo pre Tin Pan Alley ed avesse influenzato gli altri generi ‘neri’. Fu però durante il periodo di esplosione dell’industria musicale che anche il blues divenne centro di attenzione da parte dei discografici e del pubblico. Come successe per il jazz, il Nord America diventò la base per molti bluesman e il genere godette un grande successo commerciale. L’interesse dell’industria fece emergere le diverse facce che il blues aveva; non era un linguaggio stretto da regole come il ragtime, ma più uno stato d’animo. Le performance di artiste come Bessie Smith (1894 – 1937) e Ma Rainey (1886 – 1939), che cantavano il loro repertorio in teatri eleganti accompagnate da jazz band con fini arrangiamenti, erano stilisticamente lontane da quelle più folk di Blind Lemon Jefferson (1893 – 1929)35 o da quelle del capostipite del delta-blues Robert Johnson (1911 – 1938), intento a registrare le sue uniche ventinove tracce in una camera d’albergo in Texas. La cosa che li accomunava non era solo quella particolare successione di note sulla scala musicale ma il fatto di ‘avere il blues’, quella specie di malinconia atavica che i bluesman tentavano di esprimere proprio con la musica.
2.3.2 Il fenomeno country
Come i prodotti di consumo di massa riuscirono a raggiungere tutto il continente americano e a soddisfare i bisogni del banchiere di Boston fino al contadino di Dallas, così anche l’industria musicale fu attenta nel cercare delle peculiarità musicali adatte ad ogni classe di appartenenza, alla provenienza regionale e al colore della pelle.
Come avvenne per il blues e il jazz, i discografici andarono alla ricerca di nuovi prodotti da collocare sul mercato e li individuarono anche nella musica bianca delle aree rurali, specialmente nel Sud. Con il loro folk tradizionale, singoli esecutori, duetti e gruppi più grandi composti prevalentemente da musicisti non professionisti, e molto spesso senza un’istruzione musicale, furono ingaggiati e cominciarono ad avere una diffusione nazionale. Il repertorio era quello delle ballads, e l’esecuzione prettamente acustica. Era un genere che aveva già delle solide basi nella popolazione e veniva da una lunga tradizione orale; adesso con la diffusione dei fonografi e dei dischi, riuscì ad avere i propri divi e a consolidarsi come genere nazionale, tanto da essere identificato come country music. Tra gli interpreti del periodo, Vernon Dalhart (1883 – 1948), la Carter Family e Jimmie Rodgers (1897 – 1933) furono i più popolari e unirono alle canzoni della tradizione anche brani originali destinati a diventare nuovi classici. La radio ebbe un’importanza fondamentale perché essendo un bene più a buon mercato rispetto al fonografo e ai dischi, consentì una diffusione della musica in maniera più capillare: era presente quasi in ogni famiglia e poteva essere usata anche come mezzo di informazione.
Ne sfruttò a pieno le potenzialità anche il presidente Franklin Roosevelt che con le sue fireside chats, le ‘chiacchere al caminetto’, ebbe una grande popolarità entrando ogni settimana nelle case di tutta la Nazione con il suo amichevole messaggio36.
La radio perciò, fu il primo mezzo con cui l’industria musicale riuscì ad arrivare alla popolazione bianca rurale, a quella delle montagne e con il quale fece nascere il mercato della country music. A partire dal 1920 cominciarono a proliferare gli show radiofonici, che furono una vera e propria pista di lancio per tutti gli artisti del genere. Il programma di maggior successo, considerato un’istituzione culturale americana, fu il Grand Ole Opry; uno show che veniva trasmesso da Nashville, Tennessee, ogni settimana a partire dal 1925 e che tutt’oggi attivo, conserva il primato di essere il più antico programma radiofonico del genere. Entrare nel cast dello spettacolo diventò sinonimo di popolarità e di buona possibilità di successo economico. Lo show era abbastanza eterogeneo, aveva un cast che comprendeva molti musicisti e alternava le parti musicali con momenti di commedia e inserimenti pubblicitari. Ogni radio e ogni programma radiofonico infatti, aveva un forte legame con le sponsorizzazioni e spesso erano gli stessi artisti a fare gli spot, magari con una canzone espressamente composta per lo sponsor. Anche se sovente i musicisti non riuscivano ad ottenere una paga sufficiente per vivere con le sole apparizioni radiofoniche, queste furono vitali per promuovere la vendita dei dischi e per ottenere ingaggi in concerti; riuscirono insomma a creare un indotto tale da poter far nascere anche la figura del musicista country-folk professionista.
Lo slogan Home of American Music, rappresenta in pieno l’obiettivo stilistico che il Grand Ole Opry si è posto fin dal suo esordio; quello di costruire un appuntamento dove fosse rappresentato tutto lo spettro della musica americana, ma dove in apparenza era quella bianca a dominare. Il pregiudizio razziale e la segregazione infatti, hanno contraddistinto gli Stati Uniti e specialmente il Sud per buona parte del ventesimo secolo ma non hanno potuto impedire che culture diverse si contaminassero a vicenda, contribuendo alla nascita di idiomi e linguaggi condivisi.
2.3.3. Bill Monroe, il padre del Bluegrass
Gli anni successivi alla prima guerra mondiale, come abbiamo visto, ci offrono uno scenario nel quale l’industria musicale ha diffuso ampiamente i suoi prodotti e ogni giorno ne cerca di nuovi da imporre sul mercato. La musica è diventata una componente importante della vita della popolazione americana e molti sono in grado non solo di ascoltare gli show radiofonici, i dischi o assistere a esibizioni; ma anche di esercitarla quotidianamente in chiesa, in famiglia o nei ritrovi sociali. William Smith ‘Bill’ Monroe (1911 – 1996) è una figura chiave in questo scenario storico. Nato a Rosine, un piccolissimo villaggio rurale del Kentucky, cresce in una modesta famiglia contadina, dove la musica tradizionale è praticata in maniera abituale: la madre canta, suona la fisarmonica e il violino. In chiesa il piccolo Bill assimila il repertorio religioso degli inni, in casa fa pratica insieme ai fratelli e la base musicale è arricchita sopratutto dalla presenza dello zio violinista Pendleton Vandiver (1869 – 1932), da cui impara il linguaggio tradizionale anglo-celtico delle fiddle tunes37.
Nel 1950 Monroe descriverà benissimo l’atmosfera di quel periodo, delle impressioni, di cosa e come venisse suonato, nella canzone dedicata allo zio, ‘Uncle Pen’:
«Oh the people would come from far away, They’d dance all night till the break of day
When the caller hollered “do-se-do”, you knew Uncle Pen was ready to go
Late in the evening about sundown, high on the hill and above the town
Uncle Pen played the fiddle lord how it would ring,
You could hear it talk, you could hear it sing.
He played an old piece he called Soldier’s Joy, and the one called Boston Boy
The greatest of all was Jenny Lynn, to me that’s where the fiddle begins…» 38
Nella zona di Rosine, c’erano lavoratori neri occupati nelle ferrovie, impiegati nel settore agricolo o nelle miniere; tra i quali Arnold Shultz (1886 – 1931), un chitarrista e violinista con il quale il giovanissimo Bill Monroe strinse un rapporto di amicizia che gli consentì di assimilare il linguaggio del blues e di accumulare una notevole esperienza musicale accompagnando lo stesso Shultz o lo zio con la chitarra nelle square dance, le feste di paese39.
A soli 16 anni, in seguito alla morte del padre e alla grande depressione che aveva colpito il paese, Bill (che intanto aveva iniziato a suonare il mandolino), fu costretto con i fratelli Birch e Charlie a trasferirsi verso Nord in cerca di occupazione e si stabilì a Chicago lavorando come operaio in una raffineria e cercando nel tempo libero degli ingaggi musicali.
Nel 1934, dopo alcuni anni di lavoro come operai e un’intensa pratica da musicisti amatoriali di square dance, Bill e Charlie presero la decisione di tentare la carriera di musicisti professionisti e riuscirono ad ottenere un contratto discografico firmandosi come Monroe Brothers. Il brother duet, era un fenomeno musicale abbastanza in voga dagli anni ’20 ai ’40, dove coppie di fratelli suonavano un repertorio tradizionale folk e religioso accompagnandosi con chitarra e mandolino e distinguendosi soprattutto per il cantato sempre armonizzato. Quello dei Monroe Brothers però aveva delle caratteristiche diverse dal suono dei Delmore Brothers o dei Blue Sky Boys; l’esecuzione strumentale aveva una tecnica più solida e precisa e le armonie vocali più ricercate40. Grazie al loro stile, i Monroe Brothers ottennero una discreta fama partecipando a numerosi programmi radiofonici e cominciando ad incidere le loro tracce. Nel ’38 i fratelli Monroe sciolsero il gruppo e Bill decise di non continuare sulla strada del brother duet, ma di esplorare nuove sonorità con un gruppo più ampio, aggiungendo alla chitarra e al mandolino il contrabbasso e il violino. Il nome della band divenne: Bill Monroe & His Bluegrass Boys, in onore del Kentucky, lo Stato ‘dell’erba blu’, da dove Bill proveniva.
La svolta nella carriera di Monroe avvenne appena un anno dopo, nel ’39, quando dopo aver sostenuto un’audizione a Nashville, Tennessee, riuscì a firmare un contratto con il Grand Ole Opry, il top nell’industria musicale country, e a costruire una base per le fondamenta di un genere che ancora non era stato inventato: il bluegrass. (Continua)
25 Banti, L’età contemporanea. Dalle rivoluzioni cit. pp. 381-391
26 Banti, ibid. pp. 411-414
27 Arnaldo Testi, Il secolo degli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino 2008, p.22
28 Cohen, Folk Music, cit. p.11
29 Bergamini, Storia degli Stati Uniti, cit. p. 18
30 Testi, Il secolo, cit. p.80
31 Alberto Mario Banti, L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi, Laterza, Roma-Bari 2009 cit. pp.145-148
32 Banti, L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra, cit. p. 159.
33 Luraghi, La spada, cit. p.145
34 Ivi.
35 Cohen, Folk, Ibid. pp.34-35
36 Banti, L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra, cit. p.155-156
37 Richard D. Smith, Can’t you hear me callin’, Da capo press, Usa, 2000, pp. 15-16
38 Bill Monroe, Uncle Pen, 1950.
39 Smith, Can’t you hear me callin’, cit., pp.23-24
40 Ibid., p.36
Yari Spadoni, Tesi di Laurea, Università di Pisa, A.A. 2013-2014