Una esclusiva intervista californiana con quello che molti considerano il più rivoluzionario chitarrista acustico della storia. Tutto ciò che volevate sapere di Michael Hedges, e qualcosa in più.
San Francisco, lo scorso agosto.
La città della Baia è ancora oggi il luogo dove è possibile trovare artisti eccentrici, proposte creative inusuali, talenti da scoprire: un laboratorio in costante fermento anche se i tempi di Haight-Ashbury, il sound psichedelico, i figli dei fiori, le magie della musica californiana dei sixties e la controcultura alla Kerouac sono un ricordo piacevole ma inequivocabilmente passato.
Tra i figli adottivi di una zona così tormentata da calamità geologiche e non (terremoti, AIDS e, come se non bastasse, ultimamente pure grandi incendi) c’è anche questo ragazzotto che viene dall’Oklahoma, il cuore della middle-America, che ha portato una vera e propria rivoluzione nel mondo della chitarra acustica.
Michael Hedges è un tipo singolare. Scontroso, strano, imprevedibile, Michael non è personaggio che si lasci accostare con facilità. Nonostante gli oltre cinque anni di conoscenza questa è solo la seconda intervista che concede. “Ma non preoccuparti” mi dicono i suoi impresari “non c’è niente di personale, anzi. Sai com’è fatto Michael”.
Già, pare che il prodigioso Hedges abbia detto di no a MTV per uno special di un’ora, abbia rifiutato la corte di Crosby & Nash che lo volevano come supporter di un loro tour (e come comprimario al loro fianco) e si sia negato a tante testate prestigiose negli U.S.A.
Quando, dopo lunghe peripezie, mi giunge il fax di conferma della disponibilità di Michael ad incontrarmi, sono felicemente stupito. Sì, perché Hedges mi piace, non solo come musicista: trovo infatti il suo anticonformismo e i lati bizzarri del suo carattere decisamente intriganti. “Vai alla scuola di danza di Oak Street, Michael ti raggiungerà”.
O.K., lungo la Van Ness, prima di Market Street, tra i su e giù delle colline della città raggiungo il luogo dell’appuntamento. E’ una bella giornata, assolata ma fredda e ventosa, tipica dell’agosto della Baia. “L’inverno più freddo della mia vita è stata un’estate a San Francisco” diceva giustamente Mark Twain.
Michael mi appare con un’amica ballerina. Ha i capelli lunghi, un ampio cappello nero, degli aderentissimi panta-collant leopardati, stivaletti con borchie. Visto così assomiglia molto più al suo amico metallaro Steve Vai che a uno dei top-seller della Windham Hill, l’etichetta più morbida del West.
“Mangiamoci qualcosa” fa Michael “e poi andiamo nel mio van. L’hai visto il mio nuovo van? E’ fantastico, è meglio di una casa”. Dopo un veloce hamburger, provo l’esperienza di un colloquio ravvicinato con Hedges nel suo mitico van.
E’ vero, ha ragione lui. Il Mercedes van è una piccola casa, o meglio una piccola moschea considerando l’arredamento un po’ arabeggiante e gli incensi vari che bruciano all’interno di questo attrezzatissimo camper.
Michael mi dice “questa è la prima intervista in sei mesi. Speriamo venga bene”.
La mia più impellente curiosità riguarda il suo recente ‘trip’ per la danza.
“Quando ho composto il brano The Rootwitch per il mio album Taproot ho iniziato a immaginare che era adattissimo ad una figurazione visiva. Mi sono sempre mosso sul palco ma in modo puramente istintivo. Niente di preparato e soprattutto senza alcuna base di studio. A volte ho la sensazione che le cose mi capitino nel momento giusto; è da poco che ho iniziato ad usare un sistema di amplificazione con un’antenna, senza cavi. Questo mi dà molta più libertà di movimento e così è sembrato naturale aggiungere una coreografia. Ecco l’esigenza di studiare danza”.
Quando parla muove le dita come se stesse suonando la chitarra, una specie di deformazione professionale.
“Mi continuo ad esercitare moltissimo. Sempre. A volte senza chitarra. Il modo di sistemare il mio van, ad esempio, è per me un’esercitazione continua. Devo essere organizzato, avere una mente organizzata. Con una mente organizzata il mio modo di suonare diventa molto più semplice. Così come quando nel mio frigorifero non c’è nulla da mangiare o poche cose e io non so che cosa farci. Tento di usare le combinazioni dei vari cibi in modo da tirarne fuori un qualcosa di gustoso. E’ uno sforzo per essere creativi, è un’attitudine che mi risulta molto utile nel processo compositivo musicale”.
Sembra un po’ suonato quando mi racconta queste cose ma pensandoci su mi accorgo che tutto sommato ha ragione lui: la musica non è altro che una serie di note organizzate tra loro. Trovare nuove idee, nuove forme di organizzazione delle note, dei suoni è l’obiettivo di Hedges. “Non voglio riciclare idee già usate. Sono alla costante ricerca del nuovo. E’ un’avventura che mi fa vivere: amo così tanto la musica che non posso immaginare la mia vita senza il continuo stimolo di creare nuovi pezzi”.
E’ questa continua scommessa con se stesso che l’ha portato alla concezione di un album inusuale (ma straordinario) come Taproot.
“Avevo delle linee musicali in testa ma soprattutto avevo scritto una storia della mia vita e volevo renderla in musica. Ne ho fatto una fiaba sonora senza parole: ma la musica è sufficientemente evocativa da diventare un racconto. E’ un insieme di sentimenti, di atmosfere che rendono esattamente le situazioni che ho vissuto nel corso della mia vita.”
Un musicista così bravo, un virtuoso così acclamato non ha forse il timore di dover sempre e comunque stupire i suoi fans con acrobazie e trucchi ad effetto?
“E’ sufficiente non pensare che sei un chitarrista” mi dice Michael “io mi considero un musicista, un compositore e voglio continuare a scrivere cose che mi piacciono e che mi divertono indipendentemente da quello che la gente si aspetta da me. Sono fortunato: i miei fans continuano a seguirmi”.
Mi chiedo se questa ricerca del nuovo non abbia influenze esterne.
“Beh, certamente le ha. Magari io prendo un passaggio di chitarra da Richard Thompson, un’idea da Joni Mitchell, un’armonia da Crosby ma poi interiorizzo queste cose, le trasformo e le faccio diventare mie”.
Ecco qua smascherati alcuni degli idoli musicali di Hedges. “Adoro Joni Mitchell, che per me è una grandissima chitarrista oltre che artista impareggiabile, amo Neil Young, ammiro Bela Bartok. Mi piace Edgar Varese, Stravinsky e molti chitarristi jazz come Pat Metheny e Pat Martino. Nel rock sono interessato a Peter Gabriel, Todd Rungren. Mi piacerebbe fare qualcosa con Lyle Mays o con il mio amico Steve Vai. Ma recentemente sono interessato anche a diventare un produttore: sto lavorando all’album di un mio amico cantautore per il quale suono tutti gli strumenti”.
Non ha citato la collaborazione con David Crosby, forse perché era ovvia.
“David mi chiamò un giorno e ci trovammo. Lui conosceva la mia musica e così ho suonato nel suo album solo, in quello di CS&N e ho chiamato Crosby & Nash per un brano di Taproot. Abbiamo suonato insieme ad un benefit, io David e Graham ed è probabile che faremo ancora qualcosa insieme”.
Questa esperienza con due grandi cantautori ti darà ancora la chance di comporre canzoni come nell’album Watching My Life Goes By?
“Ti posso anticipare fin d’ora che il mio prossimo lavoro sarà un album di canzoni. Considero la mia voce un altro strumento da usare al meglio. Sai io mi considero un ‘one-man band’, voglio continuare ad esibirmi come solista”.
E’ mai successo che qualcuno pianificasse per te, mi riferisco al tuo manager o alla tua casa discografica, la tua carriera?
“Non è mai successo. Se fossi nel rock-business forse qualcosa cambierebbe, ma, ora come ora, amo fare quello che mi piace senza imposizioni o forzature. Sono piuttosto ambizioso e molto conscio delle mie potenzialità”.
La sua ambizione è soprattutto quella di non annoiarsi mai, di cambiare in continuazione, di stupire sempre e comunque se stesso e gli altri; mai, se possibile, a discapito del valore che ritiene il più importante: la libertà.
“Se un incremento di popolarità portasse a una diminuzione della mia libertà personale non so se sarei felice. E’ bello piacere alla gente ma è più bello piacere a se stessi ed essere felici. Conosco molte star della musica che piacciono moltissimo a milioni di persone ma poi finiscono per non piacere a loro stessi. E’ come essere racchiusi in una gabbia dorata”.
La natura è una grande fonte di ispirazione per la musica e l’arte di Michael.
“L’altro giorno ero con un mio amico vicino al fiume e ho visto un branco di pesci nuotare ed unirsi ad un altro branco. Questa confluenza mi ha dato l’idea di un pezzo dove gruppi di note si incrociano e si mescolano con altri gruppi di note. A volte dalle cose più semplici, e la natura ti offre mille occasioni al giorno, nascono le migliori idee per creare musica. E non solo. A me piace molto dipingere, danzare, modificare vecchi abiti: ogni attività insomma che possa stimolare la mia creatività”.
Guardando la custodia di una sua bella Martin (quella con cui Michael usa viaggiare) ritorna il discorso sulla chitarra acustica.
“Mi piace molto Leo Kottke. Ha un grande senso del ritmo. Ma ammiro anche il tocco di Alex De Grassi e Pierre Bensusan. E apprezzo molto il suono della chitarra di John Martyn. Il mio suono è molto particolare, potente. E’ stata una necessità. All’inizio suonavo in piccoli bar molto rumorosi e quindi avevo bisogno di uno strumento che si facesse sentire. Le chitarre di Crosby, Stills, Nash & Young il loro suono potente e pulito certamente mi sono servite come modello. Ho montato originalmente sulle mie chitarre il loro sistema di amplificazione che con il tempo ho modificato e modellato sulle mie esigenze. Anche sull’uso delle accordature devo molto a David Crosby e a Joni Mitchell.”
E così facendo Michael tira fuori la sua chitarra e mi suona un nuovo pezzo con una accordatura davvero strana. Non è più tempo di parole, la comunicazione di Hedges ritorna alla sua forma migliore e più efficace: quella musicale.
Ezio Guaitamacchi, fonte Hi, Folks! n. 50, 1991