Dino Barbè, banjo – Dario Caremoli, mandolino, voce tenor e lead – Pino Perri, dobro, voce baritone e lead – Angelo Vimercati, chitarra, voce lead e baritone – Francesco Cecchetti, basso elettrico e voce basso.
Questi cinque ragazzi rappresentano, insieme a poche altre formazioni, la prima generazione del bluegrass italiano. Se vogliamo essere precisi, con i genovesi Red Wine, i Bluegrass Staff sono il gruppo che detiene il record di longevità, infatti il nucleo storico del gruppo milanese ha cominciato a lavorare alla fine degli anni ‘70. Non sono stati i primi, se questo può essere importante, ma tra i migliori nel superare le mille difficoltà che quindici anni di attività possono riservare, attraversando mode e tendenze, rimanendo sempre se stessi, perseguendo un unico obbiettivo: divertire e divertirsi, proponendo un bluegrass moderno e sempre attuale. Dall’intervista che segue appare chiaro che il piccolo grande segreto è tutto lì, nel voler vivere una passione senza stress, coscienti del fatto che, metaforicamente parlando, l’America è lontana, e che termini come ‘copy band’ non siano affatto degli insulti, che una tournée negli USA può non essere nei piani di un gruppo, anche ‘importante’ come il loro, che, insomma, si riesce a crescere, fino a riuscire a proporre un prodotto assolutamente professionale vivendo la cosa con serenità e senza particolari affanni.
Nelle loro file sono passati Massimo Gatti, Alberto Cesana, Claudio Maderna, Tino Russo, Piero Meroni, Andrea Tognoli e Gianni Superti. Hanno suonato in ogni locale di Milano e provincia, in rassegne di ogni tipo, in importanti festival come quello di Pescara, di Forlinpopoli, di Melide, di Basilea, oltre al primo Picking di Torino, al Munchwilen Country Festival, al Bluegrass Family Festival, rassegne di bluegrass e old time alla mitica Corte dei Miracoli di Milano, alle quattro edizioni della mai dimenticata ‘Convention’, in trasmissioni radiofoniche, e anche per RAI 2 in ‘Quelli Della Notte’ di Arbore.
Country Store – Quali sono i gusti personali dei vari componenti dei Bluegrass Staff?
Pino Perri – Dino è indubbiamente indirizzato verso il tradizionale, lo è sempre stato e ancora lo è. Per quanto mi riguarda, ho avuto sin dall’inizio un particolare interesse per il BG progressivo; certo dopo aver suonato decine e decine di classici del BG tradizionale qualcosa mi è rimasto, ma è sicuramente il progressivo a darmi maggiori emozioni. Dario, come Francesco, è il meno rigido, non seleziona a priori, se il pezzo è buono, se la musica è buona, non si ferma davanti alle etichette. Angelo, infine, ha un debole per il gospel, e quindi per il lato vocale del BG.
CS – In quale maniera vengono proposti i nuovi pezzi da inserire nel repertorio?
PP – Generalmente un nuovo brano viene proposto agli altri attraverso la solita cassetta, ma spesso capita che per questo ci si incontri apposta.
CS – Vuoi dire che fate delle ‘sedute d’ascolto’?
PP – Alcune volte sì, quando gli impegni personali ce lo consentono. I pezzi non adatti al nostro sound vengono quasi sempre bocciati al primo ascolto. Ormai dopo tutti questi anni abbiamo un suono ben definito, e sappiamo subito cosa può funzionare e cosa invece no. E, soprattutto, cosa può funzionare e in che situazione. Se ci mettiamo a contare i brani che fanno parte del nostro repertorio superiamo certamente i cinquanta pezzi, quindi abbiamo possibilità di adattare la scaletta in funzione delle diverse esigenze: se suoniamo ad un festival di BG presentiamo qualcosa che possa soddisfare quel tipo di pubblico, se suoniamo in un locale, quindi di fronte a persone che potrebbero non avere mai ascoltato niente di simile, allora proponiamo brani più conosciuti, come Don’t Cross The River, Don’t Think Twice, Bye Bye Love o Hello Mary Lou.
Nei locali se esegui solo BG tradizionale rischi di annoiare il pubblico e di suonare per gente che non ti presta attenzione, e l’attenzione va conquistata.
Ci è successo però di suonare in situazioni molto particolari come in una chiesa, e lì abbiamo eseguito gospel, sia accompagnato da strumentazione che a cappella.
CS – Quali sono i limiti del vostro gruppo?
PP – Mah, sai, siamo tutti sui quaranta, a parte Dino che ormai… Beh, scherzi a parte, credo che i nostri limiti siano dovuti proprio dagli impegni che questa età impone, volenti o nolenti. Dieci, quindici anni fa l’entusiasmo era maggiore, avevamo più tempo da dedicare allo studio. Certo la passione è ancora forte, e credo che sia questa forza a farci andare avanti…
CS – Con quale frequenza inserite pezzi nuovi?
PP – Se vogliamo quantificare, ritengo che in un anno indicativamente entrano una decina di nuove canzoni in scaletta… I pezzi ‘forti’ però rimangono in repertorio molto a lungo.
CS – Come strutturate le prove?
PP – Una volta deciso di inserire un nuovo pezzo cerchiamo di individuare quale delle tre possibili voci lead è la più adatta e può renderlo meglio, quindi si decide la tonalità, se è il caso di modificare la versione originale addolcendola o forzandola un po’, si abbozzano i primi accordi, lo si mette insieme e poi, prova dopo prova, ascoltando con attenzione il nastro della registrazione, lo ripetiamo fino a ‘viverlo’ completamente. Quando lavoriamo a nuove canzoni evitiamo di provarne più di due, al massimo tre a serata, ma il terzo è soltanto una imbastitura che verrà ripresa con serietà la volta successiva. Invece in prossimità di un concerto rispolveriamo tutto il repertorio per intero.
CS – Avete mai vissuto periodi di crisi, tanto da mettere in pericolo il futuro del gruppo?
PP – Sì, ci sono state…
CS -… Anche con quest’ultima formazione?…
PP – Beh, ognuno di noi è fatto alla sua maniera, anche se ci facciamo delle grandi risate quando si gira… però è capitato che qualcuno pretendesse maggiore impegno e dedizione da qualcun altro… ma, sai, dopo tutto questo tempo non basta dire “non mi fai bene l’assolo di chitarra, o il giro di basso”, no…
CS – Quindi potete ritenervi dei buoni amici..
PP – Cerchiamo di essere schietti e sinceri, ci sforziamo di dirci le cose come stanno in modo da non creare situazioni poco chiare… insomma, mi pare che certe cose sia bene dirsele, in fondo è per il bene del gruppo, quindi accettare le critiche, quando sono costruttive, mi pare doveroso per chiunque.
CS – Come mai dopo tanti anni non siete ancora giunti a finalizzare il vostro lavoro in un prodotto discografico?
PP – Credo per una questione di disponibilità. Incidere un disco è una cosa seria, che richiede molta energia e tempo, finora non abbiamo avuto questa possibilità, o non l’abbiamo cercata… Però ne abbiamo parlato attualmente quindi non è da escludere che presto non si registri un nastro.
CS – Evitando affrettate anticipazioni, come lo vedi questo prodotto? Intendo, visto che nessuno di voi scrive, che tipo di canzoni ci farete ascoltare?
PP – Credo che sarà una raccolta di cover, i soli due o tre brani originali che abbiamo li ho scritti io, ma non sono granché bluegrass… No, credo che, oltre a incidere uno-due classici, finiremo per riarrangiare canzoni rock o pop in stile bluegrass, cosa che già facciamo, ad esempio Don’t Think Twice It’s Alright è un nostro arrangiamento.
CS – …mi stai dicendo che la vostra versione bluegrass di questo pezzo di Dylan è precedente a quella dei Rice Brothers?
PP – Si, si, noi la eseguiamo dal 1987, dopo averla sentita da Steve Young che l’ha incisa dal vivo parecchi anni fa. I Rice Brothers l’hanno incisa dopo.
CS- …nel 1989
PP – ..infatti. Anche se dopo averla ascoltata dai Rice Brothers, vabbè
CS – Avete mai pensato di organizzarvi un piccolo tour negli Stati Uniti?
PP – Noo… Non so come immaginare questa cosa
CS – Prova ad immaginario ora. Che tipo di pezzi potrebbero suonare i Bluegrass Staff in una simile circostanza?
PP – Credo che finiremmo per lavorare sul repertorio che abbiamo sempre proposto nei locali, evitando ì classici più classici che gli americani hanno già ascoltato in tutte le salse. Per esempio, a Stetten durante il Bluegrass Family Festival siamo stati il gruppo più applaudito perché eravamo gli unici a discostarci dal solito BG tradizionale di Flatt & Scruggs e Bill Monroe. Ma questo non fa parte dei nostri progetti, anzi, ti dirò che lo stesso nastro credo che non sarà altro che un punto concreto d’arrivo, dal quale poi magari ripartire, dopo tutti questi anni di esibizioni e lavoro, nient’altro.
CS – Quello che vorrei riuscire a capire è quanto sono ambiziosi i Bluegrass Staff, quale è la vera meta di questi cinque musicisti.
PP – Non c’è molta ambizione, suoniamo quei pezzi senza troppo chiederci perché li suoniamo, ci piacciono, tutto qui. Evitiamo di inquadrarci come ‘professionisti’, il nostro approccio alla musica è di puro divertimento. Evitiamo di pensare a quale reazione potrebbe avere Bluegrass Unlimited recensendo un nostro nastro, che sarebbe fatto di pezzi che a loro automaticamente richiamano versioni più famose di musicisti più famosi. Non importa, li registreremo perché ci piace l’idea di registrarli e perché crediamo che potremmo fare di quelle canzoni una cosa accettabile e piacevole.
CS – Nel BG italiano, secondo te, c’è solo imitazione degli americani, o credi vi sia anche creatività, originalità?
PP – In Italia meglio riesci a riproporre il suono BG americano e più sei apprezzato. Il bluegrass è quello, uscire da quella ‘gabbia’, stilisticamente parlando, è quasi impossibile. Pensare di adattare il BG a una realtà italiana è assurdo, pensare di sentirlo cantare in italiano è ridicolo. Il BG è quello che ascoltiamo dai dischi americani.
CS – Lo show, lo spettacolo, dal punto di vista dell’intrattenimento tra un brano e l’altro, è sempre spontaneo o preparate delle battute?
PP – No, è sempre spontaneo. Diciamo che c’è una traccia ma…
CS – …per scelta o per pigrizia?
PP – Direi per pigrizia. La serata in cui non sono in vena di battute divertenti ripiego per una presentazione ‘didattica’ dei brani. Funziona ugualmente.
CS – Cosa fate per promuovere il vostro gruppo?
PP – Abbiamo demo tapes registrati principalmente ai concerti… Ma anche qui credo che non facciamo abbastanza, ancora per pigrizia
CS – Che qualche elemento della band abbia un’attività con altri gruppi è stato accettato da tutti?
PP – Beh, sì. L’importante che per ognuno di noi siano i Bluegrass Staff il principale gruppo. Se si riesce a far convivere due cose, perché no.
CS – Cosa pensate delle altre formazioni italiane?
PP – I Red Wine ci piacciono molto, sono molto bravi, probabilmente grazie alla loro esperienza diretta negli USA. Hanno potuto vedere e suonare direttamente con gli americani e non c’è migliore scuola. Per noi l’unico punto di riferimento sono stati i dischi. Anche i New Country Kitchen di Roma mi piacciono…
CS – Come vedi il futuro del BG in Italia?
PP – Dopo il boom degli anni ‘70-’80 e il successivo calo di interesse, credo che viva una situazione stazionaria, con il suo piccolo pubblico…
CS – Credi che potrà mai svilupparsi?
PP – Sì, sono ottimista. Dopo tanto heavy metal e tecno music è possibile che la gente torni a sentire l’esigenza di un rapporto più ‘naturale’ con la musica. La musica acustica è quanto di più naturale ci possa essere, e mi pare che in questo senso si possa prevedere una voglia di ‘pulizia’, di riavvicinamento alla ‘terra’ al ‘legno’… non so se mi spiego… Un sintomo di ciò mi pare sia stata la New Age Music, ma quella si rivolge ad un pubblico in cerca di ‘spiritualità’, se mi si consente, il BG potrebbe rappresentare con altri generi acustici un lato più divertente e schietto di tutto questo
CS – …e la BMAI?
PP – La nostra Associazione ha un ruolo importante in questo senso. Può fare moltissimo e io credo fortemente in questa associazione… ma ho paura che non tutti, alcuni suoi ‘dirigenti’ compresi, siano coscienti di quanto la BMAI possa essere utile per lo sviluppo in Italia di questa musica…
Maurizio Faulisi, fonte Country Store n. 19, 1993