Forse definirla già una ‘spina nel fianco’ delle varie Rebel, Rounder, Sugar Hill o Pinecastle é un pò presto, ma la qualità espressa dalle prime produzioni della Doobie Shea Records é tale da indurre le affermate etichette di cui sopra a ritenerla una possibile seria concorrente futura nel ristretto mercato bluegrass.
I costi dl produzione discografica negli ultimi anni si sono ridotti sensibilmente, questa la ragione per cui oggi si può contare un numero molto alto, mai come in passato, di etichette indipendenti, e sempre questa é la ragione per cui gli artisti con una buona attività live che non riescono a conquistarsi un vero contratto con una casa discografica ormai, senza grossi sacrifici, non ci pensano due volte ad autoprodursi un paio di migliaia di copie del loro dischetto per venderlo direttamente al pubblico durante le loro esibizioni dal vivo.
Il problema principale, e spesso il più impegnativo anche dal punto di vista economico, é relativo alla promozione e distribuzione piuttosto che alla produzione. Riuscire ad instaurare un rapporto con le case distributrici non é cosa semplice, proprio a causa del limitato business di questa musica: perché mai un distributore dovrebbe farsi carico di far girare anche i dischi della Doobie Shea quando già quelli della Sugar Hill o Rounder vendono un numero dì copie così poco significativo? Ecco quindi perché, anche in Italia (particolarmente in Italia), escluse queste due ultime label, di materiale bluegrass ne arriva pochissimo. E non si può nemmeno biasimare i distributori, visto che rappresentare una casa discografica, cioè distribuirne i prodotti, vuol dire ricevere tutte le sue produzioni (il numero delle copie é sempre proporzionale alle potenzialità di vendita dell’artista) ma senza il beneficio della ‘resa’, come ad esempio per le edicole (quello che non vendono io rendono alla casa editrice/distributore).
Detto questo, compresa cioè la ragione per cui la Doobie Shea e le molte altre etichette bluegrass minori non arrivano da noi (almeno fino a quando diverranno veramente concorrenziali rispetto alle altre) andiamo a parlare del catalogo della piccola casa di Tim Austin.
Si, é lui l’artefice, l’ideatore e il motore della Doobie Shea Records di Boones Mill, Virginia, il piccolo Tim Austin che molti anni addietro ha fondato uno dei gruppi bluegrass più acclamati d’America, la Lonesome River Band.
Per questa formazione ha suonato la chitarra e definito il sound, ancora oggi marchio di fabbrica del gruppo, un sound che si riscontra in molti dischi di altri artisti che riportano il suo nome in qualità di ‘producer’ o ‘sound engineer’. Tim Austin durante i suoi ultimi anni con la LRB ha parallelamente condotto queste attività, avvalendosi del suo personale studio dl incisione (i Doobie Shea Studios per l’appunto), fino a rendersi conto che i risultati erano tali da essere sempre più richiesto per questi ruoli. Ha scelto di lasciare la strada per una professione che gli permette di rimanere impegnato full-time in ambito bluegrass, ma anche vicino alla propria famiglia.
La Doobie Shea Records, Inc. é stata ufficialmente fondata nell’estate del 1996, e il primo disco, un tributo agli Stanley Brothers, é stato stampato nell’autunno dello stesso anno. Nei tre anni successivi ha pubblicato una decina di dischi, alcuni dei quali sono stati ritenuti tra i migliori dell’anno in cui sono usciti. Dell’intero catalogo mi mancano purtroppo Christmas At Doobie Shea del Tony Williamson Trio, Let Us Cross The River, sempre di Williamson e l’omonimo di Scottie Sparks. Posso però parlarvi degli altri sei, e mi accingo a farlo.
Artisti Vari – The Stanley Tradition – Tribute To A Bluegrass Legacy (DS CD 1001)
Come dice il sottotitolo, è un tributo ai fratelli Stanley e al loro sound portato avanti dal solo Ralph dopo la morte di Carter avvenuta nel 1966. Una tradizione stilistica alla quale, particolarmente negli ultimi anni, viene riconosciuta grande importanza dall’intera comunità bluegrass e anche country. Innumerevoli sono, infatti, le pubblicazioni di materiale inedito, non sempre di alta qualità dal punto di vista della registrazione, riemerso inaspettatamente dal passato remoto e stampato da parte di etichette come la Rebel o la Copper Creek Records. E pensiamo anche ai dischi registrati da Ralph in compagnia dl famosissime star della country music di Nashville o di personaggi famosi come Bob Dylan (!), collaborazioni che non si limitano alle incisioni discografiche, come testimonia un suo video dove possiamo goderci l’anziano banjoista della Virginia cantare In coppia con Dwight Yoakam. Credo però che, tra tutti i ‘tribut album’, quelli meglio riusciti siano proprio i primi due dischi della Doobie Shea Records, voluti da Tim Austin e registrati da artisti, diciamo della terza generazione bluegrass, che definire soltanto bravi è quasi far loro un torto. Personalmente, ritengo che gli unici aspetti discutibili dell’album siano, 1) la sua breve durata, trentuno minuti per un totale dl undici canzoni e, 2) l’alta concentrazione di brani in tre-quarti, ma questa è, di fatto, una caratteristica costante del repertorio degli Stanley. Il resto è perfetto.
Si parte con una Bootleg John da capogiro, potente e veloce, il CD non poteva avere migliore inizio. Don Rigsby (lead vocal) è magnifico, gli altri sono Tim Austin (chitarra ritmica) Dan Tyminski (mandolino), Craig Smith (banjo), Barry Bales (contrabbasso), Aubrey Haynie (fiddle) e Wyatt Rice (chitarra solista). Sentitevi pure in colpa con voi stessi se almeno una buona metà di questi nomi non vi dice niente, perché questi giovanotti stanno scrivendo le più belle pagine del bluegrass contemporaneo.
Si prosegue con I’m Better Off Now That You’re Gone scritta a quattro mani da Carter e Ralph Stanley, alla voce vediamo il buon Scottie Sparks degli Unlimited Tradition, insieme ai musicisti sopraccitati con l’aggiunta del chitarrista James Alan Shelton, componente dei Clinch Mountain Boys di Ralph Stanley da molti anni ormai. Si tratta del primo tre-quarti della collezione. Con This Weary Heart You Stole Away si torna a ritmi più sostenuti, la banda è sempre la stessa, ma compare Ronnie Bowman in qualità di baritone vocalist mentre al lead Dan Tyminski (che al momento della stesura di questo articolo scopro essere titolare dell’ultimo prodotto della Doobie Shea Records, il suo debutto discografico, finalmente!).
Altro 3/4 col classico Home In The Mountains, eseguito questa volta dalla voce di Charlie Sizemore, uno dei cantanti bluegrass preferiti dal sottoscritto, per parecchio tempo nella band di ‘Doctor’ Ralph Stanley. Loving You Too Well (altro 3/4!) è affidata a David Parmley, mentre la sostenuta Gonna Paint The Town ci consegna il solito bravissimo James King, uno che ha fatto proprio lo stile vocale lonesome di Carter Stanley. L’ascolto del disco prosegue più o meno senza sorprese, l’impostazione è questa, brani veloci alternati a canzoni a tempo di valzer. Nella seconda metà del CD alla voce lead si ascoltano anche Ernie Thacker e Ronnie Bowman.
Come dicevo In apertura, sette brani in tre-quarti su un totale di undici forse sono troppi, forse è soggettivo, certo è che, però, trentuno minuti e mezzo non possono non sembrare pochi, checché ne dicano quelli che sostengono che la musica non può essere pesata con questa bilancia, e che i negozi di dischi sono pieni dl schifezze interminabili.
E’ tuttavia un disco importante (una nomination ai Grammy!), suonato e cantato magistralmente, che ci ripropone in chiave moderna parte del patrimonio musicale di Ralph e Carter Stanley, un capitolo di vera, genuina american music.
Artisti Vari – The Stanley Gospel Tradition – Songs About Our Savior (DS CD 3001)
Se dal pulito di vista della durata, nonostante i brani questa volta siano ben tredici, le cose non sono sostanzialmente migliorate (trentadue minuti e mezzo soltanto: un solo povero minuto in più), la varietà dei ritmi di questo album gospel è tale da farcelo godere dalla prima all’ultima nota suonata e cantata, dall’iniziale Take The Shoes 0ff Moses alla conclusiva Purple Robe. La banda è ovviamente la stessa del primo prodotto Doobie Shea, con qualche piccola variante.
Questo CD è davvero bellissimo, direi fondamentale se amate il genere gospel. Particolarmente riuscite, per quanto difficile risulti una selezione, sono le veloci Take Your Shoes Off Moses (Tyminski, lead), Traveling The Highway Home (Thacker, lead), My Lord’s Going To Set Me Free (al lead Junior Sisk, nei cori il quartetto è completato da Don Rigsbv, tenor, Dan Tyminski, baritono e Dale Perry, basso… e che basso!), la nota Paul And Silas (Ronnie Bowman, lead), Will He Wait A Little Longer (James King, lead), l Am The Man Thomas (Scottie Sparks, lead). E qui mi rendo conto di non aver compiuto alcuna selezione, le ho semplicemente elencate tutte!
Tutte le canzoni up-tempo hanno il diritto di essere menzionate, tutte, dico tutte, sono bellissime. Ma per evitare di essere accomunato a coloro che sostengono che la bellezza del bluegrass sta principalmente nei pezzi veloci, vi confido che il mio brano preferito dell’album è la toccante Harbor 0f Love, l’unico 3/4 presente. Sarà per la presenza di Charlie Sizemore, l’incredibile basso di Dale Perry (non credo ve ne siano di migliori in circolazione) o il bel cross-picking d’apertura di James Alan Shelton, fatto è che Harbor Of Love riesce a sollevarmi da terra (e visto il peso…). Mi rendo conto che i due dischi debbano ‘viaggiare’ insieme, eppure tra il primo tributo agli Stanley Brothers e questo, forse consiglierei Songs About Our Savior. Mentre…
Artisti Vari – Living On The Hallelujah Side – A Gospel Instrumental Collection (DS CD 3002)
Lo lascerei da parte, perché non credo possa soddisfare le aspettative degli appassionati italiani del genere bluegrass. Si tratta di una raccolta di strumentali volutamente suonati rispettando fedelmente la linea melodica degli inni proposti. E fin qui poco male, anzi. Il punto è che i (soliti) musicisti, ripeto ‘volutamente’, da queste linee melodiche non si scostano di un centimetro. Da un disco del genere nessuno si attende hot-licks, chiaro, ma giusto qualche variante, un pizzico di originalità, di arrangiamento… Macché. Tutto molto ovvio: il disco è registrato da musicisti del Sud per la gente del Sud che, particolarmente negli ultimi decenni, ha diffusamente riscoperto la fede e la applica nel quotidiano in maniera fondamentalista.
Questa è l’unica possibile spiegazione alla generalizzata tendenza del musicisti dl ringraziare il Signore, attraverso le note di copertina dei loro dischi, per il talento che gli ha donato e cose di questo tipo. La musica di questo disco altro non è che una base sonora adatta a chi, oltre a cantarli alla domenica mattina nella vicina chiesa, ama eseguire gli inni religiosi all’interno delle proprie mura domestiche. Ecco cosa intendo quando affermo che Living On The Hallelujah Side – A Gospel Instrumental Collection non è un prodotto adatto al pubblico italiano: tradizioni, cultura, e probabilmente un rapporto diverso con la fede (chi l’ha) non ci permettono di apprezzare musica registrata con scopi di questo tipo. Andiamo avanti.
Unlimited Tradition – She’s Gone (DS CD 4001)
E’ un nome relativamente nuovo. La formazione è nata nel 1993 nel Kentucky, il fondatore della band è Ray Craft, chitarrista e cantante, già con Dale Evans, Emma Smith e i giovani Redwing. Gli altri componenti sono John Lewis, banjo, in passato al servizio dei buoni Lost & Found, Gary Brewer & The Kentucky Ramblers e della Timmy Cline Band. A quattordici anni formò una band con gli amici Don Rigsby e John Whitley, nipote del famoso Keith. Shayne Bartley è mandolinista e anche lui, come John Lewis, è stato membro dei Lost & Found, Kentucky Ramblers oltre che della Charlie Sizemore Band. Scottie Sparks, altro chitarrista e cantante, lo si può ascoltare nell’omonimo CD della Doobie Shea Records, è vecchio amico degli altri componenti avendo anch’egli fatto parte del Redwing e del gruppo di Dale Evans. Infine, Jason Hale al contrabbasso, il più giovane, soltanto diciotto anni.
Il debutto discografico degli Unlimited Tradition risale al 1994. Lost In Time il titolo, e venne giudicato highlight (qualcosa come fondamentale) dalla rivista americana Bluegrass Unlimited. “She’s Gone è una pietra miliare” (parole del famoso DJ Wayne Rice di San Diego CA, che ha scritto le note) per un palo di buone ragioni, la prima è che è il primo prodotto Doobie Shea di una ‘touring band’, la seconda è perché è stato registrato due volte, a causa dl quel maledetto incendio che ha devastato l’intero edificio dell’etichetta (leggi studi, uffici, magazzino e tutto il resto) un anno dopo soltanto la sua comparsa. Quando si dice sfiga. Pensavo si trattasse di uno dei tanti dischi di ‘contemporary bluegrass’ che da qualche anno a questa parte vengono prodotti con lo stampino, tutti molto simili, belli e grintosi, ben suonati e cantati ma troppo spesso privi di ‘soul’, se non addirittura freddi e asettici.
Dischi che, se vogliamo, possono essere paragonati, per concezione, a quelli country made in Nashville degli ultimi tempi. She’s Gone non è così, pur facendo parte di questo nuovo filone, il disco è ‘caldo’, perché le canzoni dal punto dl vista vocale sono interpretate con particolare convinzione e soprattutto partecipazione. Se poi aggiungiamo che tecnicamente i ragazzi si dimostrano portentosi, allora.., viva il contemporary bluegrass.
Alcune canzoni, nel dettaglio la title track, I Ain’t Gonna Cry Anymore, Higher Ground, Bound To Get Burned, Broken Hearted Crying Time Again, e forse altre ancora, potrebbero sembrare a tutti gli effetti uscite dai dischi della Lonesome River ……. sarà forse a causa della mano del produttore? Potete giurano: i ‘colpevoli’ si chiamano Tim Austin e Dan Tyminski, loro si sono occupati della produzione. Lo hanno prodotto esattamente come se fosse un disco della loro ex-band. Scopriremo in futuro, già col prossimo CD se prodotto da qualcun altro, se questo loro lavoro ha parzialmente snaturato la personalità degli Unlimited Tradition. Oddio, ‘somigliare’ alla Lonesome River Band non deve essere considerato un male, in fondo stiamo parlando della più importante formazione che esegue bluegrass moderno, e chissà quanti gruppi vorrebbero raggiungere un tale livello tecnico, di grinta, gusto e professionalità pari a quello di Ronnie Bowman, Don Rigsby, Sammy Shelor e Kenny Smith.
li brano che in assoluto preferisco è You Should See My Heart, una love song mid-tempo ricca di una linea melodica molto efficace, perfetta nella sua semplicità, più country che bluegrass… che meraviglia dì canzone. Ma belle sono anche le lente Pathway Of Danger di Ronnie Bowman e Little Girl di Ray Craft (ben quattro pezzi sono suoi). Dal lato strumentale, si noterà la fantasia, il timbro e la pulizia del Craft chitarrista, Il mandolino bluesy di Shayne Bartley mentre, sorpresa, al banjo John Lewis lo si ascolta in un solo pezzo (cambio improvviso dl formazione?) perché al 5-string abbiamo Craig ‘prezzemolo’ Smith. Le voci lead sono di Craft e Sparks; più bella, calda e personale quella dl Craft, non a caso nove su tredici le canta lui, ottima però anche quella di Sparks. La debolezza sta nel cori, non perché mal riusciti, al contrario, sono splendidi, ma perché il ruolo di baritone è ricoperto da special guest (Dan Tymlnski e Keith Tew). In conclusione, un disco veramente bellissimo, ma fortemente ‘manipolato’, staremo a vedere con il loro banjoista, con altri produttori e con un baritono non in prestito cosa potranno offrirci in futuro.
Jeanette Williams – Cherry Blossoms In The Springtime (DS CD 2003)
Nonostante gli oltre quindici anni di attività artistica di Jeanette Williams, prima in campo country e successivamente bluegrass, Jon Weisberger, noto giornalista collaboratore di numerose riviste come Bluegrass Unlimited, Bluegrass Now e No Depression – forse il più richiesto tra quelli che oggi si cimentano nella stesura dl note di copertina – si è sentito in dovere di presentarla tracciandone la biografia, cosciente della sua scarsa popolarità tra gli appassionati di musica bluegrass. Per molti americani, evidentemente, Cherry Blossom… può essere considerato un vero e proprio debutto discografico di una nuova, emergente voce femminile. Stando così le cose credo che, a maggior ragione, il suo nome sia ancora del tutto sconosciuto quaggiù, quindi faccio la mia parte anch’io passandovi qualche informazione sul suo conto.
Nata nel North Carolina, ma cresciuta in Virginia, a soli 23 anni calca già il palcoscenico eseguendo country music con una formazione elettrica che le fa guadagnare la porta della Grand Ole Opry. Nel 1989 conosce Johnny Williams e da lì a poco (1991) abbandona il vecchio cognome per indossare quello del neo marito, oltre che una parte nella di lui bluegrass band Clearwater. Il gruppo ha al suo attivo alcuni dischi, un tour europeo (mi pare abbia toccato in realtà la sola Francia) e un ‘Chris Austin Songwriting Award’ per la canzone What Will Become dello stesso Williams. Incidono anche un disco a loro nome nel ‘96, mentre il vero debutto di Jeanette risale a due anni prima, un CD registrato con i Clearwater e con la partecipazione dl special guest del calibro dl Russell Moore (IIIrd Tyme Out) e Ronnie Bowman (Lonesome River Band).
Ed eccoci a Cherry Blossom In The Springtime del 1998. La squadra che la circonda è di prim’ordine, di serie A: Dan Tyminski (co-produttore e mandolino), Tim Austin (co-produttore e chitarra ritmica), Craig ‘a-ridaje’ Smith (banjo), Ben Isaacs (contrabbasso), Aubrey Haynie (fìddle), Rob Ickes (dobro) e Gena Britt (harmonies).
Apre Break My Heart, già ascoltata da Rhonda Vincent In A Dreams Come True del ‘90 (Rebel Records). La parte cantata piace, quella strumentale, visti i nomi di cui sopra, è facilmente immaginabile. L’avrei tuttavia apprezzata di più se fosse stata registrata ad un ritmo leggermente inferiore. Altra bella prova vocale si dimostra Careful Of My Heart, un pezzo nuovo, ben costruito dal punto di vista dell’arrangiamento, relaxed nel suo incedere, con un ritornello dolcemente accattivante. Il pezzo seguente, lento ma al contempo piacevolmente cadenzato, si fa apprezzare per le avvolgenti armonizzazioni vocali, il suo titolo è Cherry Blossom… A Too Late To Say Goodbye ci si deve abituare, non credevo di poterlo ascoltare da una voce femminile, pensavo non potessero farla che dei machos come i Johnson Mountain Boys (è di Dudley Connell), e invece va bene anche così. It’s A Matter Of Time sembra una canzone come quelle che Alison Krauss amava incidere anni fa, ma è nuova di zecca, e Jeanette la veste con classe. Ed ecco il pezzo del marito Johnny, quella What Will Become Of Me che tanto lo ha gratificato come autore, e si capisce perché, è bellissima, un pezzo bluegrass veloce e moderno.
Leavin’s Heavy On My Mind mi ha catapultato indietro di oltre vent’anni, questa canzone fa parte del primo disco CMH dei fratelli Osborne, uno dei miei primissimi acquisti, è la prima volta che l’ascolto da qualcun altro, e dopo così tanto tempo: emozioni a mille. Con Lonely Side Of Goodbye si ha modo di apprezzare ancora una volta le doti di Randall Hylton autore, che uomo, e che brava Jeanette alle prese con un pezzo semplice semplice come questo: non si concede, evita possibili virtuosismi finalizzati ad arricchirlo, cosciente che tale semplicità deve rimanere intatta, è bello così proprio grazie alla sua disarmante sobrietà. In This Arms I’m Not Afraid è una canzone country, quel tipo di traditional country concepito per essere suonato In acustico, e non a caso è stato scritto dall’indimenticabile Jim Eanes. Anche Stripped Of My Pride, sempre di Randall Hylton, poteva essere inserita dalla Krauss in Two Highways o l’ve Got That Old Feeling perché, scusate il gioco di parole, possiede esattamente il feeling dl quel dischi.Si chiude con un lentaccio, Your Last Mile, di quelli che messi in fondo ad un disco hanno la funzione di lasciare all’ascoltatore una sensazione di dolcezza e serenità. Non poteva che finire così, e così finisce. In maniera forse un poco prevedibile, ma sicuramente col desiderio di riascoltarla ancora.
Mountain Heart – Mountain Heart (DS CD 4002)
Due nostre vecchie conoscenze fanno parte dei Mountain Heart, Steve Gulley (voce lead e chitarra) e Barry Abernathy (banjo); spero li ricordiate, erano saliti insieme a Doyle Lawson sul palco del Teatro Delfino di Milano alcuni anni fa, un evento al quale parteciparono appassionati italiani di bluegrass accorsi da ogni angolo del Paese. Era la seconda volta che Doyle Lawson e i suoi Quicksilver venivano a trovarci, la prima risaliva a metà degli anni ‘80, eravamo al Teatro Instabile di Genova, fu una serata magica, passata insieme a Terry Baucom (banjo), Jimmy Haley (chitarra) e Randy Graham (basso elettrico), gli allora componenti del gruppo di Lawson. Altrettanto magica si rivelò la serata al Delfino, ma diversa poiché, rispetto a dieci anni prima, il capobanda aveva dato una sterzata stilistica al tipo di bluegrass proposto, inizialmente influenzato dal rock, in seguito più tradizionale, per quanto comunque moderno nell’approccio.
La stessa scelta di cantare e suonare intorno ad un unico microfono panoramico, come facevano le band negli anni ‘50, creando suggestive coreografie date dai movimenti sincronizzati dei musicisti che si alternavano davanti ad esso per il loro assolo, era parte di quel ritorno al ‘traditional’ voluto da Lawson. Un ritorno avvenuto, coincidenza, in sintonia con molte altre band, a determinare una vera e propria riscoperta generalizzata del ‘vecchio’ suono, tra l’altro premiata dal responso di quella larga fetta di pubblico più tradizionalista, che malvolentieri ha dovuto sopportare l’ondata di freakettoni che, durante i ‘70 e parte degli ‘80, portarono il bluegrass anni luce oltre i suoi originali e caratteristici canoni, inventando nuovi stili quali newgrass, dawg, spacegrass, new acoustic, ecc.
I Mountain Heart sono quindi altri ‘figli’ di Doyle Lawson, insieme ai IIIrd Tyme Out, Blueridge, Carolina e New Quicksilver, giusto per fare qualche nome. Il loro debutto è seguìto ad una notevole aspettativa da parte di chi ha avuto la fortuna di ascoltarli live, magari proprio durante quello ‘showcase’ che tennero nel ‘98 all’annuale World of Bluegrass della International Bluegrass Music Association e che li fece conoscere agli ‘addetti ai lavori’.
Andiamo con le presentazioni. Di Gulley e di Abernathy abbiamo già detto. Aggiungo però che Gulley per anni ha intrattenuto il pubblico al noto Renfro Valley Music Park nel Kentucky e che è figlio d’arte, suo papà Don suonava con I Pinnacle Boys (qualcuno lì fuori se li ricorda?) e che Barry Abernathy nel ‘97 si è portato a casa un award come miglior banjoista dell’anno consegnatogli dalla Society For The Preservation Of Bluegrass Music In America. Quest’ultimo, voglio sottolineare, oltre a lavorare per cinque anni nei Quicksilver ha prestato servizio anche nei IIIrd Tyme Out. Jim Vancleve, sorpresa (?), ha suonato anche lui (il fiddle) nei Quicksilver per un certo periodo. E non solo: Rambler’s Choice, Lou Reid & Carolina e Ric-o-chet, un curriculum di tutto rispetto, a soli vent’anni! Anche Alan Perdue, il mandolinista, è stato nei Rambler’s Choice. Johnny Dowdle, che qui suona il contrabbasso, infine, oltre che dei Carolina ha completato le fila dei Santa Cruz di Wyatt Rice. Come possiamo notare, le strade spesso si incrociano…
L’obiettivo della band, come dice il nome stesso del gruppo, è quello di eseguire una musica che tocchi il cuore attraverso canzoni cariche di sentimento: “Se la gente ‘sente’ la tua musica, allora non vi è motivo di etichettarla, personalmente la definisco ‘heart music’”, e ancora, “Noi desideriamo che questa band si riveli l’estensione della nostra condizione emotiva”, e per arrivare a questo, dice Steve, “Suono con persone di cui (…riguardo alle loro motivazioni) ho la massima fiducia.” E tutti questi buoni propositi, è lecito chiedersi, si riscontrano nel loro disco? La risposta è sì. C’è molta onestà in Mountain Heart, si percepisce immediatamente la sincerità del loro rapporto con la musica che eseguono. Professionisti sì, ma col cuore, ‘mountain heart’. Sostenere che “senza alcun dubbio è uno dei debutti discografici della decade attesi con maggior ansia” può forse essere un pò azzardato, anche se l’affermazione è lanciata dai solito, bravo e autorevole Weisberger, tuttavia vi confermo che si tratta di un gran bel debutto.
La voce di Steve ha un timbro particolare, deve piacere, e al sottoscritto piace molto in alcune occasioni, mentre in altre meno. Se un paio di brani, inoltre, fossero stati eseguiti ad una tonalità più bassa avrebbero a mio avviso permesso al nostro di non raggiungere quasi il limite della sua estensione vocale. Questo è dovuto al fatto di essere nel gruppo il cantante con la voce più alta, quindi nei cori si vede costretto a passare dal lead al tenor. Il suo personale timbro, alto di per sé, già ascoltato mentre esegue la parte lead, continua inevitabilmente a catalizzare l’attenzione durante i ritornelli, quando, come tenor, si ritrova a dover ‘picchiare’ così in alto da far strabuzzare gli occhi all’ascoltatore. Sono comunque dettagli e, in quanto tali, importanti per alcuni, trascurabili per altri. Questo è, davvero, l’unico elemento discutibile che sono riuscito ad individuare ascoltando il CD. Non avessi esposto queste considerazioni, mi sarei ritrovato a parlare soltanto bene del disco, perché sia dal punto di vista della scelta dei pezzi (gli autori disturbati sono: Jack Tottle, Keith Tew, Carl Jackson, Tim Stafford e Vince Gill) che dell’esecuzione (i ragazzi, tutti, sugli strumenti sono a dir poco sbalorditivi, anche quando cercano di non farlo notare) Mountain Heart è un Signor Debutto. Non lo aspettavo con ansia da dieci anni (con tante scuse a Jon Weisberger) ma rimane, anche per me, una stupefacente opera prima.
Per ora è tutto, ma rimanete sintonizzati, spero presto dl potervi parlare anche del disco di Dan Tyminski.
Bluegrass, pick it up!
Maurizio Faulisi, fonte Country Store n.52, 2000