Ferron

Il ‘primo’ album di Ferron (Deborah Foisy) che giunge nelle nostre lande era datato 1980. ‘Primo’ per così dire, poiché esistono infatti 2 precedenti albums, su etichetta Lucy, la cui reperibilità è però praticamente sotto zero.
In quegli anni che introducevano il nuovo decennio le cantautrici di vaglia erano ancora una merce rara, Joni Mitchell, Rickie Lee Jones, Joan Armatrading erano i nomi di spicco, Carole King e Laura Nyro erano quasi scomparse, Terry Garthwaite era più un’interprete, per quanto grande e misconosciuta, che un’autrice e comunque non c’era certo quella fioritura di talenti che ha caratterizzato la seconda metà degli anni ’80.

Quindi l’apparizione di Ferron e dell’album Testimony fu come un fulmine a ciel sereno: ancora una volta la terra d’origine di questo nuovo talento era il Canada che evidentemente ospita nella sua aria una sostanza speciale che favorisce, oltre la presenza di grandi laghi e foreste, la crescita di talenti nell’ambito musicale in rapporti enormemente maggiori rispetto a paesi con popolazioni più numerose. Si tratta di un argomento interessante che lascio aperto al pubblico dibattito.

Tornando a Testimony, l’album si avvale di un’ampia schiera di collaboratori, senza nomi illustri o celebri, solo la presenza di Jim Rothermel agli ottoni della band di David Bromberg, ma gode di un suono estremamente vario e pieno, una freschezza invidiabile ma anche un suono già maturo e sorprendentemente autorevole, sicuramente uno dei dischi più belli di quegli anni, anche se conosciuto da pochi.

La voce di Ferron è già nella sua piena maturità, una voce che spazia dai toni bassi e grevi di Tanita Tikaram alle tonalità più acute di Joan Armatrading nello spazio di un solo fraseggio.
Il suono passa dalle sonorità quasi solari dell’iniziale Almost Kissed con una chitarrina elettrica saltellante e lirica a condurre le danze, alla malinconica Rosalee con un violino che accarezza le note mentre un piano in sottofondo tesse melodie magiche che introducono una chitarra molto discreta.

Che dire della magica serenità di Our Purpose Here dove la voce di Ferron raggiunge una delicatezza suprema, una simbiosi completa con i temi di pena e d’amore che il testo narra, in alcuni momenti sembra di ascoltare la Joni Mitchell più ispirata.
La seguente Who Loves più grave e maestosa nel suo incedere è un altro capolavoro di equilibri sonori ancora guidati dalla grande espressività della voce di Ferron che ben supportata da alcuni cori di grande effetto e da un pianino liquido costruisce atmosfere di rara efficacia sonora.

Testimony con una linea di chitarra che ricorda il suono della prima parte acustica di Stairway To Heaven è un’esortazione sentita e urgente alle generazioni future, un monito per una maggiore spiritualità corredata da una musica che percorre sentieri più folk con le sue gentili linee di violino, mentre la successiva Bellybowl con una ritmica spezzata, un clarinetto in libertà, un cello che si libra inquieto richiama sonorità orientaleggianti, Satin Blouse è un episodio acustico, sottilmente jazzato, minore di questa opera.

O Baby è un brevissimo brano a capella che introduce un altro dei capolavori dell’album, Misty Mountain il più bel brano che Mark Knopfler non abbia scritto dai tempi di Sultans Of Swing un grandissimo brano elettrico (il suono di chitarra è fantastico) con Ferron che dialoga con sé stessa sui massimi sistemi, indimenticabile nella sua liricità superba.
La conclusione è affidata ad una perla acustica Ain’t Life A Brook che Bill Morissey e Greg Brown hanno recentemente riproposto, ma questa versione è insuperabile nella suprema serenità che infonde. Secondo alcuni Ferron non ha più toccato le vette raggiunte in questo disco, verificatelo nel CD recentemente ristampato dalla Redwood.

Stessa label per la ristampa in CD del secondo album Shadows On A Dime. E’ quasi passato un lustro, siamo nel 1984, Ferron decide di comporre un’opera ambiziosa che pone le sue fondamenta sul pensiero di WB. Yeats (chissà se Van Morrison conosce questa sua anima gemella canadese?) ed è divisa in due sezioni: Dreaming Back e The Return.
Per questo album Ferron si avvale della co-produzione di Terry Garthwaite (toh chi si vede!) e di una strumentazione più complessa: con tastiere e sintetizzatori usati in grande copia, l’opera di Barbara Higbie al violino e di Novi alla viola, oltre ad un uso più deciso dei fiati che creano un suono più corposo, quasi new age.

Alcuni episodi come Snowin’ In Brooklin, Proud Crowd/Pride Cried (bellissimo titolo), I Never Was To Africa, Shadows On A Dime e l’epica It Won’t Take Long sono altri capolavori nell’opera ferroniana che continua nella sua cristallina bellezza. La voce in questo album è più soffusa, meno dispiegata e questa è una caratteristica anche dei lavori successivi.
Nel 1990 Ferron approda alla Chamaleon, un’etichetta indipendente distribuita da una major, un compromesso che purtroppo non aumenta la diffusione del suo lavoro, anzi… A fianco delle immancabili Higbie e Novi, Denny Fongheiser e Tim Landers sono una sezione ritmica di ‘professionisti’ e tra le voci appare un nome nuovo, tale Tori Amos! Il suono è decisamente più complesso, quasi cupo, ma alcuni momenti hanno la levità delle passate opere, dalla dolcissima Harmless Love alle più ponderose Thecart e Phantom Center che dà il titolo a questa nuova opera passando per Higher Wisdom il grande carisma di Ferron ancora una volta si trasmette all’ascoltatore.

A questo punto il silenzio, rotto in questi primi mesi del 1994 dall’annuncio di tre nuovi dischi di Ferron. In effetti si tratta di due album del 1992 Resting With The Questions, completamente strumentale e Not A Still Life un CD dal vivo, acustico, registrato al Great American Music Hall che scindono le due anime della musica di Ferron in due alvei separati. La folksinger, ricca di humor e comunicativa nell’album dal vivo, dove rivisita i suoi passati lavori con semplicità suprema e la musicista complessa e ricercata in quello strumentale.

Nel 1994 per il nuovo album Driver i due estremi si reincontrano e ne scaturisce un’opera ancora una volta di rara efficacia. Tra i vecchi collaboratori ritroviamo Larry Tuttle allo stick, Novi alla viola e Adrienne Torf alle tastiere, oltre una lunga serie di nuovi amici.
Il suono si è fatto più riflessivo, più maturo quasi mitchelliano ma mantiene quella unicità che rende Ferron una cantautrice atipica, new age per chi così la vuole definire, umorale e melanconica per altri. Le atmosfere, dall’iniziale Breakpoint alla dolcissima Girl On A Road sono sempre estremamente raffinate e rarefatte allo stesso tempo con strati sovrapposti di voci, bassi fretless, tastiere acustiche ed elettriche che interagiscono con l’acustica di Ferron in una contrapposizione sempre assai efficace.

Call Me è un episodio più notturno, quasi jazzato caratterizzato da un sax puntuale e da improvvise aperture vocali, un’altra magia di Ferron che si ripete nella stupenda Cactus che ritrova antiche sonorità; Love Loves Me è allegramente guidata da un’insolita accoppiata violino e fisa ed ha sonorità quasi cajun mentre Borderlines e Sunshine con prologo ed epilogo annessi mantengono quell’atmosfera magica e sospesa che caratterizza questo nuovo album.
Indipendence Day è un inno ai quarantenni ed un piccolo bilancio della vita di Ferron, mentre la conclusiva Maya si apre con queste parole: “La scorsa notte ho sognato Joni Mitchell, aveva tagliato i suoi capelli corti e cambiato il suo nome in Gaia…”.

Vi lascio il piacere di scoprire come si conclude questo sogno e vi invito a penetrare l’universo musicale in cui agisce questo misterioso personaggio che risponde al nome di Ferron. Ne vale la pena.

Bruno Conti, fonte Out Of Time n. 3, 1994

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