Più una leggenda che una band: l’hanno scritto e detto tutti per trent’anni (e sono stati loro i primi, tanto da titolare così il loro unico disco) al punto che quasi non ci si crede a vederli lì sul palco tutti e tre assieme, e non per caso come in realtà spesso è successo negli anni, ma con una manciata di canzoni nuove e un disco già pronto, Now Again, che vedrà la luce alla fine di maggio.
Loro sono Joe Ely, Jimmie Dale Gilmore e Butch Hancock, tre tra le voci texane per eccellenza, e tutti assieme sono Flatlanders, una leggenda alimentata dal loro unico album, More A Legend Than A Band, che data 1972 (il titolo allora era Jimmie Dale And The Flatlanders).
I Flatlanders del nuovo millennio, se non suonano più selvaggi e bizzarri come dovevano sembrare a chi li voleva trent’anni fa traghettare a Nashville, per contro buttano oggi sul palco trent’anni di carriera rigorosa ed esemplare, trent’anni di personale rincorsa a un’ideale country music moderna e globale, nella quale tenere assieme, oggi come allora, la vita e i suoi ritmi, con la tradizione.
Le nuove canzoni, ascoltate qui ad Austin per la prima volta, girano esattamente come il più appassionato dei loro fan vorrebbe girassero, e quando i tre intonano Dallas, dal loro disco leggendario, la differenza davvero non si avverte. Il direttore d’orchestra stasera è Joe Ely: è lui a chiamare le canzoni, a dettare le chiavi, a sostenere il peso maggiore, quanto a frequenza di interventi, nei back e nei lead vocals, mentre Gilmore è quello che si prende le responsabilità vocali soliste più impegnative, lasciando ad Hancock gli episodi più sporchi di country blues.
Tre chitarre acustiche all’unisono, tre voci che si rincorrono, e in mezzo tutto il country, il folk e il rock, che le ‘flatlands’ tra Lubbock e l’infinito possono contenere.
Stava tutto su un palco. Altro che leggenda, questa è realtà.
Mauro Eufrosini, fonte JAM n. 82, 2002