Il flusso di blues è stato costante nella mutevole carriera discografica di Tom Waits e più di altri elementi a cui ha dato comunque forma (il rock’n’roll e il jazz) si è prestato alle frequenti metamorfosi. In questa simbiosi contano i rendez-vous con gli originali, come ricordava lo stesso protagonista, nel corso dei suoi esordi: «Ho fatto qualche data con Sonny Terry e Brownie McGee. Una grande emozione». Si comincia bene e, ancora di più, merita l’incontro a distanza ravvicinata con Hound Dog Taylor a Chicago: «Ero nel Southside di Chicago al Checkerboard Longue, e il grande Hound Dog Taylor stava suonando davanti a un pubblico turbolento e veniva interrotto in continuazione da un ubriaco nella prima fila. Hound Dog tirò fuori un revolver calibro trentotto, sparò in un piede all’ubriaco, si rimise la pistola in tasca e finì la canzone. Anch’io ho pensato di fare la stessa cosa un sacco di volte, ma non ho mai avuto il coraggio». Il gusto per l’iperbole di Tom Waits impedisce di valutare se l’episodio è reale (piuttosto che no), la personalità di Hound Dog Taylor suggerisce che un qualche fondamento di verità ci deve essere poi, chissà, forse la sua calibro .38 ha ispirato quella di Small Change (Got Rained With His Own .38).
Questo perché nella formazione musicale di Tom Waits contano gli ascolti e la sua canzone ‘blues’ più amata in assoluto è Look At The People di Skip James il cui tema, parole sue, gli ha sempre ricordato John The Revelator di Son House. Altri riferimenti, in ordine sparso, sono riservati a Sister Rosetta Tharpe, Lightnin’ Hopkins, Koko Taylor, Peetie Wheatstraw, Professor Longhair e Ray Charles (prima di tutto, come chiunque), nonché Big Mama Thornton e Big Joe Turner. Di seguito, dato che Tom Waits è Tom Waits, ha detto di amare tutti i ‘little’ e tutti i ‘big’, senza distinzione, e infine, in tempi recenti, «T-Model Ford. La musica della Fat Possum mi piace molto». Nella sua collezione di dischi un posto a sé, ce l’ha un disco particolare. Qui il blues non è pervenuto, ma la descrizione è esilarante: «Negli anni Settanta una casa discografica di Los Angeles pubblicò un album intitolato The Best of Marcel Marceau. C’erano quaranta minuti di silenzio seguiti da un applauso; vendette molto. Mi piace metterlo quando ho ospiti. Ma mi dà fastidio se la gente ci parla sopra». In realtà, se nelle sue influenze Tom Waits ha citato con una certa frequenza bluesmen di ogni regione (Howlin’ Wolf più di tutti) e tempo, con il passare degli anni, e con la scarnificazione della musica, il suo rapporto con il blues si è fatto più stretto e alla fonte c’è sempre la ricerca delle radici primarie: «Ascoltare vecchie registrazioni mi commuove. A casa ascolto i miei dischi, cioè quasi sempre le vecchie incisioni di Alan Lomax».
Tra queste, segnalata in un’intervista, quella preferita è 16 Prison Songs: Murderous Home Alan Lomax Collection, un disco della Rounder Select del 1997, che Tom Waits richiama per ribadire il concetto che «Senza gli spiritual e la chiesa battista e l’intera esperienza afroamericana in questo paese, non so cosa avremmo potuto considerare, non so a cosa avremmo potuto abbeverarci. È nell’acqua. L’impatto che l’intera esperienza della black music ha avuto su tutti i musicisti è incommensurabile. Lomax registrava tutto, dai suoni delle discariche a quelli dei registratori di cassa, macchine che sono scomparse e che non sentiremo più. Una cosa che non cambia è il rumore dei bambini che escono da scuola. Registrato nel 1921 e registrato adesso, è sempre lo stesso. La parte migliore di queste registrazioni è che sono così crude, così spontanee che è come registrare un paesaggio. È come ascoltare un grande campo aperto. Si sentono altre cose in sottofondo. Si possono sentire le persone che parlano mentre le altre cantano». Una sensazione poi riproposta in 16 Shells From A Thirty-Ought Six come ha ammesso lo stesso Tom Waits: «Ho cercato di ottenere un’atmosfera da detenuti ai lavori forzati, da canzone operaia, da raccolta dei campi». Gli elementi dichiarati e palesi sono Tom Traubert’s Blues (Four Sheets To The Wind in Copenhagen), naturalmente Invitation To The Blues e Fumblin’ With The Blues, anche se poi, in perfetto stile Tom Waits, magari il blues resta soltanto nel titolo. Da ricordare anche la rara interpretazione (dal vivo) di Friday’s Blues scritta da Ray Bierl, chitarrista e violinista conosciuto sulle soglie dei locali notturni, agli inizi della sua carriera, che ha imparato i fondamenti della chitarra ascoltando Pete Seeger, Woody Guthrie, Mississippi John Hurt e Bob Dylan. Secondo Tom Waits «nessuno sa come trasportarvi dentro una canzone come Ray Bierl» ed è un’arte che deve avergli sfilato senza tanti complimenti. All’inizio è una traduzione che coincide con le storie, una declinazione condivisa con gli epigoni della Beat Generation: è una questione di atmosfera, di slang: i temi sono più jazzy che bluesy, ma il milieu di riferimento non è molto distante.
È la geografia umana di una metropoli decadente e contraddittoria (Los Angeles) a determinare il senso di Tom Waits per il blues: «D’altronde mi sento attirato verso i falliti e gli inetti, quasi fossero loro i giusti. Li vedo, a distanza, addirittura come nobilitati; o come se soltanto essi, tra noi uomini d’oggi, fossero figure con un destino. E allora sogno di essere lontano, nella città portuale più in capo al mondo, aria per gli altri, lievitato in soffio sulle tempie». Sono parole di Peter Handke in “Il mio anno nella baia di nessuno” (Garzanti), ma coincidono alla perfezione con il vocabolario di Tom Waits e con la sua preferenza per un certo tipo di songwriting, così dichiarata: «Ho sempre amato le canzoni di avventure, murder ballads, canzoni a riguardo di naufragi e terribili fatti di depravazione ed eroismo. Racconti erotici di seduzione, canzoni di storie d’amore, coraggio temerario e mistero. Ognuno ha provato, una volta o l’altra a vivere dentro una canzone. Canzoni dove la gente muore per amore. Canzone di gente in fuga. Canzoni di navi fantasma e rapine di banche. Ho sempre voluto vivere dentro le canzoni, senza tornare indietro. Canzoni che sono ricette per superstizioni o per sparizioni inspiegabili». L’elemento del blues è quello che le collega tutte e se era il colore dominante per la malinconia, il romanticismo (compresa l’apoteosi di Blue Valentine) e il clima delle ore notturne, nella seconda parte della carriera di Tom Waits, quella inaugurata da Swordfishtrombones, l’attenzione si è spostato sull’elemento percussivo e vocale, dall’insistente richiamo a Howlin’ Wolf (Gin Soaked Boy è esplicitamente ispirata dal ‘killer’) fino a Shore Leave descritta come «una sorta di approccio della Bobby Blue Band in versione orientale. Dal punto di vista musicale è molto semplice. È un blues in minore». Un altro blues in tutte le formalità armoniche del caso (per quanto suonate soltanto organo e contrabbasso) è Frank’s Wild Years, canzone da cui si è generato tutto un mondo, compreso un musical e la relativa colonna sonora.
Questo perché Frank’s Wild Years è un racconto che avrebbe potuto scrivere Raymond Carver (che ricambiava la sua ammirazione per Tom Waits) e perché come scriveva David Smay in Swordfishtrombones (No Reply): «Tom Waits scrive il genere di blues che contiene nasi di maiale. Nasi di maiale e grappa alla menta. Qualunque stronzo può scrivere un blues sul whiskey, il vino e le donne, qualunque stronzo l’ha fatto. Odio quel genere di blues. Noioso, trito, pieno di cliché. Preferisco un blues che non manifesta solo tristezza, ma anche un profondo disagio. Bisognerebbe trasalire davanti ai sassi che lastricano il passaggio di Robert Johnson e ponderare l’imponderabile di Gimme Back My Wig di Hound Dog Taylor o canticchiare su Violent Love di Willie Dixon, The River’s Invitation di Percy Mayfield, Fattening Frogs For Snakes di Sonny Boy Williamson o Electric Chair Blues di Bessie Smith». Pur riconoscendo a Swordfishtrombones la caratteristica dello spartiacque, va detto che da lì in poi il blues (insieme a molto altro) pervade anche Rain Dogs, Bone Machine, Mule Variations, Real Gone e Bad As Me. Tutti dischi che viaggiano con convinzione rumorista tra Dr. John, Captain Beefheart e Frank Zappa (anche se The Earth Died Screaming su Bone Machine è proprio un blues così come Jesus Gonna Be Here è uno spiritual), ma è proprio Mule Variations a ritornare al Big Bang originario del blues, già dal titolo attinto direttamente alla leggenda di Robert Johnson.
Come spiegava Tom Waits: «È quello che il padre di Robert Johnson diceva del figlio. Diceva che Robert non voleva mettersi dietro al mulo. Robert voleva fare di testa sua e farla finita con il sistema, perciò ha tagliato la corda». Per inciso un verso di Get Behind The Mule (Always Keep A Diamond In Your Mind) diventerà un’intera canzone per Solomon Burke, e succede perché nel blues contano gli amici. Le prove vanno trovate nella frequentazione di un compagno di sbronze come Keith Richards, l’arrivo al basso di Larry Taylor dei Canned Heat (che, come è noto, diedero il meglio con John Lee Hooker) la collaborazione con Teddy Edwards in Mississippi Lad o con The Blind Boys of Alabama, per finire con Wicked Grin di John Hammond, celebrazione di una complicità maturata attraverso Got Love If You Want It (prodotto da J.J. Cale e vincitore di un Grammy come miglior album blues) e continuata con la partecipazione di John Hammond (all’armonica) a Mule Variations. La dovuta riconoscenza al blues è diventata di nuovo esplicita quando Tom Waits ha cantato The Soul Of A Man nel tributo a Blind Willie Johnson, God Don’t Never Chance: una splendida versione (e bellissimo disco) che ci riporta poi a ricordare anche le versioni di Leadbelly (Ain’t Goin’ Down To The Well e Goodnight Irene). Al contrario il miglior omaggio del blues a Tom Waits resta Way Down In The Hole rifatta dall’indimenticabile John Campbell in Howlin’ Mercy, un bluesman unico che ha saputo davvero catturare lo spirito di un uomo.
Marco Denti, fonte Il Blues n. 143, 2018