Coerenza. Qualora si dovesse scegliere un termine per descrivere la Joan Baez dell’ultimo decennio, rapportandola a quella sicuramente più celebre e dall’alto profilo degli anni ‘60 e ‘70, tale termine è proprio coerenza.
Se nell’agosto del 1963 la vedevamo alla Marcia di Washington davanti a una folla di 400mila a cantare We Shall Overcome, a manifestare per i diritti civili (in quello stesso giorno in cui Martin Luther King pronunciò il suo immortale discorso che iniziava con la frase “Ho un sogno”), pochi mesi fa la si poteva vedere alla manifestazione per la pace di San Francisco dove ha marciato e si è esibita davanti a oltre 150mila persone, cantando Let Us Break Bread Together e protestando contro la politica di George W. Bush.
Ed è la stessa che ancora oggi, a 62 anni, partecipa a dischi benefici, come nel caso del recente Respond II, in soccorso delle donne che hanno subito violenze familiari o che – insieme a Emmylou Harris, Chrissie Hynde e Billy Bragg -canterà a Edimburgo nell’ambito degli show di beneficenza denominati Concerts For A Landmine Free World.
I tempi cambiano ma certe cose restano uguali. Insomma, i capelli non sono più lunghi e corvini ma la Joan Baez di oggi è sempre la stessa di allora, esempio di integrità e di fedeltà a un ideale, caso più unico che raro in un mondo come quello musicale in cui il trasformismo è sempre stato un’esigenza. Una donna che è quanto mai attiva sul fronte dell’impegno sociale ma che allo stesso tempo, rispondendo alla domanda: “Qual è stata la maggiore soddisfazione di una vita tanto ricca e interessante come la tua?”, ammette candidamente: “È molto semplice:mio figlio”.
Ho avuto modo di incontrare Joan diverse volte negli ultimi anni e di lei mi ha colpito l’assoluta disponibilità nei confronti del prossimo, l’incredibile semplicità del suo modo di porsi nei confronti di persone comuni, del tutto scevra da atteggiamenti divistici o supponenti, una persona letteralmente solare. “Can I film you?”, azzardai timidamente a Lucca indicandole la videocamera che avevo in mano e già rassegnato all’idea di un probabile rifiuto. “No problem”, mi rispose invece con un sorriso, quasi a sottintendere: c’è bisogno di domandarmelo? L’ho vista prodigarsi in scambi di indirizzi e numeri telefonici dopo essere stata avvicinata da una coppia di genitori che le chiedevano la possibilità di farla contattare dalla figlia, che stava scrivendo una tesi di laurea proprio su di lei.
Insomma, oggi come allora, Joan è un’artista che vive per la gente, ma che dalla parte della gente ci sta per davvero, non per un atteggiamento di facciata o di comodo. Non a caso ha di recente ricevuto il John Steinbeck Award, con il sottotitolo “Nell’anima della gente”, conferito all’artista il cui lavoro riguarda la “dignità della gente comune” e che è stato esemplificato dall’opera di Steinbeck Furore.
È una donna ancora forte che, nonostante il trascorrere inesorabile del tempo (sta per diventare nonna), non ha perso lo smalto e il vigore delle battaglie dei Sixties, quelle che la videro fianco a fianco con il suo compagno di allora, Bob Dylan. Lo stesso Dylan dal quale, invece, si sentì tradita, proprio in relazione allo smalto e al vigore profuso in quelle battaglie, tanto da farle dichiarare con rabbia, quando il poeta di Duluth si rinchiuse in un inespugnabile individualismo: “Mi sembra che il suo messaggio ora sia: è meglio che andiamo a casa a farci delle gran canne, perché tanto non possiamo fare un c… per cambiare le cose, mentre io invece canto esattamente l’opposto”.
Dunque com’è la Joan Baez del 2003? Risponde lei stessa indirettamente con questa dichiarazione riportata da un quotidiano di Philadelphia: “Sono felice perché ora è chiaramente il tempo che profonda di nuovo le mie energie nell’arena”. A quale arena alluda Joan è chiaro anche a chi la conosce solo di fama. I tempi cambiano, ma certe cose restano uguali…
Dal punto di vista musicale, pur con la sua sempreverde cristallina voce da soprano (spesso in concerto esegue brani a cappella), Joan si è avvicinata a un concetto di diversità della musica, interessandosi sempre più alla multietnicità del suono, oltre che degli strumenti stessi, in questo stimolata anche dal figlio Gabriel che suona le percussioni africane. Lei stessa ha dichiarato che quando è in tour cerca di farsi insegnare almeno una canzone tradizionale del posto, in ogni nazione in cui si reca.
Nel recente concerto di Chicago, ad aprile, ha cantato anche in arabo.
Gli anni recenti hanno visto una Joan Baez dal basso profilo, da un punto di vista della produzione discografica, con due soli album in studio in undici anni, Play Me Backwards del 1992 e, l’ultimo in ordine di tempo, Gone From The Danger del 1997, un disco in cui Joan si è affidata a giovani cantautori irlandesi, inglesi e americani.
Ha tentato così il recupero della musica tradizionale folk rinnovandola grazie alla freschezza della vena compositiva di autori come ad esempio Richard Shindell che scrisse forse la migliore delle canzoni di quel disco, l’imperiosa ballata antimilitarista intitolata Reunion Hill.
A parte Gone From The Danger, sono poche le canzoni registrate negli ultimi anni da Joan. Da ricordare tra esse Guantanamera cantata in coppia con Jackson Browne, Weeping Willow in duetto con Ralph Stanley e Wagoner’s Lad con Roger McGuinn per alcuni dischi tributo.
Due soli album, dicevamo. Certo Joan non ha però perso il contatto con il pubblico grazie alle esibizioni live che più o meno regolarmente ha continuato a tenere, salvo interromperle per un certo periodo dopo la recente tragedia della morte della sorella Mimi.
La Baez live, a differenza di altri miti degli anni ‘60, non si fa problemi a riproporre i brani e – spesso – le versioni di un tempo, quelle che l’hanno consacrata come una delle icone più rappresentative dei Sixties. Comprese quelle più politiche, quelle più impegnate. “Le canzoni di protesta e le canzoni politiche non vanno mai fuori moda”, ha dichiarato citando Jerusalem di Steve Earle come una delle sue favorite del momento, una canzone che recita: “Verrà un giorno in cui il leone e l’agnello / Giaceranno accanto in pace”.
Oppure brani come We Shall Overcome e Amazing Grace. O il celebre hit di The Band, The Night They Drove Old Dixie Down. Oppure omaggi a un grande ‘antenato’ di Joan, con cui la Baez condivide l’attivismo e l’impegno sociale, il Woody Guthrie dei lavoratori emigranti della Grande Depressione di Deportees e quello del fuorilegge onesto Pretty Boy Floyd, ascoltate in concerti recenti.
Solo che oggi, dal palco, le alterna a sprezzanti commenti contro George W. Bush, come avvenuto nel recente concerto di Los Angeles. E naturalmente la canzone forse più famosa tra quelle scritte di proprio pugno dalla Baez, quella Diamonds And Rust che racconta, con un misto di nostalgia, amarezza e rimpianto, il rapporto di grande affetto che la legò a Bob Dylan.
Un rapporto che nel tempo si è trasformato in odio/amore, se è vero che in più di una occasione Joan non ha lesinato critiche talora maligne al suo “original vagabond” di un tempo, con il quale condivise la gloria e l’impegno sociale negli anni ‘60, il variopinto carrozzone degli zingari della Rolling Thunder Revue nei ‘70 e la fallimentare operazione nostalgia degli anni ‘80 nel tour Dylan/Baez/Santana… Ma quando sul palco il vibrato della sua voce ricattura la magia di brani come Don’t Think Twice, It’s All Right, Love Is Just A Four-Letter Word o Forever Young, i suoi occhi si illuminano di una luce diversa e nelle occasioni in cui ero in prima fila ai suoi recenti concerti non ho potuto fare a meno di notarlo.
Notare come quelle canzoni le cantasse con un diverso stato d’animo, sia pur con un distacco formale nella presentazione, quasi a esorcizzare il fantasma del suo compagno di un tempo (un asettico e generico “And now a Dylan’s song”). Ma, quando partono le prime note delle canzone e quelle prime parole (“It ain’t no use to sit and wonder why, babe…”), tutti tra il pubblico si rendono conto che si tratta di qualcosa di speciale per lei, e lei stessa in un certo senso lo ‘confessa’ quando nella strofa finale del brano, come sempre, modifica la propria voce trasformandola in quella nasale e inconfondibile di Dylan, mentre il pubblico esplode in un applauso entusiasta.
L’attività concertistica vede dunque la Baez ancora tenacemente attiva, anche se per un certo periodo in tempi recenti ha alternato a essa anche recital teatrali. Già, perché Joan Baez si è data anche al teatro. In passato la sua attività di attrice era stata piuttosto limitata. L’avevamo vista nel film Renaldo And Clava accanto al ‘suo’ Bob/Renaldo, in un surreale triangolo amoroso con Dylan e la moglie Sara. Interpretava tre ruoli, quello della Donna in Bianco, quello di una prostituta messicana e quello’di se stessa.
A parte una fugace partecipazione al Muppet Show niente altro da segnalare. Invece nel 2001 Norm Langill, direttore artistico dello show Teatro ZinZanni – Love, Chaos & Dinner, presso l’Embarcadero di San Francisco, l’ha voluta nel cast della rappresentazione nei panni della Contessa ZinZanni, proprietaria e locandiera canterina del pazzo cabaret, un ruolo che è stato studiato e creato appositamente per lei. Langill ha dichiarato che questa esperienza è qualcosa di completamente nuovo per la Baez.
“È un’attrice assolutamente creativa per sua stessa natura”, ha dichiarato, “e con un gran senso dell’umorismo, oltre che una poetessa con il cuore di una chanteuse da cabaret.” E in questo suo nuovo ruolo la Baez ha già ottenuto ottimi risultati tanto che nei 2003 ha ripreso a recitare nei panni della Contessa, in questo spettacolo che mischia cabaret, musica, commedia e grottesco.
Ma naturalmente Joan non ha dimenticato di essere soprattutto una grande interprete della canzone: ed eccola quindi nuovamente in studio per incidere il suo primo album da sei anni a questa parte, sinistramente intitolato Dark Chords On A Big Guitar (‘Accordi scuri su una grande chitarra’, Koch Records), in uscita il prossimo 9 settembre, in cui, con la produzione dì Mark Spector, interpreta dieci brani di famosi songwriter contemporanei come Steve Earle, Gillian Welch e David Rawlings, Ryan Adams, Natalie Merchant e Greg Brown, tra gli altri.
Una scelta, quella di interpretare brani altrui, che sembra ormai definitiva per Joan, che dichiarò in un’intervista tempo fa: “Non intendo più impegnarmi nella composizione. Mi ritengo essenzialmente un’interprete, non una scrittrice. Preferisco dedicarmi alla poesia, alla pittura e alla danza e lasciare che il mio manager cerchi i brani più belli nel repertorio di altri musicisti e scopra dei giovani autori disposti a cedermi le loro canzoni”.
Perché la scelta di questo titolo così particolare per il nuovo album? Si tratta di una frase estrapolata dal brano Rexroth’s Daughter, presente nell’album. Ma perché proprio quella? Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che la ‘grande chitarra’, cui si fa riferimento, sia il mondo, con un rimando all’immagine della copertina della Anthology Of American Folk Music di Harry Smith in cui le mani di Dio accordano il mondo come fosse un grande strumento musicale.
Quanto alla parola ‘dark’ (scuro, triste) è una di quelle che la Baez ha più spesso utilizzato nelle interviste recenti a proposito del clima politico e sociale di questi tempi, negli Stati Uniti e nel mondo (con un polemico riferimento anche all’Italia, in relazione al suo rifiuto di esibirsi nel nostro Paese: “In Italia c’è la destra”, ha spiegato, “e io non canto in un Paese dove c’è la destra”).
Spesso si è svegliata nel cuore della notte all’interno del suo tour bus, addolorata per le vittime della guerra in Iraq. “Per la gente”, ha dichiarato mestamente, “ma specialmente per i bambini, i soldati, gli animali…” Un dolore particolarmente sentito da Joan, che quand’era bambina ha vissuto proprio a Baghdad. Cosa prova Joan Baez per questa situazione mondiale da ‘dark chords’? “Soprattutto tristezza… e in secondo luogo paura”, ha dichiarato a un quotidiano di Duluth.
Da qui la sua idea di leggere in tour una trascrizione di una conversazione tra il presidente americano Nixon e il segretario di stato Henry Kissinger in cui Nixon dichiara che non gli importa della perdita di vite civili in tempo di guerra. Dunque i ‘tristi accordi’ del titolo potrebbero davvero essere riferiti alla cupa e preoccupante situazione attuale del mondo (la ‘big guitar’).
Anche se Joan, restando un po’ sulle sue, ha dichiarato: “Non credo che sia stato usato di proposito quel termine, ma noi riflettiamo sempre i tempi… È molto triste… Probabilmente è l’album più triste che io abbia mai fatto”. E a rincarare la dose: “Non ho mai visto un orizzonte così lugubre in tutta la mia vita. Talmente vicino al disastro totale che è difficile anche solo pensarci”.
Tra le canzoni del nuovo album, alcune delle quali proposte in anteprima da Joan nell’attuale tour, c’è anche un brano della cantautrice Caitlin Cary, dal titolo Rosemary Moore, che analizza i sentimenti di tristezza e di rabbia, mescolati allo stesso tempo al sollievo, di una donna che ha perduto suo marito dopo una lunga malattia. “Perché stai ancora piangendo?”, recita il brano. “Pensa che ora sei libera, Rosemary Moore.” La protagonista del brano è una persona reale, la zia di Caitlin, che aveva perduto il marito, morto per il morbo di Parkinson. La canzone si focalizza sull’inquietante ma umano pensiero per cui “Grazie a Dio tuo marito è morto”.
Una morte misericordiosa che pone fine a una sofferenza indicibile. La resa di Joan Baez di questo brano è molto d’atmosfera. E potrebbe non essere casuale la scelta di Joan di interpretare questa canzone, viste le analogie con quanto accaduto di recente alla cantautrice, che nel 2001 ha visto morire dopo una lunga malattia l’amata sorella minore Mimi, uccisa dal cancro.
In un’altra canzone, la cupa Motherland di Natalie Merchant, Joan canta: “Dove diavolo puoi andare / Lontano dai posti che conosci / Lontano dalla distesa del cemento / Che continua a farsi strada, mille miglia al giorno”. Elvis Presley Blues è una canzone che parla in qualche modo della notte in cui Elvis morì, una sorta di commemorazione dalla struttura semplice ma ingegnosa. Christmas In Washington è invece una canzone di protesta (di Steve Earle) trasformata in una preghiera. “Come back Woody Guthrie, Emma Goldman, Martin Luther King”, canta Joan, auspicando il ritorno degli eroi e dei valori del passato: “Ritornate Woody Guthrie, Emma Goldman, Martin Luther King… / Ritoma Malcolm X, risorgi Joe Hill”, invoca, “Ritorna Woody Guthrie, ritorna da noi ora / Ho seguito le tue orme durante il mio viaggio / Non sono riuscita a trovare la tua pista.”
Una preghiera a coloro che l’hanno ispirata quando, ancora ragazzina, fece dei valori della folk music la bandiera della propria vita artistica. Coerenza, scrivevamo all’inizio. La stessa che ha fatto dichiarare di recente a Joan Baez di essere pronta a “riversare di nuovo le mie energie nei cambiamenti politici e sociali”. La stessa che le fa cantare ancora: “Oh deep in my heart, I really do believe, that we shall overcome someday!”. A San Francisco, oggi, come a Washington, 40 anni fa.
Michele Murino, fonte JAM n. 96, 2003