Joan Baez

Un disco di Joan Baez interamente composto di cover (senza, cioè, nessun brano autografo) non lo si vedeva probabilmente dalla fine degli anni ‘60. D’altro canto la Baez nasce come interprete e solo in un secondo tempo, spinta da Bob Dylan, comincia a comporre brani autografi. La scelta degli autori da ‘coprire’ per il suo nuovo disco, Joan la compie in modo ammirabile, portando alla ribalta musicisti di culto ma largamente sconosciuti al grande pubblico, non solo in Italia ma anche in America. Ed è anche una scelta ‘generazionale’, perché si tratta di songwriter dell’ultima leva, del cosiddetto terzo folk revival, quello cominciato nei primi anni ‘90 (con l’eccezione, naturalmente, di Steve Earle). Dunque una sorta di tributo ai suoi ‘nipotini’ adottivi.

Tra questi Greg Brown, considerato da molti il più significativo folksinger dell’ultima generazione: autore ‘scuro’ e drammatico, dotato di una splendida voce alla Johnny Cash, Brown è qui raccontato attraverso Sleeper (da Dream Cafe del ’92) e con l’affascinante Rexroth’s Daugbter, da Covenant del 2000.
Naturalmente non poteva mancare quella che molti considerano la Joan Baez del terzo millennio, e cioè Gillian Welch, con Caleb Meyer, traccia di apertura di Hell Among The Yearlings (del ’98) ed Elvis Presley Blues (da Time (The Revelator) del 2001). Quindi la bellissima Motherland, affranta dedica di Natalie Merchant all’America, dall’album omonimo del 2001.

Ha decisamente buon gusto e orecchie aperte, Joan: sceglie anche il controverso Ryan Adams, però dal suo bellissimo disco del 2000 Heartbreaker, di cui incide la dolcissima In My Time Of Need. Devono decisamente piacerle i Whiskeytown, perché oltre a quello di Adams, incide un brano di Caitlin Cary, anch’ella ex Whiskeytown, la straziante Rosemary Moore (inclusa nell’EP di esordio del 2000, Waltzie). È la volta di Wings, dell’oscuro (ma apprezzato: ha aperto anche per Bob Dylan) Josh Ritter, songwriter dell’ldaho: il brano è sull’esordio omonimo del 2000.
Concludono il disco due nomi eccellenti: il primo è quello del geniale Joe Henry, di cui incide King’s Highway (da Short Man’s Room del ’92). Il secondo è Steve Earle, il più politicizzato songwriter d’America, di cui riprende, ovviamente, il tributo a Woody Guthrie e all’America che non c’è più, con la splendida Christmas In Washington.

Paolo Vites, fonte JAM n. 96, 2003

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