Ancora una volta è riaffiorata nella nostra mente quella considerazione che ha ormai assunto le caratteristiche di vero e proprio tormentone, quel pensiero che puntuale torna automatico quasi ogni volta che in Italia partecipiamo ad un concerto di un grande artista che opera in un campo musicale (uno dei tanti) quaggiù scarsamente popolare… “Quant’è triste essere così pochi a condividere il piacere di assistere ad un’eccezionale esibizione di un’eccezionale artista come questo”.
Quante volte ce lo siamo ripetuto? Troppe, considerato il fatto che conosciamo bene il motivo per cui le cose nel nostro paese stanno così.
Eppure anche questa volta, all’uscita del teatrino che ha ospitato John Jorgenson & Band, numerose persone, visibilmente rimbambite da un paio d’ore di musica meravigliosa suonata ad alto volume, cercavano solidarietà a causa di un senso di quasi solitudine che li aveva assaliti. Un musicista di tale levatura, accompagnato da un trio affiatato, grintoso e compatto come quello che lo aveva sostenuto, un artista in grado di spaziare, a 360°, in un panorama musicale non solo americano, con una disinvoltura a dir poco sbalorditiva, anziché in qualche megapalasport di una grande città, quella fresca sera del 21 febbraio ha suonato sul palco di un teatrino di 200 posti, in una località di provincia dalle parti di Carpi!!
Già successo mille altre volte, direte voi, che un grande artista richiami poco pubblico, ma qui il paradosso è ancora più evidente: questo ragazzone ha suonato per e con personaggi di fama internazionale, gente che qualsiasi cosa decida di registrare l’ha già venduta nell’ordine di qualche milione di copie. E non solo: bisogna sottolineare che non si tratta di un artista che esegue musica andina oppure old time, suona ROCK, e tutto ciò che ha fatto su quel piccolo rovente palco siamo pronti a scommettere che sarebbe piaciuto a chiunque ascolti musica pop, giovane o anziano che sia.
Il piccolo teatro, dalle fattezze classiche con tanto di balconcini tipo Teatro alla Scala, doveva avere una buona acustica, ma non ce ne siamo accorti perché l’impianto era così potente e diretto e con un volume così sostenuto da non dover contare sull’acustica del locale. Il mixer era stato maneggiato da un bravo tecnico e il suono era davvero ottimo. Le poltroncine erano occupate da una quantità tale di musicisti da essere in percentuale maggioritaria rispetto al totale delle persone presenti, molte delle quali giunte da lontano.
C’erano i Country Rush al completo, i Dobro, parte degli Young Country con un Claudio Bazzari a scambiare battute con Dody Battaglia dei Pooh, c’era l’amico Daniele ‘steel’ Sironi, Marco ‘mandolin’ Rosini, il chitarrista di Grancesco De Gregori e, naturalmente, Luca Olivieri che lo scorso anno ha capitanato la band italiana che accompagnava Jorgenson. Questi quelli che abbiamo riconosciuto…
Alla destra di John, sul palco, Jeff Rose alla tastiera e chitarra, bravissimo anche ai cori e come voce solista in un brano. Alla sua sinistra Alan Thompson, al basso, ha suonato con i Pentangle e con l’ex Police Andy Summers. Dietro, un giovane batterista scozzese già di buona esperienza (ha recentemente collaborato con Ian Andersen dei Jethro Tull), Jason Smith, che all’ultimo momento ha sostituito il previsto Charlie Morgan, dimostrando incertezze solo in rarissime occasioni.
Il concerto è partito con un paio di strumentali ad effetto, difficilmente definibili se si vogliono utilizzare le etichette più comuni, brani in cui usciva l’anima più eclettica di un artista che nella sua carriera ha voluto approfondire la conoscenza di stili molto diversi. Nonostante il nostro abbia suonato di tutto con tutti, come ha voluto sottolineare nella presentazione l’organizzatore Roberto Campovecchi, in Italia John Jorgenson è famoso soltanto al folto (ehm…) pubblico country, e questo è subito stato premiato da una She Don’t Love Nobody di John Hiatt che la Desert Rose Band aveva inserito nel secondo album Running.
Il resto della serata ha visto il susseguirsi di brani di diversa provenienza, il folk rock dei Byrds, il pop dei Beatles, il bluegrass di Jesusalem Ridge e Doin’ My Time, il country rock di Back To Terraferma, gli Shadows di Apache, il jazz acustico di Django Reihardt, che già ci aveva fatto ascoltare con l’album After You’ve Gone… Blues, rock, folk, country, surf, bluegrass, jazz, pop, fino all’apoteosi: una conclusiva Orange Blossom Special che si è rivelata quasi un pretesto per suonare ancora di tutto e di più, mille veloci, simpatiche e improvvisate citazioni che hanno mandato in orbita il già eccitatissimo pubblico (e qui la signora ultrasessantenne seduta vicino a noi, sempre più visibilmente entusiasta, raggiunge un livello di euforia degno di una teenager scalpitante).
La serata doveva finire così, storditi da un treno in folle corsa. Invece il pubblico lo richiama sul palco, e lui, simpaticissimo, decide di mandarlo a letto con una ninna nanna, che però dopo 30 secondi si trasforma nella spassosissima, tiratissima Hippy Hippy Shake degli Swinging Blue Jeans. Che serata, ragazzi. Indimenticabile.
Maurizio Faulisi, fonte Country Store n. 66, 2003