Johnson Mountain Boys

Oltre alla ineludibile domanda esistenziale che affligge tutta l’umanità (la ricordo per i distratti e i superficiali: “Che mondo sarebbe senza Nutella”), c’è un altro dubbio amletico che ossessiona il vostro umile critico: dovendo parlare di un gruppo bluegrass, deve egli rivolgersi all’eletto ma sparuto gruppo di appassionati o non deve piuttosto tentare, rinunciando ad un certo esoterismo e allo sfoggio di informazioni puntigliose, di raggiungere le moltitudini ignare, diffondendo la buona novella agli innumerevoli incolti, in quanto metallari, fanatici del liscio o, peggio, ascoltatori di ‘San Remo’? Dopo lunga meditazione, il vostro ha deciso, come direbbe ‘Querelo’, per la seconda.

Il fatto è che l’argomento di cui dobbiamo trattare è una band poco ortodossa: i Johnson Mountain Boys. Poco ortodossa perché ha incarnato (il passato è d’obbligo in quanto il gruppo si è sciolto ufficialmente il 20 Febbraio 1988, anche se nel 1993 ha inaspettatamente pubblicato un disco ‘reunion’, Blue Diamond, peraltro di rara bellezza) caratteristiche che non esito a definire controcorrente. I JMB, provenienti principalmente dalla Montgomery County nel Maryland, assai vicina a Washington, DC, che è l’area più affollata di bluegrassari nel nord degli States, nacquero come duo nel 1975. I due componenti erano Dudley Connell, leader indiscusso della band, cantante dalla voce inconfondibile e dotata di quell”high lonesome sound’ che la mette senza dubbi al livello dei grandi del genere, e Ron Welch che uscì però ben presto di scena.

Dudley, nato in West Virginia ma trapiantato nel Maryland, vocalmente aveva il suo modello in Carter Stanley, e strumentalmente, essendo il chitarrista della band, in Clarence White, soprattutto dal punto di vista ritmico. Probabilmente è per la voce di Dudley, fortemente ancorata alla tradizione, al bluegrass più puro, che i JMB si sono guadagnati l’etichetta di ‘new traditionalists’.

Contrariamente, infatti, ai gruppi ‘Washington based’, i quali hanno un repertorio eminentemente contemporaneo, i Johnsons non solo cercano materiale tradizionale ma soprattutto canzoni poco conosciute e raramente registrate. Sul loro primo folgorante album del 1981, ad esempio, c’è una Darling, Do You Know Loves You ripresa da un nastro amatoriale di un concerto live degli Stanley Bros.. E credo anche che non siano molti gli appassionati di Flatt & Scruggs che conoscono la loro Iron Curtain riproposta dai Boys sul loro primo disco. Non ci sono né Foggy Mt. BreakdownBlue Moon Of Kentucky o altri noti standards nei dischi di JMB; una scelta coraggiosa e un po’ impopolare. E se di tanto in tanto presentano pezzi più famosi, li riarrangiano alla loro maniera al punto tale che non c’è ombra di deja vu e la cover è assolutamente giustificata dalla nuova confezione.

Non mancano i brani originali, composti principalmente da Connell con impeccabile gusto. Nel primo disco emerge anche la statura di Richard Underwood, il banjoista che, pur scevro da virtuosismi e dalla moda del tempo delle interminabili scale cromatiche, garantisce un ritmo torrido e vibrante, un genuino e fluido Scruggs style e un backup personale e convincente. In più, nei duetti, Richard passava al lead mentre Dudley ‘saliva’ al tenor, la voce più acuta, con un effetto di grande compattezza. Solo successivamente Richard verrà sostituito nientemeno che da Tom Adams, due volte nominato ‘Banjoista dell’anno’ dalla International Bluegrass Music Association.

Prima di entrare nei Johnsons, Adams aveva suonato due anni con il ‘padre’ Jimmy Martin: mica male come credenziale! Ora Tom suona nella Lynn Morris Band, di cui fa parte anche il mandolinista David McLaughlin, anche lui a lungo nei JMB, dopo aver preso il posto del pur bravo Ed D’Zmura. David, oltre a suonare con precisione metronomica il suo mandolino, si unisce a Dudley nei duets vocali, prendendo il ruolo che fu di Richard Underwood. Tom Adams con Lynn Morris si è visto nel 1996 al Correggio Country Festival; dico ‘visto’ perché purtroppo nel tendone che ospitava lo show il trambusto era tale che non si è sentita una sola nota (se organizzate concerti acustici, prego un po’ di rispetto per chi suona e ascolta! N.d.R.).

Nella Lynn Morris Band c’è pure (si è sposato la titolare) il bassista, cantante e compositore Marshall Wilborn, anche lui ex JMB e, come Adams, ex membro dei Sunny Mt. Boys di Jimmy Martin. Wilborn sostituì il primo bassista, Larry Robbins, che era rimasto a lungo nel gruppo. La presenza contemporanea di David, Marshall e Tom nella band ha portato sostanziali cambi di timing e dell’impasto vocale, come si può sentire confrontando il primo disco, in cui essi non erano presenti, con ad esempio, l’album At The Old Schoolhouse che documenta il concerto d’addio. Ultimo, ma non meno importante, membro è il fiddler Eddie Stubbs. Eddie oltre a suonare con un personalissimo stile (fa ampio uso di ‘double stops’, cioè suona due note diverse contemporaneamente, ottenendo un’armonia là dove gli altri fanno solo melodia) ha un imperdibile voce ‘werstern swing’: il suo cavallo di battaglia è il dolcissimo Waltz Across Texas. Nei trios Eddie aggiunge alle armonie di Dudley e David il suo baritono.

Al momento di incidere il loro primo disco, i JMB erano relativamente sconosciuti ma certamente non sprovveduti. Avevano lavorato duro per anni e si erano fatti le ossa negli honky-tonks, i locali dove, alla fine della giornata, gli operai e i lavoratori in genere andavano a bere e a rilassarsi, magari con qualche allegra scazzottata (ricordate quella scena nel film Blues Brothers dove la band suona dietro una grata per ripararsi dal lancio di bottiglie e suppellettili varie? beh, quello è un honky-tonk!). Poiché spesso suonavano più sere nello stesso locale, i JMB avevano diversi set (fino a 16!) pronti per il pubblico. Se mai una bluegrass band può essere paragonata ai nostrani Nomadi, questi sono i Johnson Mt.Boys (l’accostamento non risulti irriverente). Spesso capitò che dovessero esibirsi al Sud, lá dove il bluegrass era nato. Al Sud li consideravano troppo ‘settentrionali’ mentre al Nord il loro stile tradizionalista era ritenuto troppo… meridionale. Ci volle del bello e del buono, grande classe e una lunga gavetta per convincere tutti della qualità della loro musica.

Il brano più famoso del gruppo, quello che diede loro il successo commerciale e la fama definitivamente, fu Let The Whole World Talk, tratto dall’omonimo album del 1987. Il gradimento ottenuto da quella canzone portò il bluegrass ad un’audience più ampia e rese i nostri Boys ben accetti anche a chi, pur amando il genere, non gradiva il taglio troppo tradizionalista della band. Furono chiamati ad esibirsi perfino alla Casa Bianca. Abbastanza stranamente, però, nemmeno in questo caso essi riuscirono a sfondare nel medium più potente per la diffusione della loro musica: la televisione country di Nashville. Essi comunque non cambiarono la loro onestà musicale e continuarono a proporre bluegrass sincero e di classe.

Dopo il primo album, nel 1982 incisero Walls Of Time, l’anno dopo Working Close e nel 1984 un bellissimo Live At Birchmere che contiene due straordinari strumentali, Sugarloaf Mt. Special e Georgia Stomp, entrambi proposti come ‘Best country instrumental’ per il premio Grammy. Nel 1985 fu la volta di un classico disco di gospel, genere in cui eccellono per la bravura vocale, We’ll Still Sing On.

Va detto che gospels straordinari sono sparsi un po’ ovunque nelle loro produzioni. Ultimo disco in studio, pensato per accontentare i desideri dei fans, che furono addirittura consultati con un sondaggio per definire la scaletta, fu Requests, che come dice il titolo, contiene i brani più richiesti ai concerti (altra analogia con il gruppo del non dimenticato Augusto). Infine il già citato disco d’addio, dal vivo, At The Old Schoolhouse: ascoltate il folgorante inizio dello show con Black Mt. Blues e capirete lo sconcerto che provocò l’annuncio del loro scioglimento. Per ridurre l’impatto della ferale notizia, la Rounder pubblicò Favorites, una sorta di greatest hits, che però non può certo bastare per chi ama questa band. Con Blue Diamond, i JMB si riformano pressoché al completo ma il passato non ritorna: il disco è bello, anzi bellissimo, ma più… moderno nel sound e nei contenuti. C’è perfino, udite udite, un brano di Dylan, Only A Hobo e questo non è proprio usuale per la nostra band.

I ragazzi però sono sempre in ottima forma, anche perché, ognuno per suo conto, hanno continuato a fare musica con i grandi del genere. I JMB hanno raccolto l’eredità di Bill Monroe e degli Stanley Bros., i più puri dei ‘padri fondatori’ del bluegrass e l’hanno trasmessa alle nuove generazioni senza intaccarne l’essenza, il cuore pulsante, pur ridando smalto alla superfìcie che il tempo aveva appannato. Dovendoli avvicinare ad altri, pensiamo a Del McCoury o alla Nashville Bluegrass Band piuttosto che ai Seldom Scene o a J.D. Crowe. Ci sono gruppi che nel bluegrass hanno trapiantato Bob Marley o Eric Clapton e questo va bene, se fatto con convinzione; ma i Johnsons hanno preferito non distaccarsi dalle radici, anzi scavare in profondità per comprenderne meglio la valenza. E hanno scritto un capitolo imprescindibile nella storia di questa meravigliosa musica che è il bluegrass; se la amate, non perdeteveli. Suonano ogni nota che sentono e sentono ogni nota che suonano.

Maurizio Angelo, fonte Out Of Time n. 22, 1997

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