k. d. lang: Born to sing, Questo potrebbe essere il titolo della serata. Perché, se è vero che siamo stati mandati sulla terra con uno scopo, allora significa che il buon Dio ha creato Kathrine Dawn Lang con lo scopo di cantare.
Non ci sono dubbi: che vi piacciano o meno le scelte artistiche dell’androgina k.d., che possiate condividere il suo (non sempre azzeccato) repertorio di vecchi o nuovi standard, non potete fare a meno di inchinarvi di fronte alla talentuosa ugola, alla emozionante espressività, alla tecnica sopraffina e alle convincenti interpretazioni della ragazza dell’Alberta.
Che, dal vivo, è ancora più sbalorditiva che su disco.
Quando sale sul palco del Manzoni (con piedi scalzi e abito tibetano di dubbio gusto) Miss k. d. lang è accolta da lunga e calorosa standing ovation. Giusto il tempo di iniziare ed è già magia: la sua voce, dal pitch precisissimo, si eleva delicata ma ficcante su un morbido, raffinatissimo tappeto semiacustico fornito dal suo accompagnatore di sempre (il pianista/arrangiatore Teddy Borowiecki), dal prodigioso chitarrista Greg Leisz (“Il musicista che ha saputo sdoganare la slide dal ghetto della musica country”), dal solido contrabbassista David Piltch e dall’eccentrico ma stilosissimo drummer Danny Frankel (già al fianco di Rickie Lee Jones).
Con sapiente mix di vecchi classici reinterpretati benissimo, come l’emozionante Cryìn’ (ricordate il leggendario duetto con Roy Orbison?), la coinvolgente Constant Craving (“È ora che vi faccia una medley delle mie grandi hit” ha detto in modo autoironico presentando il suo unico brano da classifica) o la spensierata Miss Chatelaine, e brani tratti dal suo incantevole ultimo album Hymns Of The 49th Parallel (dedicato ai songwriter canadesi), k. d. lang riesce ad affascinare tutti: fan (gay e non), abbonati della bella rassegna milanese Aperitivo in Concerto, critici severi, semplici curiosi.
Bravissima nell’interpretazione dei pezzi della sua amica Jane Siberry, la lang è addirittura commovente quando canta Helpless (Neil Young), Bird On A Wire e Hallelujah (Leonard Cohen). Richiamata sul palco a gran voce, k.d. offre nei bis un tributo al suo idolo Patsy Cline (Three Cigarettes In An Ashtray) e al recente sodalizio con Tony Bennett (My Imagination).
Superba e incantevole, k. d. lang dimostra di essere, al pari di Linda Ronstadt e Sinéad O’Connor, la cantante più brava, espressiva e convincente degli ultimi dieci anni.
Parola di k. d.
Ha 43 anni e non li dimostra.
“Sono sempre la stessa”, dice, “lesbica, vegetariana, buddista.” Miss Lang, serena e disponibile (“Sono felice: sto vivendo un bellissimo periodo della mia vita artistica e personale”) conversa amabilmente prima della sua performance serale, unica data italiana di una tournée europea che l’ha gratificata moltissimo. “Sento l’Europa, in quanto a spirito e cultura, assai vicina al Canada: siamo entrambi orientati al sociale e al pacifismo. E questo mi piace. Continuo a tenere una casa in Canada, anche se passo la maggior parte del mio tempo a Los Angeles. Ma, questa è solo una delle mie tante contraddizioni.”
Il Canada è argomento inevitabile dato che il più recente sforzo discografico di k. d., Hymns Of The 49th Parallel (album per altro bellissimo, vedi JAM 108), è interamente dedicato alle più affascinanti composizioni di songwriter che stanno “oltre il 49° parallelo, quello che segna il confine tra USA e Canada”, spiega, “e che, nel linguaggio comune degli americani, identifica noi canadesi. Ho scelto brani che incarnano lo spirito della mia terra, soprattutto la natura e l’ambiente. Il Canada è uno Stato enorme in cui la natura ha un impatto assoluto sulle vite di tutti noi abitanti. Spesso le temperature sono rigide e costringono molti di noi all’isolamento: ecco perché, credo, si è sviluppato da sempre nella nostra nazione un’attitudine all’introspezione. La canzone d’autore, riflessiva e intimista, in questo senso si è rivelata mezzo di espressione ideale. Unita a una sensibilità ambientale, ha prodotto capolavori assoluti come i brani di Neil Young, Joni Mitchell, Leonard Cohen”.
Una curiosità: nessuno degli artisti citati le ha fatto avere impressioni specifiche. “A parte Jane Siberry, che è una mia amica. Ma dai, è normale”, minimizza k.d., “stiamo parlando di leggende della musica. Ogni giorno, in America e nel mondo, c’è qualcuno che incide una cover di Joni Mitchell o Neil Young, non posso certo pretendere che rispondano a tutti… ma io sono molto soddisfatta di questo progetto che, artisticamente, si lega al songbook americano interpretato nel corso del mio tour con Tony Bennet.”
Acuta e intelligente, k.d. non si presta a banalizzazioni dì argomenti importanti come l’omosessualità (“Mi ha portato sulla copertina di Vanity Fair con Cindy Crawford, ma ha generato anche un sacco di problemi”), il futuro dell’industria discografica, musica e Internet o peggio ancora la politica internazionale degli Usa.
Preferisce parlare di musica. Condividere il pensiero di chi (Mike Myers) sostiene che A Case Of You di Joni Mitchell è brano talmente bello e significativo da meritare di essere il nuovo inno canadese” o promettere a tutti i suoi appassionati della prima ora (quorum ego) che “prima della fine della mia carriera, inciderò nuovamente un album di country music”.
Ezio Guaitamacchi, fonte JAM n. 110, 2004