Una cosa che da sempre mi affascina e mi stupisce è toccare o vedere o ascoltare, a volte, persone che esprimono una bellezza quasi ‘assoluta’ con un linguaggio diretto, semplice, quasi oggettivo, che tutti possono cogliere senza bisogno di riferimenti culturali o premesse di altro tipo; e tutto ciò per una bellezza ‘evidente’, naturalmente valida per tutti, miracolosamente oggettiva, per una armonia musicale che sembra scavare ed affondare le proprie radici in una sorta di ‘armonia-delle-cose’, del mondo, che non è da inventare ma è qui, nell’aria, ed è solo da cogliere.
Ed è questo il caso, credo, di Leo Kottke: se si ascoltano alcuni stralci della sua musica è possibile ritrovare una sintesi perfetta di tanti elementi, avente come risultato quella ‘bellezza’ di cui parlavo prima. Una musica sconosciuta, originale, ‘nuova’, che pure sembra rispolverare e tirare fuori dalla nevrosi quanto di armonico c’è nell’ordine dell’Universo, una ‘bravura’ che sa combinare ed equilibrare senza sforzo le proprie componenti, unendo una perizia strumentale travolgente a una sorta di continua ‘motivazione estetica’.
A volte la musica di Kottke provoca la sensazione del deja-vu, sembra puntualizzare semplicemente qualcosa di già incontrato, sembra raccontare di storie passate e vissute, di esperienze consumate tempo addietro e quindi riesumate e celebrate; ma poi, guardando meglio e scavando all’indietro, c’è un vuoto e ci si rende conto che tutto questo lavoro che apparentemente sembra naturale e ovvio, già incontrato e conosciuto, è assolutamente nuovo, ed è solo un magico merito dell’artista quello di aver saputo ripescare chissà cosa dalla nostra memoria, da ricordi forse mai esistiti.
Leo Kottke è il campione di una razza di americani acustici in via di estinzione, che ha sempre sfidato le classificazioni facili o le trascrizioni nota-per-nota, con un approccio allo strumento – la chitarra – ed alla musica in genere, paradossale ed inusuale, disarticolato e sfuggente. Di questa stirpe di chitarristi, tutti motivati ed originati dalle prime pagine scritte da quell’incantatore di serpenti che è John Fahey, Kottke è senza dubbio il più grande risultato, non tanto o non solo semplicisticamente da un punto di vista strumentale ma soprattutto a livello espressivo, un livello che come si sa abbraccia qualsiasi aspetto del comporre, organizzare ed eseguire musica.
Tom Murtha del Minneapolis Star ha scritto di lui: “Le dita di Kottke toccano sempre in qualche modo la logica implicita nella tastiera della chitarra. Le sue melodie imprevedibili estraggono dallo strumento una verità che ogni chitarrista ha sempre saputo fosse lì senza essere mai riuscito a determinarla egli stesso. Le note sono nella mente, poi ritornano all’ascoltatore quando meno se le aspetta… ecco perché così tanti ascoltatori che sentono la musica di Kottke per la prima volta hanno la sensazione di essere arrivati alla fine di una lunga ricerca”.
Parole vere e giuste, che pure evidenziano solo l’aspetto quasi mistico della creatività del chitarrista del Mid-West non rivelando inevitabilmente tutti quegli aspetti più concreti e a volte meno romantici che comunque completano il quadro esistenziale dell’artista.
Proprio in questo senso e per questi aspetti l’inizio della storia musicale di Kottke è forse ancora più romantico e affascinante: dopo aver vissuto in una miriade di Stati tra i più lontani e diversi, aver tentato di suonare il banjo e il trombone, nella seconda metà dei sixties Kottke entra in possesso di una Gibson B-45 12 corde (“la più grande chitarra della mia vita, senza la quale non sarebbe successo niente di tutto ciò”), tenta di imparare i primi accordi decenti dai dischi di Pete Seeger e Fred Gerlach, poi spedisce un nastro a John Fahey.
Passeranno due anni prima che il celebre collezionista di tartarughe gli spedisca un contratto discografico che Kottke accetta incredulo e felice: così, senza che i due si siano ancora incontrati di persona, nasce 6 & 12 String Guitar, l’atto d’amore con cui Fahey ha creduto, unico ai tempi, nella ‘bravura’ senza paragoni di Kottke.
Un altro album, prodotto dall’etichetta fantasma Oblivion con una tiratura di 1.000 copie e registrato dal vivo allo ‘Scholar’ di Minneapolis, era uscito nel 1968, realizzato nel peggiore dei modi (la voce in un canale e la chitarra nell’altro); riascoltarlo oggi è in qualche modo un’esperienza che fa un po’ sorridere nel sentire un chitarrista che sforza la propria voce fino a note irraggiungibili e suona in modo freneticamente veloce.
Sembra quasi impossibile che il lavoro successivo sia proprio 6 & 12, catalogo strumentale stupefacente ed album che veramente segna un’epoca, con un capolavoro dietro l’altro e la musica che si srotola con facilità, densa di emozioni e colori: ci credereste che questo disco è stato inciso in sole 3 ore e che l’ordine dei brani sul disco è lo stesso in cui sono stati eseguiti e registrati? Non sembra possibile, e invece è andata proprio così.
E’ in periodo epico dell’inizio del successo del chitarrista e quello creativo e fecondo malgrado una povertà economica spaventosa, ricco di esperienze umanamente contraddittorie: un lavoro per la Takoma come impacchettatore di dischi, lunghi viaggi con Fahey e con le sue contorte filosofie, concerti insieme, poi il furto di quella mitica chitarra che causa esibizioni catastrofiche senza uno strumento adeguato e un mare di depressione.
Si è soliti considerare questo periodo di Kottke come il suo ‘migliore’, quello rappresentato cioè da dischi come Circle ‘Round The Sun, Mudlark, Greenhouse, My Feet Are Smiling e, ancora, nessuno potrebbe mai credere ai racconti del chitarrista riguardo la realizzazione di questi dischi, contorta, difficile, insoddisfacente. Tuttavia, per un curioso scherzo di entità misteriose capaci di imporsi malgrado le intenzioni del protagonista, questo periodo e questi dischi realmente producono quasi solo magie.
L’immagine è quella di un chitarrista istintivo ed esuberante, come mostrano episodi spericolati come Vaseline Machine Gun, Busted Bycicle, Coodlidge Rising, Jack Fig, Last Steam Engine Train, Bean Time, Blue Dot, Living In The Country, capace comunque di abbinare alla carica esecutiva uno spontaneo senso lirico onnipresente tanto nei brani veloci che in quelli lenti e pacati. Proprio in questi aleggia la lezione di Fahey, in brani spaventosamente belli come Crow River Waltz, The Tennessee Toad, Easter & The Sargasso Sea, Owls, Ojo, The Sailor’s Grave On The Prairie ed altri.
L’uso della 12 corde aggiunge una dinamica terrificante ed incomprensibile per tutti quelli che, tablature alla mano, cercano in quegli anni di ‘imparare il fingerpicking’: la facilità e scorrevolezza dell’ascolto si accompagna ad una impossibilità a decifrare e riportare sul proprio strumento quei brani, a riprova della grande originalità e genialità dello stile di Kottke.
Gli anni ruggenti della guitar-music e tutti i suoi multiformi prodotti sono passati, pure questi dischi sono tra i pochi a restare validi e significativi all’ascolto, proprio per la musica che riportano.
Il chitarrista prova una volta per sempre di essere il più grande ‘discepolo’ di Fahey, grande fino a superare il maestro, quasi negando, una per una, le tesi del guru chitarristico e scegliendo una propria strada distinta e talvolta antitetica: niente ‘dissonanze’ nella musica e nel linguaggio, niente speculazioni sul ‘senso’ da dare alle proprie azioni, niente scelte meticolose e testarde su ogni frammento di musica utilizzato per rappresentare la propria ‘weltanschauung’, nessuna aspirazione raga. Al posto di tutto ciò pura ‘American music’, ancorata a forme a volte quasi contraddittorie come possono essere Charles Ives e la country music di Nashville.
Prendiamo, come esempio, proprio i brani che Kottke ha ripreso dal repertorio dell’ipotetico maestro: Poor Boy sembra spostarsi dalla terra bruciata del Mississippi alle verdi e più morbide colline del Tennessee; Last Steam Engine Train perde l’essenza originaria in bilico tra country-blues ed old time mountain guitar, così sincopata, per assumere venature country ed echi quasi bluegrass nel riarrangiamento travolgente ed esuberante; In Christ There Is No East Or West mette da parte solennità e rigorosità per colorarsi di dolcezza e purezza strumentale; Sail Away Ladies rinuncia alle suggestioni orientali in cambio di un’esecuzione fin troppo frenetica.
La stessa radice per due piante diverse, due risultati diversi per una filosofia comune: ed è così che doveva essere.
L’artista cita preferenze ed influenze piuttosto eterogenee: Bach e Beethoven, Buri Ives e Pete Seeger, Buddy Holly e Jimmy Giuffre, solo per fare qualche nome. Pete Seeger e Fred Gerlach, più che influenzarlo, lo introducono all’uso della chitarra a 12 corde, strumento usualmente relegato ad un ruolo di semplice accompagnamento, notoriamente odiato per la sua insuonabilità connessa proprio alla sua natura, privo di quell’equilibrio armonico così naturale in una 6 corde.
La 12 corde è uno strumento sconcertante, di cui non si riesce a tracciare una storia lineare in senso cronologico, uno strumento suonato sporadicamente nella tradizione americana da gente come Leadbelly, Blind Willie McTell, Gary Davis, Barbecue Bob e pochi altri; ma nelle mani di Kottke la 12 riesce a darsi naturalmente e spontaneamente una storia ed una tradizione stilistica che difficilmente verrà superata da altri.
Kottke ha dato alla 12 un repertorio, un timbro, un ruolo con innovazioni tecniche che ne hanno fatto uno strumento unico e totalmente distinto dalla 6 corde. La 12 corde è, per forza di cose, uno strumento confuso, con una costante extra-risonanza che se inizialmente dà l’idea di possibilità incredibili ben presto si rivela come il fattore che appiattisce e uccide qualsiasi cosa si suoni. Non possiede il naturale equilibrio di una 6 corde, in cui le corde degradano naturalmente da basse ad acute: ha solo un suono potente, ampio e forte, di cui però ben presto non si sa cosa fare. In più è perennemente scordata e difficile da accordare, ha un brutto timbro, ha la tastiera stonata, la tensione delle corde fa spesso deformare il manico o la tavola ed anche il fatto di provvedere ad un maggior rinforzo delle catene e della struttura spesso non migliora le cose: la chitarra non si rompe e non si deforma, ma magari non suona più.
Kottke, che ha sempre affermato di detestare il tipico suono ‘da clavicembalo’ di questo strumento, con quelle ottave acute sui bassi che rovinano tutto, ha trovato varie soluzioni, più o meno efficaci a seconda della qualità dello strumento: abbassare ad esempio la tensione delle corde, usando corde più grosse ed oltretutto non le tipiche corde bronzate che si usano sulla 6 corde ma le apparentemente assurde ‘silk & steel’, assurde perché più sorde ma che in realtà frenano l’extra-risonanza e producono, quando schiacciate, meno rumori e ronzii delle corde bronzate. I vantaggi sono rilevanti e, nel caso fortunato di uno strumento buono, notevoli, perché la chitarra resta indubbiamente più accordata e le corde sono morbide e suonabili per la mano sinistra, ma essendo grosse ancora fanno vibrare e quindi suonare la tavola armonica, risultando comunque molto più controllabili ed accordabili delle classiche ottave sottili come capelli.
Questa costante attenzione nel migliorare le caratteristiche e le possibilità della 12, unite al genio musicale di Kottke, si ritrovano nell’ascolto dei dischi del primo periodo: il chitarrista esibisce un tono splendido, una sonorità piena di forza e di energia che niente ha a che spartire con l’ottusa irruenza di alcuni suoi successori, la capacità di rendere la 12 uno strumento duttile e vario, capace di passare dal ritmo serrato di Jack Fig alle pause ed agli spazi di Easter o Owls.
La tecnica chitarristica di Kottke, in questo periodo, è fondamentalmente basata sul double-thumbing di derivazione tradizionale, usato però senza la sincopazione tipica del ragtime e del blues, estremamente variato e non canonico sia per la passata esperienza al banjo che per le possibilità melodiche offerte dalle ottave acute unite ai bassi. C’è anche una certa dose di classicismo, tanto nella musica (come nei rifacimenti di temi di Bach, Jesu, Joy Of Man’s Desiring e Bourrée, e in Room 8, Easter, Owls, Ojo, The Last Of The Arkansas Greyhound ed altri), che nella tecnica, che si può rilevare tanto nel tocco, sempre morbido e ricco di tono e colore, che nel ritmo e nell’alternanza dei bassi, con un risultato più ‘rotondo’ e propulsivo (rispetto, ad esempio, all’incastro spigoloso e contrastato tra bassi e acuti tipico dello stile di John Fahey) dovuta anche alla posizione della mano destra, non ancorata alla cassa come nella maggior parte dei chitarristi tradizionali ma libera e in una posizione molto più simile a quella usata dai chitarristi classici.
Armonicamente Kottke alterna l’uso della standard e della Dropped D tuning (DADGBE) ad accordature aperte tipiche e oggi ‘classiche’, ma allora ancora un po’ pionieristiche, come la Open C (CGCGCE), la Open G (DGDGBD), la Open D (DADFdiesisAD), spesso con l’ausilio del bottleneck usato sia sulla 12 che sulla 6.
My Feet Are Smiling suggella in modo indimenticabile questo primo periodo: registrato nel dicembre 1972 a Minneapolis, il disco ritrae Kottke nella dimensione naturale di un concerto dal vivo, in cui l’unico trucco è quello della bravura delle mani che affascina e incanta un po’ tutti.
Da questo momento inizia un processo diverso, tendente ad una musica non più e non solo esclusivamente chitarristica con vari risultati. Dream & All That Stuff, Ice Water, Chewing Pine, Leo Kottke, i quattro albums successivi, vedono episodi notevoli con due o più strumenti, con valutazioni e apprezzamenti alterni da parte dei vecchi fans e della ‘critica’. I guitar solos sono sempre incredibili e mostrano progressi terrificanti, come nel caso di A Good Egg, Grim To The Brim, Mona Ray, sia nella purezza melodica che nella capacità di evolvere i semplici bassi alternati in qualcosa di molto più complesso ed articolato; chiunque voglia parlare di ‘grande tecnica’ alla chitarra ascolti ed analizzi, se ci riesce, A Good Egg, brano splendido e trascinante, tecnicamente spaventoso.
Ma anche molti altri episodi non propriamente chitarristici colpiscono comunque: la poesia irreale e sottile di A Child Should Be A Fish, l’ennesima ballata che sa rendere bella una melodia fin troppo orecchiabile (Pamela Brown), episodi come Short Stories, Twilight Property, Mona Ray e Bill Cheatham che introducono ad un momento importante e misconosciuto, quello della collaborazione con l’eccezionale Cal Hand al dobro ed alla pedal steel guitar, collaborazione che porterà Kottke a produrre per la Takoma, nel 1977, un disco che vede Hand come protagonista. Kottke suona in sei brani e, ascoltare per credere, si possono trovare qui alcune delle cose migliori secondo me prodotte dal chitarrista nell’ultimo decennio: il lavoro di back-up eccellente in Ferns, gli arpeggi impressionistici di They Only Moved The Stage, le melodie pigre ed indolenti di Shufflebroad e Falling Glove.
Dreams & All That Stuff contiene ancora rimaneggiamenti di cose tradizionali (America The Beautiful e San Antonio Rose in un medley slide) e duetti pianoforte-chitarra pregevoli (Hole In The Day, Why Ask Why?) spiegati come sempre in modo assurdo e fantastico, ma sono parti di Chewing Pine e Leo Kottke che lasciano perplessi fans e critici per un andamento più canzonettistico e ‘disimpegnato’ che culminerà in Balance, disco del 1979, dove la casa discografica, all’insaputa del chitarrista, aggiungerà a molti brani un arrangiamento inutile, posticcio e superficiale.
Tre dischi comunque riportano l’attenzione sulla chitarra mostrando evoluzioni notevoli che avrebbero meritato più attenzione da parte del pubblico.
Burnt Lips è un lavoro eccellente che combina una serie di ballate dall’andamento pacato ma penetrante, caratterizzate dalla voce struggente e profonda di Kottke, con diversi capolavori chitarristici: A Low Thud, Burnt Lips, The Train & The Gate, The Quiet Man, ma soprattutto episodi inarrivabili come Orange Room e The Credits offrono uno stile viscerale e travolgente, con grandi qualità melodiche e una dimensione strumentale totale ormai lontana dagli antichi fasti di 6 & 12 String Guitar.
Lo stile e la tecnica si sono ulteriormente evoluti, a tutti i livelli, confermando una padronanza dello strumento unica evidenziata anche dagli altri due albums, Live In Europe e Guitar Music.
Kottke ha abbandonato l’uso dei fingerpicks e in qualche modo attenuato la frenesia di un tempo; gli arrangiamenti sono intricati e complessi e soprattutto la musica che esce dalla chitarra ha una dimensione totale ancora più completa e ricca, con una dinamica più varia e un timbro, come in Guitar Music, semplicemente miracoloso. I brani, specie in quest’ultimo disco, sono di vario livello e qualità, ma stupisce la capacità di rendere piacevoli anche momenti banali o quasi scontati.
Time Step, ultimo lavoro a tutt’oggi, è un disco che sembra aver deluso le aspettative di molti, di tutti quelli che in fondo non chiedono altro che di ascoltare la chitarra di Kottke.
Molti hanno parlato di ‘svolte commerciali’ e cose simili ma forse sarebbe più umano, semplice e comprensibile parlare di fasi transitorie con momenti involutivi tutto sommato motivati da una carriera che conta una ventina di dischi.
In fondo il best-seller di Kottke è stato 6 & 12 String Guitar con più di mezzo milione di copie vendute, e questa poteva essere quindi la strada da percorrere per perpetuare quel successo e quei consensi entusiastici; ma Kottke ha sempre dimostrato di voler cambiare ed evolvere il proprio modo di suonare e di volersi scrollare di dosso un’immagine sicuramente amata e piacevole ma che risale ormai a 15 anni fa e che non può essere riproposta fino alla nausea, come invece vorrebbero coloro che tuttora, ad ogni concerto, richiedono a gran voce The Fishermen o Jack Fig.
Dopo Time Step, uscito un anno e mezzo fa, si attende un nuovo lavoro che sicuramente non tarderà ad arrivare, in un periodo in cui il chitarrista sembra aver ripreso in modo attivo la propria attività: sarà infatti il massimo protagonista del grande American Fingerstyle Guitar Festival che si terrà in agosto a Milwaukee, in Wisconsin, accomunato a nomi come Alex DeGrassi, Peter Lang, Taj Mahal, Pierre Bensusan, Michael Hedges, Preston Reed, Benjamin Werdery.
La figura ed il lavoro di Kottke si collocano come una pietra miliare nella storia della tradizione americana chitarristica e, in generale, acustica; come ha scritto Peter Lang in 20th Century Masters Of Fingerstyle Guitar, se Fahey ha il merito di aver introdotto e concepito uno stile chitarristico esclusivamente strumentale, Kottke ha il merito di averlo reso popolare e accessibile, diventando un punto di riferimento obbligato con cui qualsiasi altro chitarrista deve misurarsi.
Di fatto non è azzardato affermare che il chitarrista del Mid-West rappresenta l’apice luminoso di un genere e un movimento di musicisti che hanno ampliato le possibilità della chitarra, evolvendola da un contesto specificatamente tradizionale e codificando stili strumentali che rappresentano uno dei massimi risultati musicali moderni.
Discografia:
-Oblivion S-1, 1968, 12 String Blues
-Takoma C-1024, 1969 (rist. Takoma 7024), 6 & 12 String Guitar
-Symposium SYS-2001, 1970, Circle ‘Round The Sun
-Capitol ST-682, 1971, Mudlark
-Capitol ST-11000, 1972, Greenhouse
-Capitol ST-11164, 1973, My Feet Are Smiling
-Capitol ST-11262, 1974, Ice Water
-Capitol ST-11335, 1974, Dreams & All That Stuff
-Capitol ST-11446, 1975, Chewing Pine
–Chrysalis CHR 1106, 1976, Leo Kottke
-Chrysalis CHR 1191, 1978, Burnt Lips
-Chrysalis CHR 1234, 1979, Balance
-Chrysalis CHR 1284, 1980, Live In Europe
-Chrysalis CHR 1328, 1981, Guitar Music
-Chrysalis/Columbia 41411, 1983, Time Step
Antologie:
-Capitol ST-11576, 1976, L. Kottke 1971-1976/Did You Hear Me?
-Capitol SWBC-11867, 1978, The Best (2 LPs)
Altri lavori:
-Takoma C-1040, 1974 (rist. Takoma 7040), Leo Kottke/Peter Lang/John Fahey (materiale registrato nel 1968)
-Pacific Arts Corporation PAC 8-128, 1979, Days Of Heaven (colonna sonora del film omonimo uscito in Italia col titolo I Giorni Del Cielo; Kottke suona una versione senza bottleneck di The Train & The Gate intitolata Enderlin)
-Takoma C-1056, 1977 (rist. Takoma 7056), Cal Hand ‘The Wylie Butler’ (splendidi duetti con lo specialista della pedal steel Cal Hand)
Bibliografia:
-Fred Dellar, The Man With The 12-string Anecdote, (New Musical Express, 30/8/75)
-Gii Podolinsky, Leo Kottke: His Technique, Guitars, Slide & Tricks Of The Trade, (Guitar Player Magazine, 1976)
-Jerry Gilbert, The ZigZag Interview With Leo Kottke, (ZigZag, 1976)
-Mark Humphrey, Leo Kottke, (Frets Magazine, April 1982)
-Maurizio Angeletti, American Guitar, (Gammalibri, 1982). Un saggio e trascrizione di due brani.
-John Stropes & Peter Lang, 20th Century Masters Of Fingerstyle Guitar, (Stropes Editions, 1982). Un saggio scritto da Peter Lang e due brani trascritti da John Stropes.
Maurizio Angeletti, fonte Hi, Folks! n. 13, 1985