Marty Brown rappresenta alla perfezione la figura del musicista che, a dispetto delle indubbie qualità compositive ed interpretative, viene poco considerato dalle radio e inevitabilmente dal pubblico, finendo piano piano per scomparire dalle scene. Al momento della stesura di questo ‘pezzo’ (sperando nel frattempo di essere clamorosamente smentito) la carriera discografica di Marty Brown comprende quattro album pubblicati tra il 1991 ed il 1996, quattro lavori che comunque riescono a dare un’idea sufficientemente chiara e completa di un autore e un interprete che sa cos’è la country music e come renderla personale pur nella continuità della tradizione dei vari Hank Williams Sr., Jimmie Rodgers, Merle Haggard e George Jones, suoi importanti punti di riferimento stilistici. In particolare Hank Sr. è stato spesso ‘resuscitato’ grazie alla particolare voce nasale di Marty Brown e al suo approccio genuinamente honky-tonk e hillbilly.
Riferendoci alla sua classica vocalità country, possiamo trovare punti di contatto con altri cantanti contemporanei come Aaron Tippin, Hank III (naturalmente!) e in parte Jimmie Dale Gilmore, tutti più o meno apprezzati dalla critica e/o dal pubblico.
Marty Brown nasce nel 1965 nella piccola comunità rurale di Maceo, Kentucky, dove la country music è profondamente radicata. E’ naturale quindi che Marty venga subito influenzato da questi suoni grazie al padre Vincent che lo introduce al mondo della musica insegnandogli i primi accordi alla chitarra. Già a quattordici anni Marty Brown si esibisce negli honky-tonks della zona e poco dopo riesce ad incidere un demo tape che porta con se nel classico, immancabile per ogni country fan, viaggio a Nashville.
Sono anni, quelli tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta, in cui l’establishment nashvilliano riscopre le radici country grazie ai molti ‘new traditionalists’ che rivitalizzano il mondo della country music con la loro iniezione di freschezza e rispetto per il retaggio comune. Marty Brown quindi non fatica più di tanto a trovare un contratto discografico (con la MCA) e a farsi produrre un album di esordio. Richard Bennett e Tony Brown tengono a battesimo il cantante kentuckiano e chiamano a raccolta una serie incredibile di grandi session men come Emory Gordy Jr., Reggie Young, Buddy Emmons, Stuart Duncan, Steve Gibson, Larrie Londin e Roy Huskey Jr. tra gli altri. Insomma, tutto quello che un qualsiasi artista country sognerebbe di avere…e tutto al primo album! Il disco si intitola High And Dry, esce nel 1991 e comprende dieci ottime composizioni, tutte firmate da Marty Brown.
Country, honky-tonk, influenze fifties e l’ombra sempre presente dei padri della musica che amiamo fanno bella mostra dall’iniziale High And Dry, cadenzata ed amara ballad che parla della fine di un amore, argomento tra i più ricorrenti nella produzione di Marty Brown (“…I’m high and dry/ since you said goodbye/ high and dry/ no more tears to cry/ Lord today you left me high and dry…”), alla conclusiva Nobody Knows che riprende le tematiche care ad Hank Williams Sr., le sofferenze, le incomprensioni e le conseguenti frustrazioni della vita nei rapporti interpersonali. Naturalmente non tutto è così pervaso di pessimismo anche se aleggia in buona parte del disco un’aura triste ed acre, ci sono trascinanti honky-tonk come Your Sugar Daddy’s Long Gone, Don’t Worry Baby e Honky Tonk Special (che ricordano le sonorità dei BR5-49), ballate acustiche di grande intensità e profondità come I’ll Climb Any Mountain e Wildest Dreams, quello che potrebbe essere un potenziale hit radiofonico come Every Now And Then dalle gustose influenze anni cinquanta (un po’ a la Roy Orbison e co.) e i suoni old-fashioned di Ole King Kong che ricorda il grande Jimmie Rodgers.
Il disco, privo di singoli da classifica (a parte Every Now And Then), nonostante sia vario ed ispirato, non vende in maniera particolare ma la MCA punta ancora sul cantante di Maceo, Kentucky.
Nel 1993 viene pubblicato Wild Kentucky Skies sotto la produzione del solo Richard Bennett (solo un brano è co-prodotto con Tony Brown) che dà più freschezza e ‘attualità’ agli arrangiamenti, mantenendo inalterata la forza interpretativa di Marty Brown che si conferma autore di talento (otto su dieci sono sue composizioni) e cantante veramente brillante. Si segnalano tra i musicisti coinvolti in queste sessions Marty Stuart al mandolino, Joy White e Harry Stinson alle harmony vocals, Dan Dugmore che affianca Buddy Emmons e Terry Crisp alla steel guitar.
Lo spirito dei maestri della country music e dell’honky-tonk è sempre presente nella musica di Marty Brown. Canzoni come No Honky Tonkin’s Tonight e I’d Rather Fish Than Fight sembrano uscite da qualche vecchio vinile di Hank Sr. ma non sono mere scopiazzature, la loro pregnante musicalità è brillantemente attuale. Un’altra delle qualità di Marty Brown è il saper scrivere ballate di grande spessore, introspettive e coinvolgenti: God Knows, Honey I Ain’t No Fool, la magistrale Freight Train, una delle più belle composizioni di Marty, la oscura e disperata She’s Gone (ancora una volta sembra che Hank Williams Sr. sia tornato in vita) e la conclusiva title-track inquadrano in maniera veramente efficace il lato più intimista della sua personalità.
Anche con questo Wild Kentucky Skies Marty Brown non riesce a raggiungere le classifiche dei singoli, trampolino di lancio per una buona affermazione commerciale del disco anche se non mancano brani immediati ed orecchiabili come It Must Be The Rain, Let’s Begin Again (scritta da Hank De Vito e da Danny Flowers) e I Don’t Want To See You Again di Jackson Leap. L’album è comunque ancora una volta ben bilanciato sia negli arrangiamenti sia nella varietà musicale.
Marty Brown in questo periodo va in tour con Jimmie Dale Gilmore, un musicista che con il suo stile si affianca molto bene al Nostro, prima di entrare nuovamente in sala di incisione. E’ il 1994 ed esce il terzo lavoro per Marty Brown intitolato Cryin’, Lovin’, Leavin’ ancora una volta prodotto da Richard Bennett. E’ un disco immediato ed eccellente in cui l’amore per la country music più tradizionale viene esaltato da dieci splendide canzoni e da una sessione di registrazioni dove praticamente tutto viene suonato live quasi senza sovraincisioni. I musicisti sono gli stessi rispetto all’album precedente e troviamo un Marty Brown ancora più grintoso e convinto nella sua proposta densa di country music senza compromessi che gli vale recensioni molto positive da parte della critica più ‘tradizionalista’.
You Must Be Mistakin’ Me apre questo terzo disco in maniera brillante con il suo caratteristico honky-tonk sound mentre la title-track è godibilissima nel suo incedere che ricorda band come i Derailers o i BR5-49. Too Blue To Crow è ruspante e molto trascinante con le sue sonorità country/blues, cantata con una grinta insospettata. Shameful Lies (scritta in compagnia di Odie Blackmon) è una lenta e sofferta ‘cheatin’ song’ nella migliore tradizione che sfocia nella cover del classico di Moon Mullican (del 1951) Cherokee Boogie, più scarna e nervosa di quella interpretata dai BR5-49.
In questo Cryin’, Lovin’, Leavin’ non mancano le ormai caratteristiche love songs di Marty Brown, disperatamente intense ed emozionanti nel descrivere rapporti ormai conclusi o sulla via di una imminente fine. Summer’s Gone, It Tortures Me (composta insieme a Paul Kennerley) coinvolgente e con un ottimo assolo centrale di Richard Bennett alla chitarra elettrica, Watch It Burn (“…after all that we gave it/ now there’s no way to save it/ we finally reached the point of no return/ all our dreams and all our hope/ are going up in fire and smoke/ and all that we can do is watch it burn…”), Why Do You Crucify Me (della coppia Brown/Bobby Bradock) e I Love Only You in cui Marty Brown duetta con Joy Lynn White, sono canzoni ricche di nostalgia e delicatezza.
L’album non incontra però i favori del pubblico e ancora una volta la mancanza di veri e propri hit singles penalizza la riuscita commerciale del disco. Risultato è che la MCA decide di interrompere il rapporto con Marty Brown, il quale si ritrova così a dover cercare un’altra label a cui affidare la propria carriera musicale.
A due anni da Cryin’, Lovin’, Leavin’ Marty Brown trova nella californiana Hightone Records un interesse verso la propria musica. Nel 1996 viene pubblicato Here’s To The Honky Tonks, album inciso negli storici studi Bradley’s Barn di Mt. Juliet, Tennessee con una band più ridotta rispetto ai precedenti dischi ma particolarmente agguerrita. J.T. Corenflos, Kerry Marx e Russ Pahl sono i chitarristi (quest’ultimo anche alla steel guitar), Bob Patin suona le tastiere, Larry Mars il basso, Trey Gray la batteria, Stuart Duncan fiddle e mandolino. La produzione è dello stesso Marty Brown affiancato dal boss della Hightone Bruce Bromberg mentre il repertorio è quasi interamente composto dallo stesso Marty in compagnia di validissimi songwriters. Il risultato complessivo è ancora una volta di grande qualità, grintoso, nostalgico ma soprattutto pieno di ‘hard core country’.
Basta ascoltare Here’s To The Honky Tonks, canzone che apre il disco e che ne dà il titolo: è un vero manifesto delle intenzioni di Marty Brown che la interpreta con il cuore. You Can’t Wrap Your Arms Around A Memory è una country ballad assolutamente classica come ne abbiamo sentite a centinaia. Quello che la rende una grande canzone è la ricetta che Marty Brown conosce bene: ‘vivere’ il brano con grande sincerità, onestà e trasporto. Love Comes Easy è scritta con un musicista in perfetta sintonia con il Nostro, Dean Miller (figlio del grande Roger e autore di un album eccellente pubblicato nel 1997), The Day The Bootlegger Died è una ballata tra le più belle del disco grazie ad una melodia semplice e di grande presa, Too Lonely Too Long è fresca e brillante per il suo piglio molto ‘radio friendly’. He Thinks Daddy Hung The Moon è tranquilla e distesa differenziandosi dalla maggior parte delle ballate di Marty Brown che non sono particolarmente ottimiste. Flip Side Of Love (ancora composta con Odie Blackmon) potrebbe far tranquillamente parte del repertorio di Merle Haggard o di George Jones per il suo andamento classico in cui si alternano e si incrociano pedal steel e piano. Marty Brown e Shawn Camp sono gli autori della acustica Somewhere Over Arkansas mentre più elettrica e fifties-oriented è Laurie On My Mind.
Chiudono un album la cui seconda parte è maggiormente giocata su toni soffusi e d’atmosfera due tra le più toccanti ballate del repertorio di Marty Brown: There’s No Song Like A Slow Song, strappalacrime ma assolutamente non smielata grazie ad una interpretazione misurata e ricca di emozione e l’eccellente Behind Bars che ricorda certe classiche country songs di Merle Haggard.
Here’s To The Honky Tonks rimane l’ultimo album in ordine di tempo per Marty Brown, un musicista che ha saputo regalarci con i suoi quattro album pagine di autentica, sincera e genuina country music ma che ha purtroppo raccolto pochissimo in fatto di successo commerciale.
L’unica speranza è che riesca a riemergere dall’anonimato nel quale è piombato dal 1996 e che ci faccia ancora emozionare con la sua caratteristica voce e con la sua musica.
Discografia:
High And Dry (MCA, 1991)
Wild Kentucky Skies (MCA, 1993)
Cryin’, Lovin’, Leavin’ (MCA, 1994)
Here’s To The Honky Tonks (Hightone, 1996)
Remo Ricaldone, fonte Country Store n. 68, 2003