Mary Gauthier

Mary Gauthier dice che fare musica è come cucinare: un atto di comunicazione e un momento di gioia. E lei, che ha gestito un ristorante e adesso fa la songwriter, lo sa bene. Si definisce una cantastorie, dice che “la canzone è un dono” e la professione di musicista una vocazione.

Quanto è lontana Mary Gauthier dall’immagine che il suo ufficio marketing le ha ritagliato. Altrettanto lontani sono gli anni in cui, adolescente, rubava la macchina ai genitori per andare a ficcare il naso sull’altro lato della strada, quello sbagliato.
“Brutti tempi quelli. Non ci penso più a quei giorni, e sono contenta che siano andati, finiti. Cosa mi è rimasto? Mi sono rimaste la sofferenza e la compassione. Se vuoi essere un cantastorie devi aver provato la sofferenza e devi aver imparato la compassione.”

Oggi Mary Gauthier è una piccola donna dagli occhi penetranti, limpidi ogni oltre imbarazzo, che parla con voce sommessa, con la stessa indolente precisione con cui scandisce le storie che mette nei dischi. “Lo so che paragonano il mio modo di cantare, il mio fraseggio, prevalentemente a uomini, ma sono uomini come John Prine, Kris Kristofferson, Dylan… che posso dire? Mi piace. Non mi viene in mente nessuna donna, nessuna cantante alla quale io possa essere paragonata. Forse perché mi piace parlare e mi piace cantare, ed è naturale per me, è congeniale al mio essere una cantastorie.”

Eppure i suoi pubblicisti hanno fatto scrivere a tanta gente di come lei, nuova reginetta del country noir, rappresenti la via femminile al folk country: “Non so se ci sia una via femminile, un modo femminile di scrivere canzoni. La gente me lo domanda spesso, ma io credo che un autore sia un autore, non importa il sesso. Quando ascolto una canzone, o quando io stessa ne scrivo una, non faccio caso al sesso di chi la canta, o non mi rapporto solo come una donna. Io voglio sentire il cuore di chi canta, e cerco di far sentire il mio. Qui in Italia ad esempio, dove esiste una barriera linguistica fra me e il pubblico, è certamente più dura e richiede più tempo che altrove, ma alla fine dello show io e loro siamo nello stesso luogo, siamo vicini. Certo per me le parole sono la cosa più importante, ciò che il cantante dice è per me la sola cosa che conta, ma se ciò che dice è falso, allora non va da nessuna parte, mentre se ciò che dice, mentre lo dice, ha in sé la verità, allora arriva ovunque, anche laddove nessuno lo capisce”.

“Le mie storie sono tutte autobiografiche, ma non sono delle confessioni. Dentro c’è la mia verità, ma alla fine della canzone ognuno deve ritrovare se stesso e la propria verità, perché la canzone non è mia, o di qualcuno, la canzone è un dono. La gente ha bisogno delle canzoni, delle storie.
Oggi certo è più duro di un tempo, siamo bombardati da messaggi che arrivano da ogni parte, velocissimi e implacabili, ma un cantastorie esisterà sempre. Non sarà mai ricco, ma chi se ne frega, avrà sempre le storie.”

“Vedi c’è ancora, e mi piace pensare che esisterà sempre, gente che si ferma, si siede, spegne il cellulare, dimentica il computer, e per un paio d’ore viene ad ascoltare una cantastorie come me, perché fa sentire tutti un po’ più umani. Io non so molto di tecnologia, non m’importa. Tutto quello che mi importa è suonare per qualcuno, da sola senza una band. Difficile, a volte anche tanto, perché stare da sola su un palco significa che non puoi sbagliare niente, non puoi permetterti nessuna caduta di intensità, ma non c’è nulla per me che valga il confronto. lo devo provare a comunicare e poi adoro le sfide.”

Che posto è allora l’America per una cantastorie come Mary Gauthier? “È un posto molto confortevole, e non solo per me. Ci sono soldi, poca disoccupazione, successo. Temo però che noi americani abbiamo troppo e ci sono posti nel mondo dove la gente ha troppo poco. Credo che cambierà qualcosa, sta già cambiando. Non so come si possa aggiustare tutto questo, se si può ancora aggiustare, e non so nemmeno dire di chi sia la colpa, di certo non dei popoli, ma il mondo è iniquo.”

Il suo entusiasmo nei confronti della cucina italiana è grande: “Forse è perché sono appena stata in Inghilterra, dove hanno la cucina peggiore del mondo, ma qui in Italia è davvero un paradiso. Ogni cosa, anche una semplice insalata, è fantastica. E io ne so qualcosa di cucina. Quando avevo il ristorante a Boston, cercavo di dare ai miei ospiti un’esperienza di benessere, di piacere. Cucinare e portare il cibo alla tavola era un atto di comunicazione, di condivisione di un momento di gioia e anche di verità. lo sono una grande lavoratrice e mi piace rendere felici le persone, prima lo facevo con i miei piatti, ora con le canzoni. In entrambi i casi metto in campo la mia creatività, la mia sensibilità”.

Come avviene allora, per una grande lavoratrice, l’atto creativo della composizione? “Lavoro sull’ispirazione, non sono ancora in grado di lavorare come fanno a Nashville, con regolarità e metodo, ma devo riuscire a farlo. Per ora dipendo dagli impulsi, non riesco a sedermi alla scrivania e scrivere una canzone. Però scrivo tutti i giorni, anche solo per tenere un report, come sto facendo ora, di questo tour europeo. Queste sono storie di viaggio, ma dentro ci sono le canzoni che scriverò domani. Voglio raccogliere storie e conservarle e portarle con me. Ho cambiato spesso nella mia vita sino ad oggi, e non so per quanto tempo resterò nella musica. Per me è una specie di destino, qualcosa di intimo che sento e mi appartiene completamente. Quando sono in viaggio ho tutta la mia casa, tutto quello che sono, con me, nelle mie canzoni e mi sento davvero al posto giusto, ovunque.
Oggi credo di fare ciò per cui Dio mi ha creato.”

Mauro Eufrosini, fonte JAM n. 84, 2002

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