- La bluegrass music
3.1 Tradizione e innovazione
Già dalle primissime apparizioni al Grand Ole Opry, Bill Monroe mostrò l’intenzione di voler esplorare nuove sonorità e di portare sulla scena qualcosa di originale che avrebbe contraddistinto i Bluegrass Boys dagli altri gruppi presenti nello show business. Reinterpretò il famoso brano Mule skinner blues di Jimmie Rodgers con un intervento completamente inedito: all’originale, una ballata hillbilly di medio tempo, raddoppiò la velocità e aggiunse gli elementi strumentali del suo quartetto, anziché la sola chitarra e voce. Il pubblico e l’entourage dell’Opry si trovarono di fronte ad un nuovo approccio nel repertorio country e accolsero positivamente la scelta. È significativo notare che quanto Monroe fece con la canzone di Rodgers, fu esattamente lo stesso che avvenne nel 1954, quando Elvis Presley (1935 – 1977) interpretò Blue moon of Kentucky di Monroe con la stessa intenzione rivoluzionaria, portando alla nascita del rock’n’roll.
Le caratteristiche dei primi Bluegrass Boys furono distintive nel music business country non solo per la dinamicità ritmica e la rottura con la quale affrontavano i pezzi ma anche per le competenze con cui trattavano il repertorio tradizionale popolare e religioso, sulla tecnica strumentale e sull’uso di tonalità non convenzionali che bene si adattavano alla voce tenorile di Monroe, in contrasto con i lead singers baritonali. Monroe inoltre sapeva gestire la sua attività come un imprenditore; faceva pubblicità per il gruppo usando giornali e radio, pagava i suoi musicisti con uno stipendio fisso e oltre a scrivere e scegliere i brani da suonare, curava personalmente anche l’immagine della band. Per distinguersi dagli altri occorreva infatti porre attenzione anche all’impatto visivo, al look: al contrario degli altri membri del Grand Ole Opry, Monroe e i suoi Bluegrass Boys indossavano abiti con eleganti cappelli Stetson, camicie e cravatte, elementi inusuali nello spettacolo. I costumi che venivano usati nelle esibizioni di quei tempi infatti, comunicavano degli stereotipi con i quali la visione di Monroe non andava d’accordo: i Bluegrass Boys non erano cowboys e non volevano neanche sembrare o essere chiamati contadini; il loro era un approccio serio alla musica e anche l’immagine doveva tradire una certa rispettabilità e un attaccamento alla tradizione.
Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale la musica country ebbe una grande popolarità; Bob Wills (1905 – 1975) aveva tanto pubblico nelle sale da ballo quanto le orchestre di swing, Hank Williams (1923 – 1953) veniva consacrato come la più grande stella del Grand Ole Opry e canzoni come Pistol packing mama di Al Dexter (1905 – 1984) erano delle hit non solo nell’area rurale del Sud ma anche nei mercati urbani del Nord. Questa popolarità extra-regionale è da riferirsi anche ad una grande migrazione che durante la guerra portò molte persone a spostarsi dalla campagna ai centri urbani in cerca di lavoro. La gente delle campagne portò con sé il proprio gusto musicale e in quel periodo, con la grande depressione alle spalle, poteva contare anche su un reddito che gli permetteva di consumare la loro musica preferita nei juke-box, ai concerti e sui dischi; basti pensare che nel 1942, Billboard già pubblicava saltuariamente una colonna sulla country music che nel 1943 diventò settimanale.
Il Grand Ole Opry, entrato nel network della NBC, riuscì ad avere una diffusione nazionale e aumentò senza precedenti il livello di notorietà dello show con effetto anche sui musicisti, Monroe compreso, che di conseguenza incrementarono le loro possibilità di guadagno con concerti, registrazioni e contratti discografici. Con l’ingresso in guerra degli Stati Uniti, il servizio militare interruppe o concluse definitivamente le carriere di alcuni dei più popolari musicisti country, così che Monroe si ritrovò costretto a cercare dei sostituti per il suo gruppo e a introdurre nel 1942 un importante cambiamento: il banjo a cinque corde.
Di origini africane, il banjo è probabilmente l’unico strumento musicale più popolare ad essere stato sviluppato nel solo continente americano; subì diverse variazioni strutturali che lo modificarono dalle tre corde iniziali, alle quattro nell’era del jazz di New Orleans, fino a cinque. Monroe intuì le potenzialità dello strumento, ma il banjoista ingaggiato suonava in uno stile tipico della musica folk degli Appalachi chiamato clawhammer, che sostanzialmente creava solo un tappeto ritmico e non modificò drasticamente il lessico del gruppo, per il momento.
Il 1945 fu l’anno di svolta: la guerra era appena finita ed un nuovo genere musicale stava per prendere forma. Bill Monroe vide una fonte di ispirazione nell’improvvisazione jazzistica e la volle applicare anche sui suoi pezzi. Così come negli standard jazz venivano eseguiti gli assolo a turno da ogni musicista, anche nelle canzoni di Monroe, ogni strofa avrebbe dovuto essere intervallata da un assolo, in gergo break, dando così un maggiore risalto alle capacità tecniche ed espressive degli esecutori. Cercando elementi in grado di soddisfare queste sue esigenze, Monroe divenne un talent scout attento e lungimirante, in grado di riconoscere immediatamente le qualità di un musicista e consentendogli nel corso della sua carriera di mettere a libro paga tra i suoi Bluegrass Boys molti tra quelli che sarebbero diventati i più grandi interpreti del genere. Queste doti gli fecero prendere la decisione di assumere il chitarrista e cantante Lester Flatt (1914 – 1979) e poco tempo più tardi il giovane banjoista Earl Scruggs (1924 – 2012). Lester Flatt portò da subito il suo contributo creativo, coadiuvò Monroe nella stesura dei pezzi, contribuì con alcuni originali e oltre a offrire una solida ritmica di base, inventò il G-run o Flatt-run, una frase chitarristica da utilizzare come chiusura delle strofe. Ma l’apporto fondamentale, la caratteristica sonora che la maggior parte degli storici definisce come costitutiva del bluegrass è da attribuire al banjo. Un banjo molto diverso da quello clawhammer precedentemente utilizzato, suonato con uno stile quasi sconosciuto, capace di generare una sonorità mai udita prima. Earl Scruggs usava infatti il 3-fingers style, una tecnica che ha origini incerte e le cui tracce portano al banjoista Snuffy Jenkins (1908 – 1990) in Nord Carolina. Come suggerisce il nome, lo stile di Scruggs faceva uso delle prime tre dita della mano destra per articolare le note, creando un ritmo sincopato e lunghe serie di arpeggi veloci in sedicesimi con un effetto melodico/ritmico funambolesco. Questo era l’elemento mancante che Monroe stava aspettando per la sua band, e adesso avrebbe potuto mostrare al pubblico la sua nuova ‘creatura’ e vedere le reazioni.
Nonostante l’indiscutibile importanza dell’apporto musicale di Scruggs, è giusto sottolineare che Monroe aveva già udito suonare il banjo 3-fingers style e si era fatto già un’idea precisa del suono che avrebbe avuto nella sua band. Nel 1943 infatti, Monroe partecipò ad una jam41 in Carolina del Sud dove notò Don Reno (1927 – 1984), un giovane banjoista che usando pollice, indice e medio era capace di scatenare una specie di ‘tempesta musicale’, un vortice sincopato di note percussive. Dopo la jam, Monroe non ci pensò due volte e offrì a Reno un ingaggio nel gruppo, ma la storia si mise di mezzo e Reno fu reclutato nell’esercito.42 Con Reno fuori gioco, Monroe trova in Scruggs un altrettanto valido musicista che adesso ha la possibilità di mostrare le sue doti al vasto pubblico del Grand Ole Opry: il pubblico rimane letteralmente impressionato dalle loro performance, e la popolarità, con una particolare attenzione verso Earl Scruggs, cresce sempre di più.
3.2 Dal suono al genere
Dal 1945, Monroe porta quindi alla luce un linguaggio originale, mettendo insieme gli ingredienti giusti per esprimere la quintessenza della musica che aveva in mente: si chiamerà bluegrass ma ancora non ha un nome, è solo folk music con overdrive, come la definirà qualche anno più tardi l’etnomusicologo Alan Lomax (1915 – 2002), in una perfetta visione di quello che il suono di Monroe realmente rappresentava: «…Out of the torrent of folk music that is the backbone of the record business today, the freshest sound comes from the so-called bluegrass band – a sort of mountain Dixieland combo in which the 5 string banjo, America’s only indigenous folk instrument, carries the lead like a hot clarinet. The mandolin plays burst reminiscent of jazz trumpet choruses, a heavily bowded fiddle supplies trombone-like howdown solos; while a framed guitar and slapped bass make up rhythm section. Everything goes at top volume, with harmonized choruses behind a lead singer who hollers in the high, lonesome style beloved in the American backwoods. The result is folkmusic in overdrive with a silvery, rippling, pinging sound (…) While the aging voices along Tin Pan Alley grow every day more querulous, and jazzmen wander through the harmonic jungles of Schoenberg or Stravinsky, grass-roots guitar and banjo pickers are playing on the hearstrings of America». 43 Se ascoltiamo le registrazioni radiofoniche e discografiche dell’epoca, ci possiamo benissimo rendere conto dell’evoluzione che il suono del gruppo ebbe con l’introduzione del banjo di Scruggs; una rivoluzione con un piede nella tradizione, un ‘piacevole sconvolgimento’ nel panorama musicale senza però entrare in conflitto con il passato e con le abitudini del pubblico. Tra il ’46 e il ’48, Bill Monroe & his Bluegrass Boys registrarono per la Columbia records brani come: White house blues, I’m going back to old Kentucky, Will you be loving another man e Bluegrass breakdown, diventando delle star dell’Opry. Flatt e Scruggs erano alle dipendenze di Monroe e percepivano uno stipendio settimanale; la paga era decente ma comunque una paga da sideman, niente in confronto con quella del capo. I due si stancarono di avere un ruolo da gregari e considerata la popolarità che avevano raggiunto, decisero di licenziarsi dal gruppo di Monroe e di entrare in concorrenza con il vecchio capobanda, fondando insieme una band che durerà per venti anni e porterà il bluegrass a un livello più pop: Flatt & Scruggs and the Foggy Mountain Boys.
L’uscita dal gruppo di Flatt e Scruggs causò non pochi problemi a Monroe, che si trovò nella situazione di dover rapidamente sostituire due eccezionali elementi senza però snaturare il suono del gruppo. Riuscì a trovare in Rudy Lyle (1930 – 1985) e Jimmy Martin (1927 – 2005) due degni sostituti: la voce di Martin infatti, armonizzata con quella di Monroe riuscì ad aggiungere un’altra importante caratteristica che diverrà una cifra stilistica del bluegrass (il cosiddetto High and lonesome sound), dove gli alti registri vocali sembravano evocare uno stato malinconico e solenne.
Il suono di Bill Monroe non gli rimase esclusivo ma portò in brevissimo tempo alla formazione di epigoni degni di nota che, chiaramente ispirati dalla sua musica, contribuirono alla diffusione e alla definizione del genere. Il primo significativo esempio fu quello dei fratelli Virginiani Carter (1925 – 1966) e Ralph Stanley (1927), che formarono la band Stanley Brothers and the Clinch Mountain Boys, poi seguirono Jim and Jesse McReynolds, Reno and Smiley, e molti altri. Il pubblico e gli addetti del settore cominciarono a rispondere positivamente a questa particolare musica dove banjo, mandolino, violino e voci creavano un effetto completamente differente dal resto della country music e si iniziò a chiamarlo bluegrass.44 Lo stile acquistò una discreta popolarità, i gruppi bluegrass divennero sempre più richiesti dalle radio e ingaggiati dal vivo; anche la fiorente crescita di case discografiche nel dopoguerra cominciò ad investire sul genere, così che i gruppi poterono contare anche su una crescita della produzione di dischi. Un nuovo genere ormai era nato e aveva un padre in Bill Monroe che fu «…the prime creative organizer and artistic guiding force behind bluegrass. He was very much like the director of a major motion picture: A director does not do all the script writing, acting, cinematography, sound recording, and editing by him/herself. But the director brings everything together in accordance with his/her own vision of the final film, In this sense, Bill Monroe was (to borrow a term from film criticism) the ‘auteur’ or author of bluegrass, a great synthesizer».45
3.3 Il dopo guerra: tra il rock’n’roll e la protesta
3.3.1 Gli anni 50
Gli Stati Uniti uscirono dalla Seconda Guerra Mondiale più forti di prima confermando di essere la prima potenza mondiale, così che nel dopoguerra l’economia ebbe un forte slancio, e la popolazione americana si ritrovò a godere di un nuovo benessere che portò al trionfo della società consumistica. La Nazione cercò di costruire un’immagine di sé da porre a modello per tutte le civiltà, una società omogenea, caratterizzata dal benessere e senza attriti, dove la democrazia e la libertà costituivano ancora i punti fondamentali. Si formò « una società del consenso, in cui la maggior parte delle persone non contestava la distribuzione del potere, era contenta di cercare la propria realizzazione personale nel lavoro e nell’innalzamento progressivo del proprio tenore di vita, aveva valori certi e una solida fiducia nelle proprie autorità politiche».46 Questo consenso venne creato grazie all’uso della pubblicità, veicolando l’immagine di uno stile di vita ideale, dove il cittadino medio volle riconoscersi e uniformarsi. Il motivo per il quale si consolidò questa tendenza è da attribuire in larga parte all’introduzione della televisione come mezzo di comunicazione di massa. La diffusione capillare della TV infatti, cambiò in breve tempo le abitudini delle famiglie americane che fino a quel momento avevano usato la radio: le immagini erano più forti del messaggio radiofonico e la TV rispondeva benissimo alle esigenze di intrattenimento e di informazione del cittadino medio, creando un gigantesco consenso su consumi e costumi.
È interessante notare anche quanto la società del consumo degli anni ‘50, abbia influito sullo sviluppo del genere musicale qui in discussione. Per tutto il decennio infatti, la scena bluegrass fu dominata da Flatt e Scruggs che, proprio grazie alla televisione e al sistema dell’advertising, riuscirono ad imporsi come delle vere star. Il punto di svolta nella loro carriera avvenne quando un’azienda nel settore alimentare, Martha White, propose loro un contratto di sponsorizzazione abbastanza remunerativo che comprendeva anche degli show televisivi. Flatt e Scruggs accettarono di essere i testimonial dei prodotti dell’azienda e grazie alla grande esposizione mediatica che ebbero, diventarono il gruppo bluegrass più popolare di quel periodo. Il loro show musicale (che nel frattempo promuoveva i biscotti e le torte di Martha White) era rivolto non solo ad uno specifico target di famiglie contadine del Sud che già apprezzava il loro genere, ma riuscì ad entrare anche in moltissime altre case americane facendo conoscere le loro sonorità anche a chi fino ad ora non ne era venuto in contatto. In un mix di canzoni e pubblicità, Flatt & Scruggs surclassarono in popolarità e in guadagni tutti i loro colleghi e riuscirono anche a diventare ospiti fissi del Grand Ole Opry. Questi due musicisti, dalle indubbie qualità, seppero sfruttare meglio di qualunque altro bluegrassman il lato commerciale della musica, e le loro scelte stilistiche (dall’immagine di sé negli show, alla selezione del repertorio), rivelavano questa tendenza diretta talvolta più verso la ricerca del consenso, a scapito della ricerca sonora.
La canzone spot Martha White theme47, composta come tema per i loro show-televendita, è sintomatica di questo atteggiamento.
Il mondo della country music avrebbe presto incontrato delle difficoltà: nel 1954, il giovane Elvis Presley di Tupelo, Mississippi, registrerà il suo primo singolo per la Sun Records di Memphis e cambierà le carte in tavola nello showbiz. Con Presley, che ironia della sorte esordì proprio con un brano di Monroe, Blue Moon of Kentucky, ebbe inizio l’era di un nuovo genere musicale: il rock’n’roll. Questo nuovo fenomeno musicale si fece largo nel mercato discografico nazionale ed ebbe un grande successo soprattutto perché interpretò i bisogni e le aspettative di una zona culturale e di consumo che fino a quel momento non si era sviluppata: quella dei giovani. I giovani della società dei consumi erano diversi da coloro che li avevano preceduti perché a partire dal dopoguerra la scolarizzazione superiore e universitaria di massa riuscì a creare in America un gruppo sociale e dei modelli di comportamento che prima non esistevano. I giovani degli anni cinquanta, a differenza dei loro predecessori, potevano vivere quel periodo che andava dalla high school al college fra coetanei, seguendo un insieme di gesti culturali e consumistici che li rendevano un’entità sociale autonoma, i teenagers. Volevano differenziarsi dalla società conformistica degli adulti e trovarono in James Dean (1931 – 1955) del film Rebel Without a Cause (1955) e nel rock’n’roll i modelli a cui ispirarsi. Il divertimento, la sfera sessuale e la ribellione erano i temi dominanti delle canzoni, che entravano volutamente in conflitto con l’immaginario proposto dagli altri generi musicali mainstream, in preda al conformismo sociale e culturale. Anche il bluegrass, seppur con minori danni, subì una flessione di interesse e la ‘novità’ musicale che proponeva, sembrava ad alcuni giovani ormai già vecchia rispetto a quella dei nuovi miti del rock’n’roll.
3.3.2 Il folk revival e la protesta
Gli anni ’50 non furono però solo il rock’n’roll e il benessere diffuso: il dopoguerra portò con sé a livello internazionale, un’atmosfera di crescente ostilità tra i due blocchi USA-URSS, la cosiddetta Guerra Fredda. Questa situazione condizionò anche la vita quotidiana degli Stati Uniti, dove si propagò un’ossessione anticomunista che ebbe tra le sue conseguenze il Maccartismo48. La tensione generò una dura repressione del dissenso sociale e politico che portò alla persecuzione di migliaia di cittadini accusati di spionaggio o di comportamenti anti-americani, che nella maggior parte dei casi erano più semplicemente anticonformisti o di sinistra49. Tra i perseguitati del maccartismo, ci fu anche Pete Seeger (1919 – 2014), allievo di Alan Lomax e musicista con una carriera di ricerca come etno-musicologo alle spalle. Seeger, da sempre impegnato socialmente, contribuì a diffondere nel paese la tradizione della musica folk con pubblicazioni, didattica, produzione discografica e manifestazioni.
Grazie a Lomax, Seeger ebbe modo di suonare con artisti come Woody Guthrie (1912 – 1967) o Leadbelly (1885 – 1949) e di fare da ‘staffetta’ fra la vecchia e la nuova generazione interessata al folk americano. Cominciò infatti a nascere, specialmente dai circuiti universitari del Nord America e dell’area di New York, un interesse per le radici musicali del paese e un’attenzione verso la musica popolare in genere, che sfociò in un vero e proprio movimento di revival folk. Molti di questi giovani iniziarono a informarsi, comprare dischi, frequentare concerti e a suonare, vedendo in Seeger, Lomax, l’etichetta Folkways Records50 e la rivista Sing Out!51 i loro punti di riferimento. Per questi ragazzi, cresciuti nei centri urbani, attenti alle tematiche sociali e con un’istruzione superiore, la musica popolare suggeriva anche colori e profumi di un tempo passato, offriva un’identità culturale più pura, o almeno una fantastica. Non ci volle molto perché il movimento di folk revivalists riscoprisse anche il bluegrass, questa musica completamente acustica con molti vecchi motivi tradizionali, dove gli scenari dei brani erano montagne e fattorie. Il movimento non solo restituì al bluegrass un’attenzione che sembrava essere scemata dall’avvento del rock’n’roll, ma ne studiò le origini e il linguaggio, riqualificandolo; dei ‘Nordisti’ salvarono letteralmente questa musica del Sud che adesso aveva un pubblico in grado di identificarsi come bluegrass fan. Un caso emblematico per rappresentare l’approccio dei giovani fu quello di Bill Keith (1939), banjoista di Boston. Cresciuto nel Nord del paese e con una laurea in letteratura francese, imparò a suonare il banjo con il libro didattico di Pete Seeger How to Play the Five String Banjo e subito dopo scoprì il bluegrass, innamorandosene. Keith studiò analiticamente patterns e posizioni sullo strumento e sviluppò uno stile denominato poi ‘melodico’ che gli permise di trasportare sul banjo le melodie delle fiddle tunes più complicate, fino a quel momento di pertinenza solo violinistica; permettendogli di costruire una splendida che lo pone tutt’ora tra i più importanti strumentisti viventi. Nel 1959 Lomax sdoganò definitivamente il genere organizzando un concerto alla Carnegie Hall di New York, il palco più prestigioso del paese, e da quel momento le iniziative e gli eventi si moltiplicarono, avendo come momento più importante del calendario il Newport Folk Festival.52
A partire dalla metà degli anni ’50 e fino ai primi anni ‘70, la società americana fu costretta a fare i conti con delle importanti questioni che riguardarono principalmente la segregazione razziale e la Guerra in Vietnam (1964-1973). I giovani che avevano dato vita al folk revival accompagnarono il dibattito sociale, le lotte del movimento per i diritti civili e il neonato movimento studentesco che si opponeva alla guerra. Già dai tempi di Guthrie53, i folkies si erano fatti difensori della giustizia sociale e anche in questo periodo il nuovo popolo del folk era lì, a supporto di quell’America che non poteva godere i frutti del benessere consumistico e che era discriminata, invocando anche le ragioni della pace contro un conflitto combattuto dall’altra parte del mondo e ritenuto ingiusto. Il ritratto di questa società mostrava quanto la realtà, si contraddicesse con «… l’immagine degli Stati Uniti come patria della libertà, del benessere e del progresso»54, e fu la base per cercare un’alternativa allo stile di vita dominante e per porre i temi della pace e dei diritti umani all’ordine del giorno.
Al contrario del folk, la componente politica nel bluegrass non è mai stata predominante e il genere non entrò quasi mai nel terreno politico sociale. Questo atteggiamento è dovuto probabilmente a due principali fattori: il primo è relativo al fatto che il bluegrass ha spesso avuto a che fare con la rivendicazione della sua ‘americanità’, col volersi identificare come un oggetto ‘puro americano’, tradizionale e carico della retorica nazionale da sempre alla base della società e acuitasi dalla Seconda Guerra Mondiale in poi; il secondo è relativo alla sua pertinenza come fenomeno musicale. Il bluegrass ha attinto sí dal folk, dal blues e dalla musica popolare, ma ha fondato la sua peculiarità su regole e comportamenti attinenti solo alla sfera musicale e li è rimasto, senza far entrare nel suo ambito altri fenomeni extra-musicali, non funzionali al suo essere. Ci sono stati artisti bluegrass che hanno levato la propria voce su tematiche sociali e con un impegno attivo, ma lo hanno fatto sempre mescolando anche altre esperienze sonore, cercandone di più vicine ai nuovi linguaggi giovanili che stavano per nascere sulla scena musicale.
3.3.3 Il festival bluegrass
A partire dalla metà degli anni ’60, sull’onda del revival folk e con l’impegno delle nuove leve del Nord, nacquero i primi festival dedicati unicamente al bluegrass, il vero punto di forza che permise al genere di costruire una solida tradizione in tutta la Nazione.
Questi festival e il grande consenso che ottennero, permisero al bluegrass di non cadere nel dimenticatoio o di finire quantomeno sottovalutato e inglobato nel generico stereotipo della country music e del folclore. La nascita di un vero e proprio circuito musicale indipendente fu il riconoscimento di un valore culturale, di una forma espressiva autentica che fondeva gli altri stili prettamente americani e forse la rendeva l’Americana55 per eccellenza.
Che cosa fa la differenza tra un festival bluegrass e un altro festival musicale? La prima differenza è chiaramente quella che il festival bluegrass è mono genere, mentre in altri festival la scelta musicale si presenta senza dubbio più ampia; ma la sostanziale diversità sta nel modo in cui la gente partecipa. In un festival folk o di altro genere, normalmente si va per assistere a degli spettacoli nella maniera tradizionale, passiva, si ascolta e si gode della performance degli artisti; nei bluegrass festival invece la partecipazione del pubblico ha anche una componente in più, quella attiva della musica suonata e, per chi non suona, quella della socializzazione con altri bluegrass fans. Nel 2013 ho avuto modo di partecipare al più longevo e importante festival del genere, il Bill Monroe’s Bluegrass Festival a Bean Blossom, Indiana56 e di poter sperimentare in prima persona come funziona questo tipo di manifestazione. Chi va ad un festival bluegrass, sa chiaramente di poter vedere le performance dei migliori musicisti professionisti sulla scena, ma non dimentica a casa lo strumento, cosa che feci anch’io (il mandolino nel mio caso). Allestito in un grande parco naturale, il festival ha come molti altri la sua area spettacoli con annessi punti ristoro, circondata da un ampio campeggio di tende, camper e bungalow. È in queste aree di campeggio che nascono spontaneamente dei circoli di persone dove continuamente, dalla mattina fino a tarda notte si suona in jam e dove molti dei partecipanti, non assistono neanche agli spettacoli pur di suonare con altri. È proprio la jam session la caratteristica peculiare di questa musica, perché in essa c’è l’esperienza stessa di cosa sia il bluegrass; un genere codificato da un insieme di segni musicali distintivi, che grazie al fatto di essere prettamente acustico e di avere un vastissimo repertorio di brani, può essere eseguito dovunque e da chiunque.
Questa caratteristica delle jam si tramanda dall’antica tradizione folk, dove i momenti di svago dopo una giornata di lavoro erano spesso scanditi dalle riunioni musicali dei membri della famiglia o della comunità; rituale che tutt’oggi continua con lo stesso spirito nei club, nei festival o addirittura nei parcheggi tanto da creare il termine parking lot picking. Con i musicisti di solito disposti in cerchio, viene scelto il pezzo da suonare e ognuno dei partecipanti improvvisa a turno sul tema della brano ‘passandosi il testimone’ con gli altri, per ore ed ore. Nonostante il bluegrass possa apparire come un genere chiuso in un codice monotono (come quello della strumentazione non aperta verso molti altri strumenti se non chitarra, violino, banjo, mandolino, contrabbasso e dobro), l’improvvisazione apre il campo all’estemporaneità su degli scenari imprevedibili che si tramutano in espressioni molto differenti tra loro. È un atto creativo che riflette in pieno non solo le capacità del musicista, ma anche il suo carattere, il suo personale linguaggio, rendendo una musica all’apparenza statica, piena di sorprese e voci differenti. «Whether traditional or original, extemporaneous improvisation is an immediate response to a specific situation, as a ballplayer’s action is a response to the bounce of the ball; and, like the bounce of the ball, that situation may itself be swiftly and unpredictably changing».57 Collegata all’atto creativo collettivo della jam c’è anche una socialità diffusa che ha come denominatore comune la condivisione senza pregiudizi. All’interno del festival ho avuto modo di poter suonare per molte ore in jam diverse tra loro e di essere coinvolto con simpatia ed entusiasmo dal popolo del bluegrass; da jam con intere famiglie, con giovani e anziani, uomini e donne, a jam con affermati musicisti come Michael Cleveland (1980), forse il più talentuoso violinista bluegrass vivente. Ognuno è benvenuto in questi circoli e anzi, è esortato a prendere il proprio strumento e ad unirsi al gruppo, indipendentemente dal grado di preparazione. Questi tratti distintivi sorsero spontaneamente dalla metà degli anni ’60 contemporaneamente alla nascita dei primi festivals di genere, e furono il motivo del sorgere di una nuova tradizione e di un indotto che spaziò dalla nascita di riviste come Bluegrass Unlimited58, allo sviluppo di un’industria discografica di genere, fino al proliferare dei festival bluegrass, ormai divenuti centinaia. (Continua)
41 Una jam session è una esecuzione musicale dal carattere estemporaneo, con un gruppo di musicisti che suonano improvvisando su un repertorio di temi tradizionali.
42 Smith, Can’t you hear me callin’, cit., p. 84
43 Alan Lomax, Bluegrass background: folk music with overdrive, in «Esquire» n.52, Oct. 1959, p. 108
44 Il nome Bluegrass ha sicuramente origine da quello della band di Bill Monroe, The Bluegrass Boys, ma chi e quando lo scelse come etichetta del genere non è noto. Everett Lilly (1924 – 2012) racconta in una intervista di come, durante il suo primo periodo con i Foggy Mountain Boys (1950-52) lui e Lester Flatt ricevessero richieste di eseguire “those blue grass numbers”, in riferimento ai pezzi che Flatt e Monroe suonavano nel 46-48. Neil Rosenberg, Bluegrass: A History, University of Illinois Press 1985, p. 102
45 Smith, Can’t you hear me callin’, cit. p. 115
46 Bergamini, Storia degli Stati Uniti, cit. p. 193
47 « …Now you bake right (uh-huh) with Martha White, Goodness gracious, good and light, Martha White, For the finest biscuits, cakes and pies, Get Martha White self-rising flour, The one all purpose flour, Martha White self-rising flour’s, Got Hot Rise…» Flatt & Scruggs, Martha White Theme.
48 Dal senatore Joseph McCarthy (1908‐1957), promotore di iniziative anticomuniste.
49 Bergamini, Storia, cit., pp.187-188
50 Etichetta discografica specializzata in musica folk, fondata nel 1948.
51 Trimestrale di musica folk fondato nel 1950
52 Festival di musica folk che si svolge annualmente dal 1959 a Newport, Rhode Island, Usa.
53 Guthrie portava scritto sulla sua chitarra: “Questa macchina uccide i fascisti”.
54 Banti, L’età contemporanea. Dalla Grande Guerra a oggi, cit. p.307
55 Con Americana ci si riferisce al tentativo di codifica di un macrogenere che riassuma i tratti peculiari della cultura statunitense. A questo proposito è nata nel 1999 l’Americana Music Association. http://www.americanamusic.org
56 Thomas A. Adler, Bean Blossom: The Brown County Jamboree and Bill Monroe’s Bluegrass Festivals, University of Illinois Press 2011, p. 189
57 Robert Cantwell, Bluegrass Breakdown: the making of the old southern sound, University of Illinois press, Usa 2003, p. 159
58 Rivista mensile pubblicata dal 1966 e tutt’ora edita.
Yari Spadoni, Tesi di Laurea, Università di Pisa, A.A. 2013-2014