Non abbiamo ancora azionato il registratore che la conversazione con l’armonicista canadese è già in atto, «con Fred Litwin ho pranzato qualche giorno fa, siamo ancora amici anche se non si occupa più attivamente di musica», ci dice Reddick quando gli chiediamo notizie del fondatore della sua precedente etichetta, la Northern Blues. Siamo al milanese Teatro 89, prima del suo bel concerto, accompagnato dalla sezione ritmica dei liguri Gamblers e dai due chitarristi dei conterranei MonkeyJunk, Steve Marriner e Tony Diteodoro. Il concerto, come l’intervista che segue, non ha fatto altro che confermare l’originalità di Reddick, compositiva ed esecutiva, insieme ad un altro tratto distintivo che affiora nelle sue canzoni, l’(auto)ironia.
Nelle note di un tuo disco racconti di aver scoperto il blues da adolescente tramite i dischi che comprava tuo fratello.
Esatto, a dodici anni mi regalarono un’armonica e la scelta era tra suonare musica folk tedesca o blues, e beh il blues era molto più attraente. Sono stato abbastanza fortunato da poter avere alcuni dischi allora, gli album doppi di Little Walter, Sonny Boy Williamson, Muddy Waters, Howlin’ Wolf. Quella musica mi impressionò moltissimo e sapevo che avrei passato il resto della mia vita ad ascoltarla, a spese della mia educazione. Ed è un’esperienza che si rinnova di continuo. Sono ancora grato a quel negoziante per avermi consigliato i dischi. Nel periodo della mia adolescenza ho continuato a fare pratica con l’armonica e a studiare il blues, ascoltando i dischi, le note, ricostruendo la storia e procurandomi più dischi e libri possibile. Ma allora non era così facile come oggi, dove on-line si trova tutto. Cominciai a studiare il blues pre-bellico e non ho mai smesso. Non ho mai cercato di imitare troppo questo o quel musicista, speravo che sarei riuscito a trovare una mia voce, il che è piuttosto difficile se ti devi misurare con giganti quali Muddy Waters o Howlin’ Wolf. Ho continuato a provarci e non so se ci sono riuscito, mi sarei accontentato di poco all’epoca, ma in ogni caso è una fortuna aver avuto il blues nella mia vita e il mio impegno verso di esso e verso l’armonica non è cambiato. Altre cose nella vita sono cambiate, il luogo dove abitavo, le donne, i lavori…ma non il blues e la famiglia.
Hai avuto modo di vedere dal vivo alcuni bluesmen?
Ho cinquantacinque anni e se fossi stato cinque anni più vecchio sarei riuscito a sentire Howlin’ Wolf. A Toronto c’era un bar dove ogni tanto suonava lui o altri musicisti di Chicago. Vidi un paio di volte Muddy in un teatro e poi James Cotton, Buddy Guy, Sonny Terry, Junior Wells, Koko Taylor. Ricordo bene anche Honeyboy Edwards e Homesick James, Cleanhead Vinson, Luther Johnson. Cominciai a sedici o diciassette anni ad andare ai concerti e in quel periodo da Chicago venivano spesso a Toronto, molto più di quanto non accada ai giorni nostri.
Eppure la tua musica non risente molto del Chicago Blues.
Perché il mio tentativo è sempre stato quello di fare qualcosa di diverso, spostare un po’ più in là le convenzioni. Se poniamo che lo standard sia alle dodici, io cerco di spostarlo, diciamo verso le cinque, è ancora fondata sul blues, non è musica sperimentale, solo che non sono mai stato bravo a copiare qualcun altro. Non sono il tipo di armonicista tradizionale che sa riprodurre esattamente quello che faceva Little Walter, ci sono musicisti che ne hanno fatto una religione, una bella religione devo dire, ed anche io ho amici che lo fanno benissimo, anche a livello di attrezzatura, microfoni e quant’altro. Ma appunto non è mai stato il mio obiettivo, sentivo l’esigenza di essere originale ed è una sfida che mi accompagna ancora. Per diversi anni ho avuto una band, The Sidemen, e quando abbiamo scritto i nostri pezzi, abbiamo cercato di combinare elementi differenti. Credo di aver capito presto che ognuno tende a scrivere in modo idiosincratico e caratterizzato da componenti personali.
Quando ha avuto origine il gruppo?
Nel 1991. Avevo ventisette o ventotto anni, avevamo molto successo in Canada. Era una fase in cui il blues poteva attrarre un pubblico più giovane, ed in effetti tra la gente della nostra generazione avevamo un buon seguito. Siamo ancora amici e suoniamo insieme ogni tanto e collaboro ancora a livello di scrittura con Kyle Ferguson, il chitarrista della band. Ogni anno facciamo un concerto di reunion e il club è strapieno, siamo la tribute band di noi stessi! Scrivere canzoni per me è un po’ come comporre un collage, un accostamento di influenze, il blues pre-bellico, forme di poesia, qualcosa che riecheggia il blues e riesce ad evocare un’atmosfera blues. Mi piace anche lavorare sulle parole, sulla forma poetica, come ho fatto ad esempio per Villanelle. E’ un processo che non sempre funziona e comporta dei rischi, per questo è importante il contributo dei musicisti e del produttore.
Hai lavorato più volte con Colin Linden.
Con Colin ho lavorato per tre, anzi quattro dischi. Lui è un chitarrista e produttore fantastico, di origine canadese, anche se da anni vive a Nashville. Ha suonato con tantissimi musicisti tra i migliori in circolazione, è stato anche nel gruppo di Bob Dylan per un po’ ed era coinvolto nella colonna sonora di O Brother Where Are Thou?. Negli ultimi due dischi ho invece collaborato con un altro Colin, Colin Cripps, che ha una band chiamata Blue Rodeo ed è a sua volta un produttore brillante. Entrambi conoscono musicisti che possiamo utilizzare nelle registrazioni e che giocano un ruolo decisivo nel dare vita alle canzoni. Non suonando la chitarra dipendo da una band, o almeno da un chitarrista, anche quando suono da solo ho bisogno di un chitarrista.
Hai registrato inserendo strumenti differenti, cosa guida le scelte degli arrangiamenti?
A volte è una questione di opportunità che si presentano, penso a quando ho registrato con una brass band o solo con una sezione fiati e la batteria, ai tempi con Linden. Ma di base uso chitarre acustiche ed elettriche, basso e batteria, e poi le tastiere, ma non sull’ultimo disco. Dipende anche dai musicisti che incontri e con i quali vuoi suonare, questo influisce sul lavoro in fase di scrittura e sul colore che finiscono per assumere i brani.
Hai una tua band o preferisci cambiare di volta in volta?
Per le incisioni in studio mi piace avere un gruppo, come per l’ultimo disco, Ride The One. Di questi tempi però, viaggiare è costoso, se suono in giro per il Canada porto con me solo il mio chitarrista e dispongo di una sezione ritmica in cinque o sei città diverse. Stessa cosa qui in Italia. Il prossimo passo sarà ingaggiare qualcuno che impersoni me stesso, così posso stare a casa. Per i dischi realizzati con Linden, la situazione era simile, nel senso che abbiamo utilizzato musicisti di Nashville, oltre a Colin stesso, musicisti eccezionali che però non potevano venire in tour con me, dunque quelle band non esistevano in quanto tali al di fuori dello studio. E quando lo abbiamo suonato dal vivo, con altri musicisti, quel materiale ha continuato ad evolvere. Per il nuovo disco che inciderò prossimamente, dovrò forse cambiare la sezione ritmica perché la mia bassista Anna Ruddick sta per avere un bambino, probabilmente dovrò ingaggiare qualcun altro e questo finirà per modificare il suono.
Avevamo apprezzato Ride The One, un disco davvero coeso e particolare.
La premessa di quel disco era di avere la maggior parte delle canzoni costruite su un solo accordo, un groove alla maniera di John Lee Hooker o Bo Diddley. Avevo sempre voluto fare un disco del genere, ma il rischio di annoiare c’era, sebbene la ripetizione sia una parte costitutiva della costruzione sonora. Abbiamo lavorato su groove differenti e devo dire che il batterista, Derek Downham è stato molto bravo a trovare la giusta dose di aggressività. Nel prossimo disco potrei continuare ad esplorare questo tema, forse in toni più tranquilli, questo era quasi tutto elettrico. Vedremo.
Come è nato il tuo coinvolgimento nell’istituzione del Cobalt Prize per la scrittura?
E’ un tentativo di affrontare il fatto che il pubblico del blues sta invecchiando e l’aderenza ad uno stile tradizionale abbia finito talvolta per limitarlo ancora di più. Non c’è nulla di male in questo, ma la mia idea è che si possa usare il blues come una tavolozza e dipingere a partire da essa. E’ difficile esprimere la creatività, non vorrei dare l’impressione di voler dire fate questo o non fate quest’altro, il premio vuole essere un incoraggiamento ad osare, ad essere creativi, a non ricadere in strutture consolidate. Forse è un’idea sciocca ma credo che possa incentivare i giovani a provarci. A qualcuno è piaciuta e quindi lo abbiamo istituito, siamo al quarto anno e ci sono circa un centinaio di artisti che inviano la loro musica. Io le ascolto tutte ed è un processo molto interessante, c’è una giuria di tre persone che determina il vincitore, ma io non ne faccio parte, cerchiamo di coinvolgere tra i giurati persone diverse, giovani e meno, musicisti e non, che abbiano prospettive diverse. Poi durante i Maple Blues Awards viene proclamato il vincitore.
Hai menzionato più volte il tuo interesse per il blues pre-bellico, hai persino dedicato una canzone a Sleepy John Estes.
Mi ha sempre affascinato quel periodo, diciamo fino al 1941 più o meno, una sorta di età dell’oro del blues, Robert Johnson, Bukka White, Son House…tutti musicisti incredibili, le differenti tradizioni regionali, Mississippi, Georgia…ognuna con una sua specificità. Poi è finito tutto o è diventato meno rilevante ed è poi ripreso col Chicago Blues. La scrittura era molto interessante, il modo in cui lavoravano con le parole è una fonte d’ispirazione per me, così come le field recordings raccolte da Alan Lomax, suonano fresche, nuove, piene di potenziale. Mi piace molto anche il blues elettrico e il rock’n’roll. In fondo la scrittura blues resta almeno in parte un mistero, non amo controllarlo troppo, non funziona altrimenti.
Ci sono artisti contemporanei che ti interessano per la scrittura?
Alcune cose dei Black Keys mi sembrano valide, anche se sembrano muoversi in direzione della pop music, Jack White o i fratelli Dickinson, Gary Clark Jr. o Robert Cray…ma con la distribuzione attuale è davvero difficile conoscere tutti, è strano ma magari ti capita di ascoltare per caso una gran canzone blues su spotify di uno che non hai mai sentito e mai sentirai dal vivo. Magari ad altri è successo con la mia musica! Il blues continua ad evolvere e a muoversi.
Cosa pensi dei musicisti che registrano fedelmente in acustico blues pre-bellico?
Ci sono approcci differenti, ognuno dei miei dischi è diverso, forse perché non ho una buona memoria! Si potrebbe argomentare sulla singolarità di ogni performance, l’interpretazione, come nella musica classica e non voglio essere troppo critico su chi suona blues tradizionale, anche perché nella grande maggioranza dei casi i musicisti che scelgono di suonare così lo fanno per amore verso quel tipo di musica. La gente apprezza il blues in vari modi. Io non faccio molte cover, a volte canto Wichita Lineman, che non è nemmeno un blues, ma è molto bella. Una volta ho registrato Train Of Love di Johnny Cash e mi è piaciuto molto. Così come ci si può divertire a suonare Robert Johnson. Certo in genere c’è meno creatività, io preferisco anche da ascoltatore sentire Skip James che suona Skip James, che non qualcuno che lo imita. E’ lo stesso tipo di rischio che affrontano le band che ripropongono il Chicago Blues degli anni Cinquanta.
Come descriveresti la scena blues canadese? Ci sono etichette storiche come Stony Plain o Electro-Fi e musicisti originali, come te o Julian Fauth.
Il Canada ha beneficiato del fatto di essere abbastanza vicino agli Stati Uniti da essere molto influenzato dalla sua cultura, come il resto del mondo a dire il vero, ma da conservare allo stesso tempo una voce unica. E un modo di suonare distinto. E’ un paese molto vasto, nell’Ontario, dove vivo c’è una certa vivacità riguardo al blues, come anche nelle regioni costiere, ciascuna con la sua specificità. Dagli anni Settanta c’è stata una scena blues, a volte improntata su una musica post-Stones molti di quei musicisti sono ancora attivi. Si sono formati musicisti più giovani di grande interesse, tradizionalisti o meno. Ma la vera domanda è dove suonare, perché quando ero più giovane a Toronto c’erano due o tre bar blues e ora non ci sono più. Quando suono a Toronto lo faccio ad un bar di roots music, a volte non si paga l’ingresso, c’è una tip-jar, quindi è più o meno come mendicare soldi. Perciò l’unico modo per sopravvivere è fare tour e riuscire a suonare in qualche festival. In ogni caso fare un tour nei club è difficile e non rende molto. Nessuno compra più i CD, le riviste chiudono o diventano on-line e quindi è una sfida per chiunque vivere facendo il musicista, di qualunque genere all’infuori della musica commerciale. Soprattutto se non si hanno attività collaterali come l’insegnamento, le cose sono davvero complicate, ma ci sono ancora persone abbastanza folli da farlo lo stesso. Parlo per esperienza, la mia ex moglie mi diceva, «tu sei un artista, ti interessa solo la bellezza», lo intendeva come una critica ma a me non dispiaceva affatto. La cosa positiva è che oggi un musicista ha a disposizione con molta più facilità un catalogo sterminato.
Fai solo il musicista?
Ho svolto diversi lavori ma mai per troppo tempo e negli ultimi anni ho vissuto solo di musica, i miei figli sono grandi, ho venduto la mia macchina e la casa, vivo in un appartamento più piccolo in modo da potermi permettere di fare il musicista. E non posso lamentarmi, visto che sono in Italia. Non insegno perché è youtube che insegna non tu. Ho il pieno supporto della mia casa discografica, Stony Plain, sono amico di molti musicisti e di persone che si prendono davvero cura di noi musicisti.
Come è nata la tua collaborazione con Guitar Ray & The Gamblers? Hai persino prodotto il loro ultimo album.
Avevamo un promoter comune in Germania e qualche anno fa propose di fare un tour insieme una volta, con anche Roxanne Potvin. Non riuscii ad arrivare in tempo per le prove, era il periodo dell’eruzione del vulcano e delle nuvole di cenere che aveva provocato problemi ai voli. Arrivai giusto in tempo per il concerto, non avevamo mai suonato insieme, ma andò benissimo, furono impeccabili. Siamo diventati molto amici e qualche tempo dopo mi hanno chiesto di produrre il loro disco, cosa che non avevo mai fatto. Ma le cose sono andate bene, ci siamo divertiti. Ray ha qualche problema di salute, ma sono una grande band. Il lavoro come produttore mi è piaciuto, non avevo compreso il potere che ha un produttore! A parte gli scherzi, credo che la qualità migliore di un produttore sia essere invisibile. Dato che non suono batteria, basso o chitarra, non sempre riesco a dare indicazioni specifiche su di esse e in più c’è la barriera linguistica, a volte mi chiedevo se non stessi dando indicazioni offensive per loro, perché a volte si parte con un’idea astratta diversa per ognuno. Alla fine credo che la collaborazione abbia funzionato e che sia stata una bella esperienza per tutti. Da allora non ho prodotto altri dischi ma non escludo di farlo in futuro. E’ solo che conosco altri produttori che consiglierei ad un musicista di ingaggiare più bravi di me, come quando mi chiedono di suonare l’armonica ed io consiglio di chiamare Steve Marriner! (Marriner è seduto di fianco a lui e ride dell’apprezzamento di Reddick-n.d.t.).
(Intervista realizzata a Milano il 3 novembre 2017)
Matteo Bossi e Marino Grandi, fonte Il Blues n. 142, 2018