Stevie Ray Vaughan se n'è andato

Stevie Ray Vaughan se n’è andato. La sua mitica Number 1, la Strato con la cassa divorata dagli anni, rimarrà silenziosa.
E ironicamente tutti penseranno alla fatale overdose o al cedimento di un fisico stremato dalle droghe e dall’alcool mentre la causa è solo una delle tante fatalità della vita. Si era disintossicato, infatti, ormai da un paio d’anni e assaporava il piacere sottile di vivere e suonare lucidamente, senza dover guardare il mondo attraverso una eterna cortina di nebbia o il pericolo costante di cadere di nuovo da un palco.
É caduto, invece, l’elicottero che lo trasportava assieme ad uno dei manager di Clapton con cui era in tour e i giochi sono finiti in un attimo. In una intervista di due anni fa, ad una domanda su Hendrix, aveva risposto: “C’è una grande menzogna in questo business musicale: che sia o.k. andarsene fra le fiamme. Io non credo che questo possa servire a nessuno”.

Siamo d’accordo. Inutile ricordare come Stevie Ray sia stato forse il primo, all’inizio degli anni ottanta, a riportare il blues alla ribalta, con l’ausilio di una grande stima da parte dei suoi colleghi musicisti e del pubblico. Texano, fratello minore di Jimmie dei Fabolous Thunderbirds, fu praticamente scoperto durante una fortunata esibizione al Festiva! di Montreux da Bowie che ne immortalò la chitarra nei solchi del suo Let’s Dance; con il suo primo album, Texas Flood, e soprattutto il successivo Couldn’t Stand The Weather, diventò guitar-hero (ma lui non si considerava tale, si “divertiva semplicemente a suonare la chitarra”) per un pubblico piuttosto vasto, grazie anche all’efficace interpretazione di classici di Hendrix come la celeberrima Voodoo Chile.
Diceva dei blues-men che avevano influenzato il suo stile: “Sono loro che dovrebbero finalmente avere dei riconoscimenti. Sono stati pionieri ed innovatori, e per questo meritano rispetto”. Jeff Beck, con cui aveva diviso di recente un lungo tour, ha dichiarato: “…credo che Stevie rappresenti l’attuale ‘stato dell’arte’ del blues. Non c’è nessuno che abbia quel timbro e la ‘cattiveria’ che c’è dietro”.

Stefano Tavernese, fonte Chitarre n. 55, 1990

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