Sun Records

Quando ero ragazzo, Dio solo sa quanto tempo è passato, i dischi a 45 giri ‘americani’ arrivavano in Italia con tante etichette diverse. London, RCA, Mercury, Columbia, Voce del Padrone, Capitol erano le più importanti, con la maggior parte dei cantanti e dei gruppi che contavano davvero. Ma non c’erano solo quelle che, più tardi, sarebbero state definite major; penso alla Heliodor, per esempio, che distribuiva i grandissimi Everly Brothers, alla Chancellor che aveva in scuderia Frankie Avalon, Fabian e Joe Damiano, alla Top Rank che a dire il vero ci dava dentro perlopiù con gli inglesi come Craig Douglas e Gary Mills (sfido chiunque di voi a ricordarsi chi fosse) o alla Roulette con Ronnie Hawkins e Alfy Weatherby (idem come sopra).

Della Sun Records, con la sua bella etichetta gialla, non c’era traccia eppure, più o meno negli stessi anni, aveva già ospitato gente come Jerry Lee Lewis, Johnny Cash, Roy Orbison, Carl Perkins e, naturalmente, Elvis. Non che questi grandi del r’n’r non girassero sui nostri piatti frementi: solo che arrivavano sotto mentite spoglie, nel senso di altre etichette.
Molto tempo dopo, a forza di leggere i primi libri sulla storia del rock, sono venuto a conoscenza di cosa era e di cosa aveva significato la piccola label di Memphis e per me è diventata un mito.

Quando, pochi anni fa, ho preso un’auto in affitto e da Nashville sono arrivato a Memphis, al 706 Union Avenue davanti a quella piccola casa d’angolo, dove in alto c’è stampato il mezzo sole e il galletto di profilo, un groppo in gola ha sorpreso e stravolto il mio innato cinismo. Sono rimasto lì col naso all’insù e la bocca aperta come uno scemo per un bel pezzo, poi mi sono accodato a una decina di altri appassionati che stavano comprando il biglietto per visitare la sala d’incisione dove è stato costruito un bel pezzo della storia del r’n’r.

Dire di essere rimasto deluso è troppo, certo che appena entrato in quella stanza grande come il salotto di casa mia mi son detto “tutto qui?”. Mi è sembrato impossibile che in quei pochi metri quadri al piano terra fosse successo tutto quello che è successo. E quando il cicerone di turno ci ha mostrato il pianoforte dove si era seduto Elvis, contornato da Lewis, Perkins e Cash, per le improvvisazioni diventate famose in una registrazione pomposamente definita Million Donar Quartet o il microfono (tenuto insieme dallo scotch) col quale sempre il re aveva inciso roba come That’s All Right e Blue Moon Of Kentucky o lo sgabello dove aveva poggiato le chiappe Scotty Moore o l’ufficietto dove Jerry Lee era entrato con suo padre Elmo e, con l’arroganza che lo ha sempre contraddistinto, aveva chiesto a Sam Phillips di incidere dischi perché lui era il migliore, beh, le extrasistoli hanno cominciato ad andare a mille.

Il cicerone parlava a macchinetta come un qualsiasi venditore porta a porta di enciclopedie, se gli avessi rivolto una domanda sarebbe andato in tilt e avrebbe ricominciato daccapo, così ho smesso di ascoltarlo e mi sono immaginato tutto ciò che avevo letto sui libri. Ho visto il camionista di Tupelo che prima di cantare si ravviava i capelli unti col pettinino, ho visto il pazzo biondo di Ferryday, sprizzante ormoni da tutti i pori, aggredire la tastiera come fosse una donna in calore, ho visto il ragazzo di campagna dalla faccia larga, timido e sorridente, cantare Blue Suede Shoes, ho visto il brutto anatroccolo miope, grassoccio e con le mani sudate attaccare le prime note di Ooby Dooby e il boss, al di là del vetro, che, dopo anni di blues nerissimo, si fregava le mani, felice di aver trovato finalmente il filone giusto.

Ero talmente preso dal mio film da non accorgermi che la visita era finita, non mi restava che accettare l’invito di accomodarmi al piano di sopra dove è posizionato un piccolo shop e dove ho comprato di tutto: dalla maglietta al giubbotto di panno, all’orologio, alle tazze, ai CD, ai libri, ai souvenir più kitsch e improbabili. D’altro canto come avrei potuto resistere?

Alberto Tonti, fonte JAM n. 77, 2001

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