Inlaws – Six Pack, Willie Nelson, Waylon Jennings… & us

Il gruppo degli Inlaws nasce dall’esigenza dei nostri di far rivivere lo stile dei loro eroi (Willie Nelson, Waylon Jennings, Billy Joe Shaver, Merle Haggard, Hank Williams Jr., David Allan Coe e Johnny Cash) e la prima formazione come quintetto comprende Allen Cash (chitarra), Tommy T. Coe (voce e chitarra acustica), Mark Patrick Nelson (chitarra solista, dobro e lap steel), Shun Jennings (voce e basso) e Jerry Jack Paycheck (batteria) e non possiamo esimerci dal rilevare che la curiosa ricorrenza di cognomi dei cinque risulta quanto meno sospetta (stiamo approfondendo la questione).
Lo scopo è quello di far sapere al mondo che la musica dei loro idoli è viva e vegeta, anche se tutto questo accade all’insaputa delle radio commerciali, che si ostinano ad ignorare questo tipo di espressione musicale.

I componenti degli Inlaws provengono dall’Alabama e dal Tennessee, ma hanno eletto loro domicilio la minuscola cittadina di Hemphill, Texas, dove l’anonimato è una benedizione ed il ‘Texas way of life’ è tutt’ora fonte di ispirazione. La capacità di scrivere canzoni che parlano di honky-tonks, di una vita fatta di parties e di relazioni sentimentali ‘poco durevoli’ (mi si perdoni l’eufemismo) deriva dall’esperienza di estenuanti tours e da una vita fatta di pane ed una boccia di liquore di bassa lega.
La capacità di non prendersi troppo sul serio ha sviluppato nel gruppo un’abilità notevole nell’entrare in sintonia con il loro pubblico ed ha loro permesso di costruirsi un nutrito pubblico in tutto il Sud ed il Sudovest degli Stati Uniti.
Il 1997 segna il debutto discografico del gruppo sotto l’egida della Low Rumble Records di Tuscaloosa, Alabama, con un mini-cd stampato a tiratura limitatissima dal titolo Six Pack, quanto mai significativo ed all’insegna di una sete insaziabile per tutto quanto possa presentare una ragionevole gradazione alcoolica. Si tratta di solo sei brani, per poco più di un quarto d’ora di musica, ma la loro versione del classico a firma Willie Nelson/Waylon Jennings I Can Get Off On You diventa subito un piccolo hit locale.
L’assunzione di eccitanti vari e l’ingerimento di incredibili quantità di alcool diventa una filosofìa di vita (non solo a livello compositivo) per i membri degli Inlaws, che ne fanno una sorta di loro bandiera, ben esemplificata in un altro dei loro brani-manifesto, Thank God For The Pills, brillante up-tempo vagamente rassomigliante alla versione di Gram Parsons del classico dei Louvin Brothers Cash On The Barrelhead.

Il CD di esordio si apre comunque con un breve brano strumentale che rappresenta un po’ il loro biglietto da visita, Inlaws Theme. Si tratta di un indiavolato e velocissimo country & western, che ricorda vagamente Long Hard Ride della Marshall Tucker Band, per quel suo incedere epico, ma quando si ascoltano gli Inlaws bisogna sempre tenere ben presente che non bisogna prenderli troppo sul serio.
Un altro paio di ‘drinking songs’ fanno bella mostra di sé nei solchi di questo mini CD: Up Comes The Bottle (a firma Conway Twitty) e Corn Liquor, piacevoli esercizi in perfetto stile Texas-country, eseguiti con pulizia e grinta da vendere (specie l’inarrestabile Corn Liquor) ed anche se le prestazioni vocali non sono eccelse, è comunque più che apprezzabile lo sforzo interpretativo corale.
Conclude l’analisi di questo simpatico dischetto la presentazione di This Ol’ Woman Of Mine, composta da Shun (Jennings?) e Mark Patrick (Nelson??), che però non va oltre la qualifica di ‘filler’.
Piacevolmente rincuorati dall’affluenza di pubblico ai loro shows ad elevato tasso etilico, i nostri ragazzi, che nel frattempo hanno perso per strada Allen (Cash?), il 17 Gennaio 1998 registrano lo show che tengono al club ‘The Nick’ di Birmingham, Alabama, ed ecco che vede la luce il CD Lethal Injection, anch’esso a tiratura limitata e la vendita del quale è limitata ai concerti del gruppo. Si tratta di circa cinquanta minuti di musica ad alta gradazione alcoolica, distribuiti su ben sedici brani, ripartiti fra covers e brani originali.
Apertura di rito per Inlaws Theme, carica e grintosa come sempre, per passare a On The Blow Again, evidente parodia del classico di Willie Nelson On The Road Again.
Le note di copertina sono praticamente inesistenti e quindi dovremo arrangiarci alla meno peggio per rintracciare qualche informazione sui brani.
Proseguendo nell’ascolto troviamo un palo di ‘drinking songs’ a firma Merle Haggard e più precisamente Drink Up And Be Somebody e Skid Row, che rappresentano due approcci diametralmente opposti al vizio del bere.

Direttamente dalla fortunata serie televisiva The Dukes Of Hazard e dal repertorio di Waylon Jennings, arriva poi la sigla omonima, qui riproposta in perfetto style ‘outlaw-country’.
Niente di nuovo a livello lirico rappresenta Up Comes The Bottle, mentre il contenuto musicale è perfettamente in sintonia con la serata. Sana ed epidermica country music, proposta – o piuttosto imposta – al pubblico con la convinzione di chi ne vive i testi in termini di quotidiana normalità (se di normalità possiamo parlare, riferendoci agli Inlaws).
E’ poi la volta di ‘scomodare’ un’altra icona del Texas country: George ‘Possum’ Jones, qui chiamato in causa con due brani da lui portati al successo negli anni ’60, The Race Is On e White Lightnin’, tutt’altro che sorpassati, visto che la versione più recente di queste due canzoni è stata incisa dallo stesso Jones nel 1991.
In clima di rivisitazione dei brani che hanno creato un genere musicale, ecco I’m The Only Hell My Mama Ever Raised, con il quale Johnny Paycheck ebbe un buon successo all’epoca. La carica emotiva c’è tutta, forse anche un poco enfatizzata dall’atmosfera del concerto e dalla volontà del ragazzi di apparire quanto più ‘rough and rowdy’ possibile.
l’ve Always Been Crazy proviene dal repertorio di Waylon Jennings del 1978 ed era originariamente compreso nell’omonimo LP, che detiene a tutt’oggi l’invidiabile primato di essere stato il primo album a debuttare in classifica delle vendite al # 1.
Rilettura molto fedele all’originale anche in questo caso, i ragazzi del gruppo si confermano un’ottima cover-band, anche se ancora immatura in termini di maturità compositiva propria, ma non dimentichiamo che si tratta dell’inizio della loro carriera.

Un paio di tributi – doverosi – anche per un altro ‘outlaw’ onorario: David Allan Coe. Anche se David è nato ad Akron, Ohio, egli si è sempre sentito parte integrante del movimento alternativo di quella fascia di Texas country music che ha eletto Austin quale sua capitale e che fa capo a Willie e Waylon.
Dal repertorio di David Allan Coe sono tratte infatti Jack Daniels If You Please (poteva mancare in un CD degli etilici Inlaws?) ed il classicissimo Willie, Waylon And Me, dove si cerca di fare il punto di una certa scena musicale statunitense (almeno come si presentava nel 1977, anno al quale risale il brano in versione originale).
Di un altro grande honky-tonker quale Billy Joe Shaver viene riproposto solo un brano, quella Black Rose che i ragazzi menzionano come Waylon’s Song, probabilmente in quanto compresa nel suo famosissimo album Honky-Tonk Heroes, comprendente esclusivamente brani di Shaver (meno uno) e considerato come il primo album di Texas outlaw country.
Anche in questo caso la resa è estremamente fedele all’originale, che apriva il disco di esordio di Shaver, quel Old Five And Dimers Like Me del 1973. E’ poi la volta di un paio di brani originali, il novello classico Thank God For The Pills, che celebra in maniera ironica le beatitudini dei paradisi artificiali, e Why Don’t We Drink, perfetto brano-simbolo della filosofia degli Inlaws ed altrettanto impeccabile esecuzione in stile Texas outlaw.

Chiude la rassegna un’ultima cover, questa volta a firma Dick Feller e Jerry Hubbard, quest’ultimo meglio conosciuto come Jerry Reed, chitarrista ed attore. Il brano, East Bound And Down era originariamente compreso anche nella colonna sonora del film Smokey & The Bandit (1977), dove lo stesso Jerry Reed recitava al fianco di Burt Reynolds.
Se da un lato non possiamo gridare al miracolo, dall’altro rimane inoppugnabile che ci troviamo di fronte ad una grande partyband, in presenza della quale il divertimento è assicurato. Doveroso aggiungere inoltre che, per quanto l’approccio degli Inlaws (già il nome scelto dal gruppo la dice lunga circa il loro senso dell’ironia nei confronti del Texas outlaw country) sìa sicuramente da non prendere troppo sul serio, l’omaggio ai grandi texani è sicuramente rispettoso ed orientato alla massima considerazione.
Alla fine dello stesso anno (1998) esce, sempre per l’etichetta Low Rumble, il primo album registrato compiutamente in studio (come i CD veri!) e dato il numero dei brani ivi compresi, viene giustamente intitolato 12 Pack.
La formazione è rimasta ancorata ai quattro elementi (poco raccomandabili, aggiungiamo scherzosamente noi) che avevano firmato il precedente live, qui aiutati alla pedal steel guitar dal pard Bert Ballard. Il tiro di questo nuovo progetto fa certamente onore ai quattro ragazzi e la scelta dei brani non originali è calibrata.

La prima cover è del classico dei Louvin Brothers Cash On The Barrelhead, possibile (probabile) modello ispiratore di quella Thank God For The Pills, della quale abbiamo già ampiamente disquisito altrove.
Dal passato remoto del redneck country viene riesumato un altro inno immarcescibile, quella Redneck! compota da Mitchell Torok e Ramona Reed, portata al successo da Vernon Oxford nel 1976 e giustamente considerata come il ‘redneck national anthem’. Peraltro il testo si adatta alla perfezione alla filosofia esistenziale degli Inlaws e fra l’altro recita: “…I love them dancehall women and them rowdy honky-tonk bands/I grew up on Waylon & Willie/I was born with a six pack in my hand…”.
I brani originali sono sicuramente interessanti e ci danno una indicazione abbastanza precisa circa la maturazione ‘artistica’ dei nostri quattro amici.
Larue (Outlaw Party) è la cronaca di una delle tante feste alle quali gli Inlaws vengono invitati a suonare (ed a bere). La musica ruota attorno ai cliché dell’honky-tonk country texano più tipico, con una solida sezione ritmica che picchia duro e tutti gli stereotipi del caso.
If Word Spread… può vantare un testo quanto meno divertente, basti citare una strofa per tutte: “If the word spread like your legs/it would be all over town”. Musicalmente parlando, siamo di fronte ad un up-tempo senza particolari pretese, ma condito da apprezzabili impasti vocali e da un supporto ritmico di tutto rispetto.
Demerol The Lights si rivela una rilassata country ballad con tanto di steel guitar e di a-solo centrale di chitarra elettrica. Il tutto ha un passo piacevole e rilassato, perfetto per un ozioso pomeriggio estivo da accompagnare con massicce dosi di birra gelata.
Fast And Easy sembra uscita direttamente da un disco dì Waylon Jennings della fine degli anni ’70 (periodo RCA, tanto per intenderci). Approccio rozzo ed immediato, ma dannatamente simpatico ed accattivante. Buona anche la prestazione vocale.
Liquid Personality parla da sola, a partire dal titolo. Canzone velocissima, in perfetto stile Inlaws, con stacchi e partenze estremamente gradevoli.

I ragazzi sicuramente sono cresciuti a livello compositivo ed interpretativo e sono riusciti a crearsi un sound riconoscibile, pur nell’ambito di un filone piuttosto affollato. Bello il duello delle due chitarre elettriche, una delle quali si lascia andare a divagazioni ‘twangy’.
What Is This Country Coming To? ha qualche (finta) pretesa di serietà, ponendosi domande circa la direzione nella quale stiamo andando, dove il ‘country’ in questione va inteso nell’accezione musicale del termine e non come ‘nazione’. Si tratta infatti di una ‘fotografia’ dell’attuale situazione in cui versa il filone musicale che ci interessa, con dovizia di citazioni di nomi famosi e non senza amarezza, quando ci si rende conto della disinformazione che regna sovrana fra il pubblico più giovane, che crede che Buck Owens giochi nella NBA.
Altra fonte di riflessione amara è relativa all’importanza dell’immagine in termini di marketing per la nuova country-music, un po’ sulla falsariga della canzone Party Boys di Tommy Alverson.
Giant Bryants è uno strumentale che si basa sulla tecnica chitarristica di Mark Patrick (Nelson??), che duella (non duetta) con la steel di Bert Ballard in una prova allo spasimo. Pezzo di effetto, che probabilmente anche dal vivo scatenerà molti consensi.
Whispering Pines è un’altra bella ballata tipicamente country, tutta giocata sulle atmosfere acustiche delle chitarre e ben rifinita dal cesello della solita steel, mentre il cantante celebra l’amenità dei pini che sussurrano laddove una volte c’era la fattoria di famiglia, venduta a malincuore per far fronte agli impegni finanziari assunti con le banche.
Vago rispolvero del filone delle ‘prison songs’ (Johnny Cash docet) per la ritmata I Made The Prison Band, che porta indelebile il marchio ‘Made in Inlaws’.
Stesso discorso per la conclusiva I’ll Quit Tomorrow, gratificata da una grintosissima performance vocale e tutta giocata sui buoni propositi di finirla una volta per tutte con il vizio del bere. Come ogni buon proposito che si rispetti, verrà però messo in pratica soltanto a partire da domani…
E’ inutile andare alla ricerca di significati reconditi nella musica degli Inlaws: è tutta qui: puro omaggio all’outlaw country texano, reso con tanta auto-ironia e voglia di divertire e, perché no, di divertirci.

Discografia:
Six Pack (mini-cd) – Low Rumble Records (1997)
Lethal Injection (Live) – Low Rumble Records (1998)
12 Pack – Low Rumble Records (1998)

Dino Della Casa, fonte Country Store n. 51, 2000

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