Vai a sapere cosa passa per la testa a certuni quando decidono di mancare ad uno degli appuntamenti più ghiotti della stagione musicoacustica 1993! Io sarò (sono) un rompicoglioni, ma mi è sembrato così stupido l’esiguo numero di presenze al favoloso concerto di Tim O’Brien & The O’Boys, e torno a ripetere che “poi non dobbiamo lamentarci quando constatiamo che nessuno considera bluegrass e country music degni di interesse commerciale”. Da noi si è più pronti a incazzarci e scrivere lettere polemiche sugli zampognari e sulle prediche di Ferretti che a dimostrare che il suddetto ha torto. Case closed.
Il concerto del 24 maggio è stato una squisita lezione di tecnica e classe da parte di tre maestri di tecnica e classe. Solo tre, ma c’era tutto tone, timing e taste a vagonate, un suono sempre pieno e mai sovraccarico, trascinante ma non incasinato, essenziale ma non scarno, caldo scintillante e pulito quasi da vergogna, e soprattutto decisamente riconoscibile per la spiccatissima individualità dei singoli e della combinazione dei loro talenti.
Degli Hot Rize abbiamo sempre amato soprattutto il ritmo, e Tim O’Brien ha saputo fare del ritmo una delle caratteristiche più salienti anche di questa band.
Ritmo fondato soprattutto sul roccioso ma variegato contrabbasso di Mark Schatz, in una grande varietà di stili (da hard-core-bluegrass-cum-slap a swing a jazz) dominati da una impressionante padronanza delle possibilità tecniche dello strumento.
Ma Schatz non è il solo a reggere il ritmo della band, naturalmente (in qualsiasi gruppo il ritmo complessivo è sempre il risultato dell’interazione dei diversi ritmi dei singoli). Scott Nygaard ci aveva stupito per l’impareggiabite virtuosismo solistico due anni fa, con Laurie Lewis & Grant Street, ma qui sono state le mille soluzioni ritmiche della sua chitarra ad inchiodarci alla poltrona, perfetto trait-dunion fra le follie (sotto controllo) del mandolino di Tim O’Brien e la solida base del contrabbasso, il vocabolario ritmico di Nygaard pare non avere limiti, da Riley Puckett a Doug Green passando per Lester Flatt e chissà quanti altri, con autorità e finezza, potenza e grazia, fantasia nella tradizione.
Del band leader credo di avere detto quasi tutto in passato, e temo di avere detto fin troppo. Qui mi ha entusiasmato (ma non sorpreso) la sua scelta di pacatezza pur nella grinta, tratto poco bluegrass e molto country, se vogliamo, e decisamente vincente nel genere di musica che Tim O’Brien sta perseguendo: tonalità che sfruttano le sonorità basse della sua voce, calda e vibrante e così diversa da quello high lonesome sound un po’ irlandese a cui ci aveva abituato con Hot Rize (e che per fortuna non ha abbandonato).
Mi auguro che Nashville sappia presto apprezzare questa notevole duttilità, e sfruttarla in un album di produzione adeguata.
E non sottovaluterei anche il notevole insieme delle tre voci: Scott Nygaard è un grande tenor naturale, in grado di proporsi da perfetto complemento per la voce di O’Brien, e Mark Schatz sa donare una perfetta base bassa (baritone) agli altri due.
Nel CD della band possiamo sentire Del McCoury e Mary Chapin Carpenter, ma sicuramente non ne abbiamo sentito la mancanza in questo concerto (oddio, non avrei protestato se ci fossero stati. .).
I pezzi scelti sono stati ripartiti abbastanza equamente fra quelli di Odd Man In e quelli del primo album ufficiale della band, Oh Boy! Oh Boy!, con una certa predilezione per le cose grintose (ovvio) ma senza tralasciare le atmosfere più soft, sognanti e, a tratti, un po’ da lacrime: un set ben costruito deve esprimere tutti i sentimenti, da triste a incazzato a innamorato perso a rievocativo (parlo di country music, mica di metallo!), e Tim O’Brien non è tipo da farsi insegnare queste cose.
Così ci ha guidati per mano attraverso un percorso fatto di Lone Tree Standing, Like I Used To Do (più “come eravamo” che nel disco, forse anche grazie ai pochi strumenti), Flora The Lily Of The West, l’incredibile Time To Learn (di triste attualità in questi giorni per molti di noi), Untold Stories quasi improvvisata su richiesta, e poi nel momento più old-timey con Run Mountain, Johnny Don’t Get Drunk/Rye Straw, e col grandioso Mark Schatz a farci divertire con un clogging da maestro, accompagnato dal solo fiddfe, con perfetto aplomb.
Tutte le atmosfere country possibili ci hanno regalato i tre, e non ci è sembrato bello che ci abbiano lasciato così presto (!!!), anche se hanno chiuso con una session con i sempre ottimi Bluegrass Staff (warm-up band della serata) seguita da una perfetta Colleen Malone.
Tim, non ci basta: la prossima volta almeno sei ore di concerto, spero…
Silvio Ferretti, fonte Country Store n. 21, 1993