Timothy Duffy

Tempo fa, impegnandomi in una ricerca sul web relativa alla Music Maker Relief Foundation, mi trovai di fronte al calendario di una mostra itinerante che avrebbe esibito gli splendidi scatti in bianco e nero di Timothy Duffy in tutto il Paese. Il nome scelto per le presentazioni era sicuramente un titolo d’effetto, ma riassumeva nella maniera più rappresentativa il progetto della fondazione: ‘Our Living Past’. Il fotografo originario di New Haven, Connecticut, ha fondato l’organizzazione no profit assieme alla moglie Denise nel 1994 a Hillborough, North Carolina, con lo scopo di aiutare i musicisti in difficoltà, nonché fungere da veicolo tra il passato, dipinto nella musica vernacolare, e la società dei nostri tempi.

Negli ultimi anni ha esposto in alcune delle case d’arte più importanti del Paese, portando il nome di Music Maker fuori dal contesto puramente territoriale, attirando l’attenzione di pubblico e istituzioni verso i programmi legati alla diffusione della cultura tradizionale. Musei, centri artistici e teatri: le sue fotografie hanno viaggiato nel Maryland, in Kentucky, Carolina, Florida, Virginia, California, mentre mostre permanenti stazionavano alla National Gallery Of Art, e al National Museum Of African and American History and Culture di Washington oltre che al New Orleans Museum Of Art. Passione e tradizione che si snodano tra il chiaro e lo scuro di scatti diventati lo specchio di volti, mani, strumenti, luoghi… tra i sentieri più remoti delle roots of America e le vite della gente ai margini di un Paese dimenticato. Il Sud, in particolare. Le immagini di Tim Duffy ritraggono quelle anime incastrate nella profondità di territori che si nutrono di una musica, il blues, radicata nelle personalità, nei costumi e nelle leggende di quei posti, ma non solo: nella cultura dell’America intera.

Le raccolte fotografiche di Tim Duffy si sviluppano su tre edizioni: la prima, We Are The Music Makers!, ritrae figure di padri e madri, zii e figli, nonni, famiglie allargate, che ancora oggi si occupano amorevolmente di cucinare e mescolare con sapienza ed equilibrio lo stufato musicale del Sud, mentre la seconda, Portraits And Song From Roots Of America, racconta una terra attraverso l’essenza stessa delle sue canzoni, dove concetti come amore, coraggio e vita, percorrono la saggezza dei secoli arrivando direttamente alle nostre anime e la terza, Blue Muse, ci mostra le ultime selezioni che celebrano i venticinque anni di attività.

Un incontro casuale con Steven Albahari, fondatore (nonché fotografo) di 21ST Editions – The Art Of The Books, la casa editrice nata con l’intento di creare un nuovo dialogo tra arte e fotografia, ha portato a una collaborazione che ha permesso non solo di stampare e pubblicare le magnifiche foto di Duffy, ma di svilupparne al massimo il potenziale. La tecnica di un tempo, utilizzata dal fotografo di New Haven, sapientemente intrecciata con moderni processi di stampa originali ed esclusivi, ha portato all’elaborazione di una delle gamme tonali più ampie nella arte grafica della fotografia: l’effetto finale è di estrema ‘brillantezza’, il soggetto pare quasi stranamente ‘vicino’ e l’inchiostro si barbica nel foglio piuttosto che appoggiarsi sopra, consentendo una profondità insolita dell’immagine.

La tecnica del TinType non prevede negativi fotografici, il materiale di partenza è il risultato stesso, si tratta di un procedimento utilizzato nel diciannovesimo secolo che a quei tempi rappresentava un’innovazione autenticamente americana. Tale processo richiede di rivestire una sottile piastra di metallo con una soluzione sciropposa contenente sostanze chimiche sensibili alla luce (un emulsione al collodio). La lastra deve quindi essere posizionata immediatamente nella fotocamera ed esposta al soggetto prima che si asciughi completamente. Proprio come i personaggi delle foto, unici nella loro singolarità e maestri nell’improvvisazione, i migliori type possono arrivare dall’effetto sorpresa: un’asciugatura troppo rapida o l’emulsione che causa increspature sulla superficie del foglio, la piastra sovraesposta o episodi del tutto imprevedibili, come successe quando il piatto di una lastra fu lasciato ad asciugare e degli uccellini pensarono bene di adattarlo a vasca da bagno, lasciando delle piccole impronte triangolari rimaste poi sulle foto.

Ogni immagine non si limita al risultato puramente tecnico, ma è come se ognuna rilevasse particolari nascosti mettendoli addirittura in evidenza. Duffy sa ben cogliere le sfumature e condurle al cospetto di un’intimità del tutto personale, fatta di ombre e luci, espressione viva di emozioni annodate ognuna a scenari e personaggi. “Le immagini di Duffy hanno una qualità senza tempo, sono eternamente una fonte di indizi che permettono di visualizzare il legame col passato. Questi ritratti, mentre perfezionano la tecnica, abbracciano e articolano l’anima dei soggetti di Timothy diversamente da qualsiasi cosa io abbia mai visto”, afferma Steven Albahari.

Una foto, se fatta bene, vale più di mille parole, si sente spesso. Racconta i fatti, i luoghi e le persone ma anche qualcosa di chi sta dietro l’obiettivo. E’ lui a scegliere il punto di vista, cosa mettere a fuoco e il momento in cui scattare. Goethe diceva: L’occhio vede ciò che la mente conosce’. Ebbene, il livello di attenzione per una fotografia di questo tipo è notevolmente più alto, perché trascende, trasporta, induce alla ricerca, accentua i legami con gli albori, si vede qualcosa che torna dal passato, che rimane nel presente e che fissa la relazione tra i due tempi della vita terrena. Il mandato di Timothy Duffy è quello di togliere la polvere che si è accumulata sulla memoria dei Padri, scovare storie acquattate tra le pieghe del tempo, tra gli sguardi, gli affetti, i ricordi e le origini di quelle persone, per portare la testimonianza di un’America a volte dimenticata. Nelle mani di Duffy tradizioni secolari trovano nuova espressione in questo millennio digitale.

Taj Mahal, dopo il suo incontro con Timothy, avvenuto più di due decenni fa, afferma che il lavoro di Tim Duffy diventa speciale non solo per la sua preziosa qualità estetica, ma per il genuino rispetto e l’autentico affetto per i suoi soggetti. “Tante fotografie di vecchi bluesmen o afro-americani sono voyeuristiche. Al contrario, Timmy, riesce a cogliere l’energia contenuta in quelle persone e a trasmetterla in un solo scatto. Duffy non calpesta mai la dignità della gente, gran parte del lavoro appartiene a persone senza nome”. Taj Mahal è tra i sostenitori più convinti di Music Maker Relif Foundation. Ha collaborato con l’associazione sia realizzando interi album insieme agli artisti coinvolti, sia registrando alcuni pezzi nei loro dischi.

Preservare il passato della musica è diventato oggi un buon affare. Etichette come la Old Hat Records di Raleigh, più volte nominata ai Grammy, esistono con la sola intenzione di ristampare pubblicazioni antiche e pressoché sconosciute. Organizzazioni come il Piedmont Council Of Traditional Music, meglio noto come PineCone, hanno fatto voto di ‘preservare, presentare e promuovere tutte le forme di musica tradizionale, danza e altre arti d’espressione popolari’.

La Music Maker Relief Foundation fa un ulteriore passo avanti, mettendosi a disposizione non solo come etichetta discografica ma anche come avamposto di assistenza. Nel corso del suo quarto di secolo di storia, l’associazione ha aiutato più di 400 musicisti, la maggior parte dei quali durante le ultime fasi della loro vita, offrendo loro un reale supporto, dando senso e concretezza a un progetto dal lodevole contenuto. Music Maker è un pozzo di iniziative: si occupa di formazione scolastica (restituendo il patrimonio musicale americano alle giovani generazioni), organizza gli archivi e ne cura la loro conservazione, dispone mostre pubbliche, programma concerti e produce dischi, arrivando a pagare fatture, spese mediche o acquistare strumenti nel caso occorra un sostegno di questo tipo.

Elargisce inoltre aiuti economici a chi si trova in condizioni di povertà cronica e borse d’emergenza per chi attraversa periodi critici. Una 501c3, così si classificano negli States le associazioni senza fini di lucro, fondata col nobile intento di preservare le tradizioni musicali del Sud prendendosi cura direttamente di coloro che ne sono i custodi, dando una mano concreta agli artisti assicurandosi che le loro voci non vengano messe a tacere dalla precarietà e dagli anni. Negli archivi di Music Maker troviamo tanti nomi e una storia della musica che abbraccia a 360° le terre americane, dal gospel delle Como Mamas (alias Ester Mae Smith, Angela Taylor e Della Daniels, insieme fin dall’infanzia nella Maria Baptist Church a Como, Mississippi) con il loro vangelo roco e duro pronto a ruggire l’amore di Dio o ad involarsi su ogni ‘Osanna’, al folk minimale figlio del primo Dylan e incastonato fra emozioni alla Towes Van Zandt di Patrick Sky, con la sua voce secca e laconica capace di commuovere come sulla meravigliosa Hannah.

Ma ancora, artisti come l’eclettico Sam Frazier Jr, from Alabama, in grado di suonare l’armonica alla pari di Sonny Boy Williamson o maneggiare il country alla maniera di Charlie Pride (rivelando in passato anche una profonda anima soul: Take Me Back ne rappresenta un luminoso esempio) che si presentò alla fondazione nel 2015: non riusciva a pagare le tasse di proprietà e fu minacciato di sfratto. Music Maker lo aiutò con una borsa di emergenza e gli organizzò vari concerti, oltre a registrare qualche pezzo. Sono passati splendidi personaggi da Hillsborough, talenti mai riconosciuti, o per sfortuna o per scelta di vita degli stessi artisti che hanno preferito rimanere ai margini, ma ciò che ha spinto la fondazione a salvaguardare il patrimonio umano e artistico di questi musicisti non è stata solo la nobiltà d’animo, ma la sincera volontà di preservare le comunità del Sud nella loro piena autenticità.

Precious Bryant veniva dalla Georgia, era un’onesta cantautrice e una meravigliosa persona. Non poteva comprarsi le medicine e a volte nemmeno cibo sufficiente: MM l’ha assunta con uno stipendio mensile, le ha organizzato tour in Europa e negli Stati Uniti, ha prodotto dischi e avviato collaborazioni con colleghi illustri. Artista talentuosa, fin da piccola si trova immersa nel mondo della musica assistendo curiosa alle esperienze del padre e dello zio: buck dance, chitarra, banjo e tanto interesse, per cominciare. “Ascoltavo una canzone alla radio e scrivevo le parole. Non mi preoccupavo della musica, quella potevo ricordala immediatamente. Tutto ciò che volevo sapere erano le parole. E così iniziai anche a scrivere”. Prima che morisse riuscì ad avere una casa nuova grazie a MM. Dolce e carismatica, come la sua musica, è meraviglioso sentirla riempire di delicatezza la bellissima Truth che dà il titolo a un prezioso album, dentro al quale si ritrovano incasellate gemme come Georgia Buck o il bollente blues di You Can Have My Husband, l’esuberante My Chaffeur e il ritmo vivo di Dark Angel. My Name Is Precious nel 2015, raccoglie le parti migliori della sua carriera.

Se vogliamo aggiungere nomi alla lista dei più spregiudicati, non si può fare a meno di parlare di Samuel Moore, classe 1939, al quale affibbiarono il soprannome di Ironing Board alla fine degli anni ’50 quando in scena a Miami e privo di un supporto per il suo organo elettrico, lo montò su un asse da stiro. Iniziò a suonare l’organo a pompa da bambino a Rock Hill, nella Carolina del Sud. Fin da adolescente si guadagnava la giornata intrattenendo i festaioli nei locali di Winston-Salem con i suoi boogie al pianoforte, e negli anni ’60 suonava come ospite fisso in Night Train, il primo programma tv di musica afro-americana. Nel tempo in cui visse a Nashville, un giovane chitarrista di nome Jimi Hendrix si unì per un breve periodo alla sua band. Poi finì a Memphis, Chicago, Los Angeles e New Orleans.

Entra a far parte del progetto di Music Maker nel 2010, quando dopo 50 anni dall’inizio della sua carriera si ritrovò a lottare per sopravvivere. L’uragano Katrina devastò la sua casa e Sam entrò in un loop di difficili salite e discese finchè l’associazione gli finanziò l’assistenza medica, diverse riparazioni di veicoli, una nuova tastiera e un trasferimento a Chapel Hill, nella Carolina del Nord oltre che diversi ingaggi: musicista per la leggendaria Blues Cruise, apparizioni al New Orleans Jazz and Heritage Festival (un gradito ritorno), allo Steel City Blues Festival e numerosi concerti in tutta la Carolina del Nord. Dopo avergli prodotto Salendo nel 2011, MM ristampa il suo The Ninth Wonder of the World of Music (registrato all’inizio degli anni ’70 in uno studio di Gary, in India), una collezione vibrante e variegata che prende il volo tra un compiacente blues elettrico e melodie esotiche, una sorta di progressive funk e ballate soul.

Music Maker lo affianca per altri 4 dischi, e dopo Double Bang, un appassionato omaggio al boogie woogie, e Ironing Board Sam And The Sticks, con una sorprendente quanto non banale versione di Summertime, si passa all’ultimo Super Spirit, prodotto in collaborazione con Big Legal Mess (in un non nuovo scambio tra le due realtà), un ottimo mix tra suoni resi moderni e il groove a combustione lenta degli anni ’70. L’idea di Super Spirit nasce dal chitarrista e coproduttore Jimbo Mathus che, assieme a un Bruce Watson sempre al posto giusto e nel momento giusto, ci fa ascoltare un artista totalmente rinnovato, pensando di costruire un’impalcatura di melodie che potesse ripulire da ragnatele e polvere il vecchio blues di Sam senza mutarne il sentimento.

Affiancato da una band d’eccezione, tra cui il batterista Barrett Martin (Screaming Trees) e il bassista Stuart Cole (Squirrel Nat Zippers), Asse da stiro Sam mastica i numeri più duri con quell’aplomb che lo ha sempre contraddistinto e si muove con tutta la sua classe nelle citazioni di vecchi brani. Splendida la versione di I Still Love You di Ann Peables, punteggiata dalla vitalità dei fiati, e magnifici i pezzi da collezione come I’m Gone di Big Amos Patton, rifatta sulle note di un piano che sviscera il sound di New Orleans o l’esplosiva I Wanna Be There dei Four Kings, intrisa di ‘vangelo’ dall’inizio alla fine. Sam si trasforma su un’eccitante I Can’t Take It (I Thin’k I’ve had It dei Gories), che non stonerebbe in una collezione del miglior pub rock inglese, e scopre il suo lato romantico underground nella languida Loose Diamonds, del ‘rocker indie’ di Memphis Jack Oblivian, che compare nel disco anche come musicista.

Eclettico e originale, non solo nelle esibizioni (basti ricordare lo spettacolo al Jazz Fest del ‘79 dove suonò in un serbatoio d’acqua da 1500 galloni), puoi vederlo passeggiare sul palco in gessato rosa a tre pezzi, elegantissimo e sorridente, arricciando i suoi sottili baffi su quel simpatico viso. Ama la sua tastiera come fosse una donna (l’ha vestita e colorata donandogli un’anima tutta sua), le sue canzoni suonano piene e la sua voce mostra gli inevitabili ma affascinanti segni del vissuto, accompagnando le note con maliziosa espressività. Questi personaggi incarnano la voglia di vivere e di suonare con disincantata letizia, esprimono emozioni sincere, sono lo spirito autentico del sud, sono coloro che non si perdono mai d’animo e vedono sempre più in là, dove brilla ancora qualcosa.

Alabama Slim, nato Milton Frazier, Vance, è un uomo alto ed elegante, affusolato nei suoi ottant’anni che ha masticato il blues fin da ragazzo suonando nei juke joint dell’Alabama. Trasferitosi poi a New Orleans negli anni sessanta, racconta di come dovette rifarsi una vita a Dallas avendo perso tutto dopo Katrina. Argomentando sui suoi ritratti che appaiono In Blue Muse, candidamente afferma: “Sono un po’ più bello lì dice che Timothy Duffy vede cose alle quali gli altri non prestano attenzione: “Sembrava che avesse colto la parte seriosa di me. In effetti quando faccio la mia musica, sono molto serio a riguardo”.

Music Maker, per lui, ha prodotto The Mighty Flood, un album realizzato da Slim con suo cugino, Little Freddie King, una miscela esplosiva di nero, sporco e vecchio blues elettrificato a dovere e pronto ad esplodere da un momento all’altro. Dischi preziosi e quasi introvabili, limitati a produzioni autofinanziate che invece sarebbero degni di un mercato più ampio, perché l’eccellenza artistica, la qualità e l’autenticità, andrebbero premiate. Chissà se un giorno potremo godere del piacere di ascoltare ognuna di queste perle sul nostro impianto. In digitale si trova tutto, o quasi.

Freddie si era già ritagliato un piccolo spazio nel ‘Musician’s Village’ di New Orleans, ma Music Maker lo sostenne quando anch’egli perse la casa dopo Katrina, aiutandolo a tornare. Gli procurò occhiali da vista e le protesi dentarie di cui necessitava, oltre a contribuire alla produzione di alcuni dischi. Fread E. Martin, così battezzato, nacque a Mc Comb, Mississippi, nel 1940, e deve il suo soprannome alla gente che lo ascoltava suonare negli anni 60 sostenendo che riuscisse a trasmettere la stessa grande forza di ‘Big’ Freddie (King).

La sua carriera ha incrociato passi con i bluesman itineranti della Louisiana, come Polka Dot Slim e Boogie Jake, dai quali ha appreso gli stili minimali, e ha calpestato le orme di Bo Diddley e John Lee Hooker imparando a partorire le sue canzoni dalle viscere, ma quello a cui potrebbe più assomigliare è il suo cuginone Lightnin’ Hopkins, dopo tre giorni di whiskey e bisbocce. Fin dal debutto con ‘Harmonica’ Williams nel 1971 in Rock and Roll Blues, disco un po’ tenuto ai margini per la sua sconvolgente accusa in Born Dead che contiene un’incredibile resoconto sul razzismo del Mississippi, Little Freddie si porta addosso l’orgoglio e la dignità del colore della sua pelle, tutta la crudezza e la passione della sua gente.

Ma lo fa con distinzione, fierezza e rispetto, principi figli della sua terra. “Le anime coraggiose che hanno collaborato con me sono cresciute ai tempi delle leggi di segregazione e ora hanno un’età importante. Hanno usato la musica per dare un senso all’odio, alla privazione, al conflitto, alla gioia, all’amore e all’assurdità di tutto ciò. La loro America non è mai stata la terra dei liberi, le loro culture sono sempre state oppresse e soffocate, eppure si sono sempre alzati cantando” afferma Timothy Duffy. La maggior parte di queste persone sono invisibili e silenziose, ma hanno vigilato sulla più grande musica che l’America abbia avuto, tant’è che “Il blues, il jazz e il gospel, continuano ad essere l’identità del sud e sono la nostra più grande esportazione musicale nel mondo” aggiunge. Artisti che divengono espressione vivente di un’eredità culturale, ricreata e riproposta da persone comuni, tramandata di generazione in generazione.

Il compianto James Boo Hanks era un chitarrista blues della Virginia rurale. In perfetto stile fingerstyle suona il piedmont come Blind Boy Furrel: “Molte persone, quando mi ascoltano, pensano che siano due chitarre perché suono i bassi e le altre corde allo stesso tempo. Dicono – amico sono due chitarre – … e io dico – no, sono unicamente io, da solo -. Rispondono – non ti credo, mi sembrano due chitarre-”. I suoi occhi sono penetranti” secondo Duffy. “La sua pelle sembra segnata da una vita difficile. Ma nel suo sguardo non c’è paura, solo amore”. Hanks era un mezzadro impoverito quando si incontrarono.

La fondazione lo ha aiutato a registrare il suo primo disco quando aveva 82 anni, e gli ha garantito un apporto mensile per le sue medicine oltre a procurargli spettacoli in tutto il mondo. Ha trasformato la sua vita. Da giovane negli anni ’40, Hanks si guadagnò da vivere accompagnando alla chitarra i balli della fattoria, con i suoi cugini che lo seguivano con mandolino e cucchiai. Il suo ricco repertorio di musica tradizionale è nel dna di un’eredità multietnica che vede antenati bianchi, afroamericani e indiani Occeenneechee. Ha suonato al Lincoln Center e in centro Europa. “Molti dei musicisti che fotografo non sono famosi. La maggior parte di essi non era nemmeno facile da trovare. Li ritraggo in bianco e nero anche se le loro vite sono state spesso definite dal colore. I loro antenati furono tra i primi ad arrivare come immigranti nel nostro paese e molti dei musicisti presenti in questo libro rivendicano una buona parte del sangue nativo”.

Cary Morin, nato a Billings, nel Montana, e trasferitosi poi in Colorado, è un corvo indiano. Morin racconta storie vivide e suggestive vestite dall’inebriante gioco delle corde della sua chitarra. Con un approccio che si colloca da qualche parte tra il country moderno, il folk, il jazz e il rock americano, con una voce che fa eco allo spirito di Lowell George, un songwriting che esibisce testi creativi, mistici, persino inquieti, connessi con la pena di un popolo e la grandezza di Madre Natura, Morin è un musicista criptico e affascinante. “Mi piace creare quadri che puoi vedere solo con la tua immaginazione”, sostiene. Mago della chitarra acustica, con il suo Cradle to the Grave del 2017 ha vinto l’Independent Music Award come miglior disco blues, mentre nel suo ultimo lavoro When I Rise, il sesto della sua produzione, Morin sperimenta elementi elettrici intersecandoli con insolite rifiniture di clarinetto, violino e pedal steel.

Dire Wolf dei Dead e Little Martha degli Allman vengono riproposte in un’interpretazione intensa e personale: la prima rallentata e malinconica diventa una triste ballata che pone l’accento drammatico su quel ritornello (non uccidermi) che i Dead facevano scorrere con leggerezza, la seconda si trasforma in una magistrale lezione di chitarra fingerpicking. Viaggiatore del mondo, pescatore di canzoni, narratore, propone un folk blues americano che include groove spinosi e pulsanti ma anche tradizione e sentimento. Duffy lo ha fotografato cogliendo tra i solchi del suo volto ciò che saliva da dentro al suo cuore, il suo spirito nativo. Music Maker ha fornito a Cary una chitarra acustica nuova, registrato la sua prima uscita da solista e lanciato la sua carriera con un lungo tour in Europa.

La convinzione che fosse importante ‘catturare’ i musicisti nei loro ambienti, spesso significava per Duffy viaggiare in aree remote del paese e girare fuori dal suo studio.

C’è molta cura nel suo lavoro, dall’utilizzo di una grande varietà di flash per essere in grado di ‘sparare luce’ di notte nonostante i bassi ISO del collodio, alla cattura di immagini che, non dimentichiamo, devono essere esposte e sviluppate in meno di 15 minuti, prima che la lastra si asciughi. “La procedura con collodio a umido fu inventato nel 1850, ma io porto avanti la tecnica usando apparecchiature di illuminazione del XX secolo e la tecnologia digitale del XXI secolo in alcuni momenti della riproduzione”. Il processo non è semplice, ogni sessione di ritratti dura generalmente dalle quattro alle sei ore: “Il servizio fotografico diventa un evento teatrale impegnativo, cosa che per fortuna piace a questo tipo di attori”, ma in alcuni casi può anche volerci molto più tempo. Fotografare Robert Finley a Bernice, per esempio, ha richiesto parecchi giorni, in parte perché per Duffy era importante includere la comunità attorno al personaggio e in parte perché voleva cogliere ogni sfumatura del soggetto nei pochi scatti a disposizione.

Siamo bravi tutti a prendere, ma facciamo in fretta a dimenticare. Elvis Presley ha preso le canzoni dei neri ed è diventato una ricca rock star”, dice Duffy ironizzando. “Può andar bene, ma ciò che vorrei fare io è mostrare da dove proviene ogni artista e celebrarlo come gli si conviene.” Robert Finley è forse uno dei musicisti più conosciuti di Music Maker. La fondazione lo ha aiutato, oltre che pagandogli le spese del dentista, facendo decollare la sua carriera attraverso l’organizzazione di diversi concerti, la produzione di numerosi video, e mettendolo in contatto con le etichette discografiche. “Una delle nostre più grandi storie di successo” esclama Duffy, ma già nel momento in cui ascoltò Robert suonare sulla strada di Helena, capì subito di trovarsi di fronte a uno dei migliori cantanti soul al mondo. Big Legal Mess e il fiuto di Watson lo lanciano col primo album da solista nel 2016, Age Don’t Mean A Thing, mentre Dan Auerbach non ci pensa troppo su quando si tratta di accaparrarselo per il secondo, lo splendido Goin’ Platinum uscito l’anno successivo.

“Eccomi alla mia età realizzare un sogno d’infanzia”, ​​dichiara Finley con il suo sorriso caloroso e affabile: “È come la mia canzone… Vedi, devi coltivare il tuo sogno, non lasciare mai che qualcuno ti dica cosa non puoi fare”.

“Chissà quanti incredibili artisti ci sono che non hanno mai registrato”, dice Duffy, “È chiaro che il blues non morirà mai all’interno della comunità in cui è nato perchè chi è cresciuto in quelle terre continua ad abbracciare le tradizioni determinato a conservarle e trasmetterle, anche se dovessero volerci 50 anni per entrare in uno studio”. Ma a quel punto serviva altro per aiutare questa gente, per riuscire a creare qualcosa che arrivasse a tutti, che mostrasse in tutta la sua pienezza la culla delle origini, una terra traboccante di suoni che aveva visto nascere il groove ancestrale della musica intera.

Tim ha così arricchito i suoi già numerosi titoli di ricercatore, studioso, produttore discografico e coordinatore di eventi, includendo la specializzazione nell’arte fotografica: mentre iniziò a registrare e catalogare il lavoro degli artisti blues e gospel del Sud, pensò alle immagini, pensò alla fotografia come mezzo per donare quel senso di infinito a una realtà viva e appassionata che rischiava di essere messa da parte. Quando Duffy stava preparando la sua tesi sulla musica vernacolare americana per un master in Folklore all’Università del North Carolina, sentì dire da ogni parte che il blues era ormai morto, quando invece proprio in quel momento stava incontrando molti tra i più grandi musicisti del genere. Iniziò così a fotografare gli artisti con cui lavorava sperimentando su vecchie macchine fotografiche e interessandosi alla tecnica del collodio a lastra bagnata, ritenendo che fosse la migliore restituzione per qualcosa di così ‘ancestrale’.

Freeman Vines da Fountain, è ritratto con le sue chitarre. Alcuni sostengono che siano state scolpite direttamente dagli alberi sui quali fu linciata la sua gente nel periodo delle leggi di Jim Crow. Vines produce strumenti interamente intagliati a mano. Duffy rimase colpito dalle sue abilità artistiche e dalla maniera in cui questo signore riusciva a regalare un’anima alle sue creature.

Un viaggio con gli occhi, con le orecchie e con lo spirito. Da queste parti c’è solo l’imbarazzo della scelta su quale senso utilizzare per primo nel lasciarsi coinvolgere da aromi, umori, atmosfere, suoni, paesaggi, volti, sguardi… Alchimie che non si ricompongono altrove.

Molte di queste persone, molti di questi artisti talentuosi, rimangono sconosciuti e Timothy Duffy ha assunto la missione di portare alla luce chi lavora nell’ombra, spesso meritevole di più grandi lodi rispetto a coloro i quali si dilettano senza impegno per il mercato o per la fama. I suoi ritratti esprimono ogni sogno, ogni pena, ogni curva e rettilineo della vita in quei volti trasognati, in sagome sgraziate, negli sguardi luminosi di ognuno dei personaggi tratteggiati nei suoi racconti, musicali o fotografici che siano.

E’ vero che il blues è particolarmente incline a questo tipo di connessione: è facile identificarlo come “espressione musicale distintamente grezza ed emarginata, per sostenere la sua cosiddetta stranezza”, ha recentemente scritto la critica Amanda Petrusich. “Il magnetismo di queste narrazioni può affascinare chiunque”, ma io specificherei non proprio chiunque, piuttosto chi possiede una segnaletica emotiva con le frecce puntate su quella musica che colpisce l’anima, chiunque abbia uno spirito pronto ad accogliere le vibrazioni che solo il blues può trasmettere. Mentre tutto il mondo trova ispirazione nella creatività di questi musicisti, le barriere di classe, razza e luogo spesso li confinano nei loro angoli, sottovalutati e oscurati. In queste fotografie Duffy chiede di osservarli, di capirli e di ascoltarli.

“In quegli scatti il tempo si ferma e creiamo una visione condivisa che rivela in profondità le anime dei miei soggetti, rendendole vive. I risultati visivi sfidano le nostre nozioni di tempo. Cos’è il contemporaneo? Che cos’è l’arcaico? Il passato è complicato per gli americani, ma la lotta non può essere sradicata distogliendo lo sguardo da esso. Che siamo sospesi nel tempo quando osserviamo questi ritratti ci osa fare i conti con il nostro passato e il nostro presente in termini di equità razziale e progresso della società.” – Timothy Duffy

Helga Franzetti, fonte Buscadero, 2020

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