Robert Cray picture

Un uomo che pretende di parlare della vita reale e di suonare ciò che gli è sempre piaciuto spiana la strada a un bel gruppo di artisti che hanno fatto e fanno del blues il loro credo.
Relativamente sconosciuto fino a poco tempo fa, negli ultimi quattro anni Robert Cray ha fatto letteralmente incetta di premi nelle assegnazioni dei Grammy Award: Contemporary Blues Artist (attenzione alla parola magica `contemporaneo’), Best Traditional Blues Recording (Showdown, con Albert Collins e Johnny Copeland), Best Foreign Or Domestic Single, Contemporary (!) Blues Album, Male Blues Vocalist (più volte), Blues Song & Entertainer Of The Year.

Come d’incanto le maggiori riviste americane lo citano nella lista dei personaggi al di sotto della quarantina che danno ragguardevoli contributi nel loro campo e viene invitato nei più prestigiosi programmi televisivi. Soddisfa alcuni dei sogni proibiti di ogni musicista suonando sul palco con mostri sacri del calibro di Chuck Berry, Eric Clapton, mentre quest’ultimo, Albert King, ed altri, incidono le sue canzoni.
Dennis Walker e Bruce Bromberg, che scrivono tuttora gran parte del materiale inciso da Cray, sono i suoi produttori fin dal primo album. Who’s Been Talking, e il bassista Richard Cousins è con lui dal ’74: qual è il segreto di questo chitarrista invidiato da tutti che arriva nei posti caldi delle classifiche pop lavorando con i collaboratori di sempre e che è riuscito a mantenere immutata la formula anche nel contratto con la Mercury/Hightone che la Polygram distribuisce in tutto il mondo?

Come al solito il successo è anche sinonimo di critiche ed ecco che per alcuni Robert Cray non è che l’espressione di un blues `candeggiato’ e ascoltano la sua musica con un’alzata di sopracciglia come fosse vino annacquato. É possibile che il personaggio non rientri abbastanza nell’iconografia blues, in cui non si è presi sul serio se non dopo un periodo preventivo di autodistruzione. Quest’uomo è troppo sano e con i piedi per terra, provenienza borghese e tutto il resto, eppure… suona. E non poco.
Lasciando da parte per un attimo la stima di colleghi famosi e mass-media, bisogna ammettere che il suo `blues anni 80′ non è solo una bella confezione, e la chitarra vibra e trasuda (suo malgrado?) umori sanguigni, forse inconsci, forse intenzionali, che arrivano comunque al bersaglio con un’eleganza costruita interamente sulla semplicità. Un suono scarno come pochi, reminiscente di tre decadi di grandi chitarristi, neri e bianchi, e una voce che venti o trent’anni fa l’avrebbe lanciato in vetta ad altre classifiche nella scia di Sam Cooke e tanti altri.

Con un gruppo che oltre al citato Cousins comprende Peter Boe alle tastiere e David Olson alla batteria (Tim Kaihatsu gli fa da spalla alla chitarra solo dal vivo), il nuovo album di Cray, Don’t Be Afraid Of The Dark, è la logica continuazione di Strong Persuader, senza variazioni consistenti nella musica o nelle tematiche dei testi, ma con un budget più alto speso nella produzione, vedi la partecipazione al sax di David Sanborn.
In tema di vendite le cifre parlano piuttosto chiaramente: 400.000 copie vendute negli Stati Uniti ad una settimana dall’uscita e il traguardo del platino quasi raggiunto al momento di comporre questo articolo.

In passato hai espresso delle riserve sulla qualità del suono ottenuta nelle tue incisioni: sei soddisfatto di quest’ultimo album?
Si, finalmente. Abbiamo utilizzato due studi diversi, uno per le basi e l’altro per tutto il resto (Sunset Sound e Sunnyland Studios, ambodue a Los Angeles, ndr).

Come è stata registrata la chitarra?
Ho usato due amplificatori, inserendo la chitarra in un Fender Super Reverb collegato a sua volta a un Twin Reverb. Nessun tipo di diretta con il mixer, ma solo microfoni piazzandone un paio a pochi centimetri dagli ampli e uno più lontano per l’effetto d’ambiente.

Ritmica e soli sono stati incisi in momenti separati?
Si. Ho preferito lavorare prima, alla base e poi preoccuparmi dei soli.

Sempre a proposito dell’album, qual è il pezzo che preferisci, che consideri più rappresentativo del tuo stile?
Penso proprio che debba essere Across The Line.

È quello con la partecipazione di David Sanborn?
No. C’è un solo di sax, ma è di Andrew Love dei Memphis Horns.

E per quanto riguarda il tuo stile chitarristico, è cambiato in qualche modo negli ultimi anni, o é rimasto lo stesso degli inizi?
Penso che il mio modo di suonare sia rimasto fondamentalmente lo stesso, anche nei solo, ma l’approccio musicale della band si è in parte modificato: mantenendo alla base tutte le diverse influenze ed interessi che abbiamo si è sviluppato molto un discorso personale, un linguaggio riconoscibile come la musica di Robert Cray e della sua band. Chitarristicamente c’è da dire che, a cominciare da Strong Persuader, il mio strumento è molto più funzionale alle esigenze delle canzoni, del gruppo. C’è forse meno chitarra dei primi dischi.

Ascoltando Don’t Be Afraid Of The Dark notavo come, nel secondo brano della prima facciata (Don’t You Even Care), il tuo solo fosse un po’ diverso dal solito, più nervoso, con qualche fraseggio veloce alla Stevie Ray.
Non ricordo perfettamente ogni pezzo del disco, ma di sicuro ogni mio solo ha qualche cosa di diverso, a seconda dei brano, dell’atmosfera.

In un’intervista di un paio di anni fa Richard Cousins e Peter Boe (bassista e tastierista dì Cray) dichiaravano che nella R. Cray Band non c’era mai tempo per provare il nuovo repertorio prima di inciderlo e che questo aveva portato a qualche insoddisfazione per album come Baci Influence, i cui brani, nati praticamente in studio, erano arrivati a maturazione solo più tardi, dopo il rodaggio dei concerti. E successo lo stesso per questo disco?
No. In questo caso abbiamo avuto tempo e modo di provare, senza problemi (ridacchia, ndr),

Anche il successo di Strong Persuader deve aver cambiato abbastanza le cose…
Certo, se calcoli l’incredibile successo di vendita che ha avuto fino ad oggi! Quando firmai il contratto con la Polygram per Strong Persuader l’accordo era che mi avrebbero lasciato lavorare come volevo per questo disco, con la mia band e Bruce (Bromberg) e Dennis (Walker) come produttori, ma se non avesse venduto un certo numero di copie avrebbero esercitato un controllo molto più stretto in futuro. Per fortuna le cose sono andate bene oltre ogni previsione.

Direi proprio di sì. Come ci si sente dopo essere passati dal ruolo di «grande speranza del blues» a quello di star del music business? Cosa significa fare ‘il blues degli anni ’80’ come alcuni giornali hanno scritto?
Non mi preoccupo molto di questo tipo di cose, anzi non mi interessano affatto. Quello che faccio è scrivere la mia musica senza farmi influenzare dal resto, e lo stesso vale per la band. Il fatto di vendere un milione di copie non ha influenzato il nostro atteggiamento verso la musica né il nostro modo di suonare. Non posso sentirmi responsabile di quello che dicono su di me.

Bruce Iglauer della Alligator Records ha dichiarato una volta: “Robert ha portato una melodia in questa musica (il blues) che molti non avevano ancora trovato. È a mezza strada tra B.B. King e Sam Cooke e si avvicina molto a quest’ultimo nel fatto di popolarizzare la musica nera presso il pubblico bianco”. Ti riconosci in questo?
Mah, non so. Credo che questa melodia ci sia sempre stata, anche se qualcuno, forse, se ne era dimenticato. Non credo di aver inventato nulla di nuovo.

Tu hai dichiarato di aver preso in mano la chitarra per la prima volta dopo aver ascoltato un concerto dei Beatles. Non pensi che la passione giovanile per un certo tipo di gruppi (vedi la cosiddetta ‘invasione inglese’ negli USA degli anni ’60) possa aver influenzato, più tardi, il tuo approccio personale con il blues, determinando in qualche modo la forma se non i contenuti della tua musica odierna?
In realtà credo che, una volta scoperto, anzi riscoperto, il blues le mie influenze siano rimaste ben delimitate all’ambito di questa musica.

In alcuni brani di Don’t Be Afraid Of The Dark è possibile avvertire un arrangiamento di taglio piuttosto attuale grazie ad alcuni tipici suoni di tastiera elettronica nella base ritmica: è una soluzione che avete cercato di proposito o è casuale?
Casuale. Nel senso che Peter, il tastierista, cercava in sala i suoni che si adattassero di più allo spirito dei brani e ciò che puoi ascoltare sul disco corrisponde ai gusti della band. Non ci preoccupiamo molto di cose come l’attualità del nostro sound, ma cerchiamo di fare ciò che ci piace.

Quali strumenti hai usato in questo disco?
Una Strato del ’64, una del ’58, e un’altra nuova, modello American Standard.

E usi anche le dita della destra oltre al plettro?
Si. A volte uso ambedue.

Quali chitarristi, dunque, ti hanno influenzato concretamente?
Ce ne sono molti, ma i principali sono B.B. King, Albert King, Buddy Guy, Hubert Sumlin, Magic Sam. Ed anche Eric Clapton e Jimi Hendrix.

Con il progredire della tua carriera negli ultimi anni devi aver vissuto più di qualche momento emozionante, a cominciare dai premi che hai raccolto (Gramrny Awards) fino alle collaborazioni con Clapton e alla partecipazione ad eventi storici come il 60° compleanno di Chuck Berry. Cosa ti è rimasto più impresso di tutto ciò?
Il fatto di trovarmi a più riprese sullo stesso palco con Eric Clapton quando, nell’86, ho aperto con la mia band i suoi concerti durante un tour in tutto il mondo. Aver suonato assieme ad Eric rappresenta tuttora il momento più alto della mia carriera. Il compleanno di Chuck Berry è stata un’altra serata emozionante per lo stesso fatto di trovarsi accanto a lui e a tanti altri musicisti che ammiro.

E c’è qualche sogno rimasto nel cassetto, qualche altro nome con cui ti piacerebbe un giorno trovarti a collaborare?
Penso che il mio sogno sia già stato soddisfatto nel momento in cui ho suonato con Eric. Ora sono molto più concentrato sulla mia band, su tutto ciò che riguarda lo sviluppo della nostra musica.

Cosa mi dici dei nuovi talenti? Hai avuto modo di ascoltare Melvin Taylor, che molti considerano un astro nascente della chitarra blues?
Non l’ho mai visto suonare. Ho un suo nastro a casa che devo ancora riuscire a sentire.

Come è nata la tua partecipazione al film Animal House?
Ero li per caso quando si trovarono con la necessità che qualcuno interpretasse il ruolo del tassista con Otis Day & The Knights, e non feci altro che farmi prestare il basso da Richard. Era tutto in playback, ma molto divertente. (Si dice che il germe dei Blues Brothers sia nato in Belushi proprio ascoltando quella band, ndr).

Continuerà dunque la collaborazione con Bromberg e Walker? Saranno ancora loro a produrre il prossimo disco?
Penso proprio di si. Siamo amici ormai da anni e lavorare con loro, come con i musicisti della mia band, significa per me trovarmi in una situazione collaudata. E i risultati, per quanto mi riguarda, sono ottimi.

Stefano Tavernese , fonte Chitarre n. 33, 1988

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