Sam Phillips era cresciuto in una piantagione, una delle migliaia del profondo Sud degli States; quando era un ragazzo, “un vecchio di colore di nome Uncle Silas Payne lo prendeva da parte e gli cantava il blues, facendo con lui quello che aveva fatto Nigger Jim (lo schiavo di colore delle Avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, nda) con Hucleberry” (Greil Marcus, Mystery Train).
Sam Phillips non è solo una delle figure più importanti della storia del rock, è anche una delle figure chiave della storia americana del XX secolo. La sua intuizione di unire lo spirito della musica nera con quella dei bianchi non diede solo vita a un genere musicale che ha rivoluzionato lo stile di vita del mondo occidentale, ma fu anche un atto civile coraggioso nel razzista Sud degli Stati Uniti d’America dell’epoca. Prima del movimento per i diritti civili, prima di Martin Luther King, Phillips mise insieme bianchi e neri, rompendo barriere segregazioniste che sembravano invincibili. Che poi lo abbia fatto essenzialmente per i soldi, è un altro discorso…
Si dice che sin dall’inizio Phillips sia sempre stato ossessionato dall’idea di trovare un bianco (che gli avrebbe permesso di uscire dai ristretti confini in cui erano costretti i dischi degli artisti di colore e quindi di guadagnare il leggendario “milione di dollari” di cui andava vagheggiando) che avesse il senso della musica di un nero. Non era con il country, che allora dominava il mercato della musica bianca, che Phillips avrebbe potuto fare i soldi. La musica country era la musica dei valori, la musica dell’arrendersi alla fatalità della vita dura: come la chiama Greil Marcus, era la “musica della confermazione”.
Per Phillips era giunto il momento di una musica che avesse saputo scardinare, invece di confermare. Aveva capito che la gente desiderava divertirsi, desiderava, almeno per lo spazio in cui poteva durare un 45 giri, abbandonare la vita dura che conduceva sei giorni alla settimana. Tranne il sabato sera, quando i giovani delle campagne venivano a ubriacarsi nei bordelli di Memphis. Era un acuto osservatore e aveva capito che una musica del genere (e la musica dei neri era divertimento, con la sua capacità di far muovere il corpo e con i suoi testi pieni di esplicite allusioni sessuali) avrebbe sfondato e lo avrebbe reso ricco.
Phillips registrava i dischi come non faceva nessun altro produttore dell’epoca: teneva le chitarre e le armoniche ben alte sul livello generale, in modo da dar loro una presenza preponderante nel tessuto della canzone. Per tutti gli altri importava soltanto la voce del cantante. E sperimentava: ad esempio amava dare alle chitarre tremoli e distorsioni.
Quando il chitarrista che doveva incidere Racket 88, Willie Kizart, fece cadere l’amplificatore della sua chitarra rovinandone il suono, invece di sostituirlo, glielo fece usare, perché gli piaceva quella sonorità sporca e rumorosa.
Un’altra caratteristica del suono di Phillips era il leggendario ‘eco’ che si avverte distintamente in tutti i singoli che Elvis incise per la Sun Records, un effetto tipo doppia voce che fu il marchio di fabbrica della Sun. Lo otteneva tenendo tutti i musicisti, cantante compreso, in un’unica stanza, a registrare tutti insieme, anche perché la Sun era… un’unica stanza. Ma anche per via di un certo ritardo con cui il suono della voce arrivava al registratore che aveva in consolle.
Ma soprattutto Phillips dava ai suoi artisti la libertà, quella che la loro vita non aveva mai permesso di assaggiare, e questa libertà totale è la cosa più significativa che fuoriesce in modo distintivo dai dischi della Sun.
Alla fine del ’55 Phillips vendette il contratto di Elvis alla RCA per 35mila dollari. Era ben lontano dall’agognato milione di dollari, ma le risorse limitate della Sun Records impedivano ai suoi artisti di imporsi sul piano nazionale. Elvis era ancora sconosciuto al di fuori del circuito locale e delle classifiche country nazionali. E aveva disperatamente bisogno di capitale.
Con quel denaro mise immediatamente sotto contratto Carl Perkins, che fruttò alla Sun Records il primo hit a livello nazionale, Blue Swede Shoes.
Smise completamente di registrare artisti di colore e si dedicò soltanto al rockabilly, quel nuovo genere che era stato praticamente inventato da Elvis e che adesso andava per la maggiore.
Ma Phillips non era un grande uomo d’affari: uno a uno perse tutti i suoi uomini migliori, come Johnny Cash, Carl Perkins e Roy Orbison. Jerry Lee Lewis rimase più a lungo, ma lo scandalo in seguito al matrimonio con la cugina minorenne mandò in frantumi il suo successo. Negli anni 60 Phillips non riuscì a stare dietro ai grandi cambiamenti della scena musicale e quando trasferì i Sun Studios nei più grandi locali in Madison Avenue perse anche la sua originalità. Ormai quasi non registrava più i musicisti, lasciando il lavoro nelle mani dei pur valenti Jack Clement e Bill Justis.
Dopo il 1965 non venne quasi più pubblicato alcun disco e Phillips era diventato un azionista della neonata catena Holiday Inn, dove stava avvicinandosi al suo milione di dollari (e anche più) più facilmente che con la musica. Nel 1969 vendette la Sun Records a Shelby Singleton e tutta l’eredità del catalogo, nei decenni successivi, si sarebbe dispersa in una miriade di piccole etichette come la Bear Family e la Rhino che avrebbero pubblicato migliaia di compilation, spesso una simile all’altra. Da allora Phillips si è quasi completamente disinteressato del mondo della musica, limitandosi a pochissime e spesso infruttuose produzioni, come quella per il cantautore John Prine negli anni Settanta.
Phillips è l’unico personaggio del mondo della musica a essere stato nominato all’interno della Country Music Hall Of Fame, nella Blues Hall Of Fame e ovviamente nella Rock’n’Roll Hall Of Fame. E, curiosamente, ha varcato l’Oceano Altantico, recandosi in Inghilterra per alcune conferenze, solo un paio d’anni fa…
Paolo Vites, fonte JAM n. 77, 2001