John Hartford

“John Hartford è grande ma non sa di esserlo, e non cercherà mai di cambiare per diventare qualcosa di diverso, perché conosce solo il ‘suo’ mondo”. (Johnny Cash)
E’ una sera d’inverno a New York e passeggiando per le strade del Village ci si trova di fronte al Bottom Line, uno dei club più cari agli appassionati di musica acustica: il nome in cartellone per stasera ci riporta per un attimo indietro nel tempo ai racconti di un’amica tornata a metà anni settanta dagli States entusiasta del country-rock e, in particolare, di un concerto della Nitty Gritty Dirt Band, allora in un momento particolarmente felice. Una delle cose che l’avevano colpita era lo show d’apertura, affidato a tale John Hartford che si esibiva suonando diversi strumenti da solo accompagnandosi anche con le mani, i piedi, e tutti gli effetti sonori che la bocca gli permetteva. Memorie più recenti mi riportano ad alcune stupende canzoni incise dai Newgrass Revival di Sam Bush e che proprio di John Hartford portavano la firma: l’incentivo mi sembra più che sufficiente ed entro per scoprire di cosa si tratti realmente.

L’atmosfera del locale è quella festosa e fumosa di uno snack di campagna, tra porzioni fumanti di pollo fritto e fiumi di birra che non tardano a scorrere anche sul nostro tavolo. Dopo una breve apertura offerta da un duo non troppo entusiasmante il palco si prepara ad ospitare il protagonista della serata, salutato calorosamente dal pubblico fino allora intento a leccarsi le dita. Introdotta dal presentatore ecco entrare in scena una figura vagamente chapliniana, vestita con un lungo frac e bombetta; ai piedi sfoggia con noncuranza un paio di scarpe da jogging di cui tra poco capiremo il perché. Infatti, senza una parola di saluto o preavviso, inizia una specie di danza o tip-tap in cui gli arti inferiori si muovono ritmicamente indipendenti dal resto del corpo, stendendo un tappeto sonoro percussivo strabiliante. Gli spettatori già esperti a questo punto sorridono della meraviglia dei neofiti mentre sul palco l’uomo-marionetta attacca una fiddle tune trascinante col violino.

Da quel momento lo spettacolo prosegue senza esitazioni fra i frequenti cambi di strumento di Hartford che passa anche alla chitarra e al banjo oltre che ai violini, portandosi dietro il pubblico soggiogato fra testi ammiccanti e divertenti, e qualche ritornello particolarmente orecchiabile da cantare insieme.
Questa è l’immagine tipo di John Hartford, musicista-poeta-cantastorie e… atleta, un personaggio difficile da descrivere perché oltre che ascoltato va visto, che sembra uscire da immagini del passato ma invece è anche attuale, perché parla un linguaggio senza età, comprensibile e godibile da tutti senza dover per questo giungere a compromessi con le proprie scelte musicali.

“Mi piacerebbe che un mio disco entrasse nelle classifiche” – dice – “perché negarlo? Ma comunque vorrei ottenerlo a modo mio: battendo i piedi e suonando il banjo o il violino”.

E chi è dunque costui? Uno stoico, un filosofo, o un contaballe? Forse tutto e forse niente: vediamo di farci un’opinione più precisa.

John Hartford: un pò di storia

John Hartford nasce a New York nel 1937 ma trascorre la sua giovinezza a St. Louis nel Missouri. Viene quindi dal Midwest da una famiglia medio-borghese (il padre era medico) e in effetti riuscirà anche a vergognarsi un poco delle sue origini cittadine visto che gli eroi musicali della sua gioventù erano tutti o quasi provenienti dal lato rurale della musica statunitense.
C’è una vecchia canzone di quel bravo ragazzo di John Denver che dice “Thank God, I’m a country boy” (“Grazie a Dio sono un ragazzo di campagna”): questa è una cosa che Hartford non poteva certo dire se non con una grossa dose di faccia tosta, e l’effetto di tutto ciò potrebbe essere stata una spinta a ritrovare sé stesso nella musica tradizionale.

I suoi parenti che ballavano square-dance e alcuni preziosi 78 giri di Tommy Jackson, Earl Scruggs, ma anche Tom Paley e Pete Seeger agiscono come catalizzatori e, a dodici anni, già si immerge profondamente nella passione per il banjo e il fiddle, grazie anche alla radio che gli porta le note del Grand Ole Opry con personaggi come Stringbean, che influenza per primo il suo stile banjoistico destinato poi ad una ulteriore evoluzione. Adesso è lui stesso a suonare per le square-dances e il suo amore per la musica è pari solo a quello per il Mississippi e i battelli a vapore che lo navigano, motivo che ritroveremo in tutta la sua produzione posteriore. Come afferma lui stesso: “Le mie due più grandi ambizioni erano di pilotare un battello e di suonare al Grand Ole Opry”. Sul fiume lavora a più riprese, sia come musicista che come manodopera mentre maturava in lui una spiccata attitudine allo scrivere versi di ogni genere che ad un certo punto prende a cantare, racchiudendo nelle canzoni quella sua filosofia peculiare fatta di semplicità ed immediatezza, del fascino del fiume e della campagna, ma non solo.

A questo punto scatta la classica molla e John Hartford, dopo opportuna riflessione, ‘impacchetta’ la moglie ed il figlio e parte alla volta di Nashville dove, grazie alla sua piacevole voce baritonale, si inventa un lavoro come disc-jockey presso alcune radio locali. Proprio la radio è un altro motivo che comparirà spesso nelle sue canzoni.

Intanto la situazione e lui stesso sono abbastanza maturi, e il nostro originale giovanotto comincia a battere il terreno proponendo le sue canzoni. Siamo a metà degli anni sessanta e a Nashville alcuni nomi fanno il bello ed il cattivo tempo nelle produzioni musicali; tra questi i fratelli Glaser, anch’essi musicisti, che rimangono colpiti dalla personalità di Hartford cui procurano un contratto con la RCA che frutta la prima incisione prodotta da Chet Atkins. Racconta Chuck Glaser: “Quando andai da John per comunicargli i nostri piani discografici mi aspettavo che come minimo si mettesse a saltare per la stanza gridando “Fantastico!” oppure “Mi stai prendendo in giro?”, invece il suo unico commento fu “OK, se pensi che sia la cosa più opportuna””.

Suo malgrado dunque (o forse no?) le sue canzoni, o meglio i suoi ‘wordmovies’, film di parole, come li chiama lui, si fanno lentamente apprezzare in tutta Nashville e nel ’67 fa il grande salto, giungendo alla notorietà nazionale con Gentle On My Mind che viene incisa anche da altri in numerose versioni (ricordiamo quella di Frank Sinatra), diventando un grandissimo successo a seguito del quale nel ’69 lo troviamo affermato come autore e ospite fisso del famoso Glen Campbell Show televisivo.

Ma i tempi continuano a cambiare e i primi anni settanta portano un’altra svolta importante quando assieme a musicisti del calibro di Norman Blake, Tut Taylor, Vassar Clements e, solo per Morning Bugle, il contrabbassista jazz Dave Holland, forma un sodalizio alquanto interessante che da come frutti il notevole Aereo-Plain e l’album già citato. La politica della band consisteva nel dare la massima importanza all’improvvisazione e all’estro personale di ciascun musicista, risultato da perseguire eliminando completamente le prove del gruppo ed incidendo i dischi sempre di getto. Per quanto riguarda i risultati, a detta dello stesso Hartford: “Era grande, ma non abbiamo fatto altro che suonare in sale vuote”.

A questo punto l’immagine del musicista e, soprattutto, il suo show subiscono l’evoluzione definitiva. Come lui stesso affermava in un’intervista per la rivista Sing Out, un giorno cominciava a preoccuparsi per la sua forma fisica e prese a muovere le gambe mentre si esercitava nella camera d’albergo prima dei concerti. Era una specie di jogging musicale che in breve tempo lo portò a perfezionare un passo o schema con cui poteva accompagnarsi mentre suonava o cantava. A quel tempo già sfruttava una tavola di compensato per batterci semplicemente il piede da seduto e il cambiamento di impostazione lo vede correre senza posa su una superficie di legno più vasta che richiede specificamente prima di ogni concerto, ‘nuova e asciutta’: ormai è diventata per lui un vero e proprio strumento musicale.

I risultati della nuova maturità non tardano ad arrivare e l’album Mark Twang nel ’76 guadagna un Grammy Award come miglior disco originale dell’anno ed ufficializza definitivamente l’immagine di Hartford come musicista personalissimo ed istintivo, capace di comunicare non solo con i testi ed i normali strumenti ma anche sfruttando opportunamente e a modo suo il pavimento, il microfono, e rendendo udibile e ‘musicale’ il suono del proprio respiro e del proprio corpo in generale. Il tutto a fare da contorno alla sua inconfondibile voce baritonale che canta, mormora, recita, emette suoni, passando da semplici melodie a filastrocche incredibili, veloci come scioglilingua. Ciò che aleggia sempre è una lieve ironia di fondo, se non altro nel tono della voce, e sembra prendersi sul serio solo fino ad un certo punto; l’uomo Hartford ci tiene comunque a puntualizzare che anche questa volta il disco è stato realizzato in assoluta immediatezza, catturando su vinile il prodotto ‘naturale’, inciso al primo colpo senza riascolti o ripetizioni.

Negli anni seguenti continua imperterrito nella sua linea passando nei suoi album da episodi solisti e ‘autarchici’ come Mark Twang (notare la citazione parallela del suono del banjo e del grande scrittore americano, altro innamorato del Mississippi), a frequenti collaborazioni con personaggi di ambito nashvilliano o bluegrass come Sam Bush, Benny Martin, Buddy Emmons, Pat Burton, Curly Sechler, i Dillards, in dischi densi di strumenti e di soluzioni musicali diverse, mischiando a seconda del momento old time music, swing, country music, pop songs e rock & roll con la propria vena creativa, in un fiume di immagini parlate e suonate.

Gli ultimi anni poi non hanno visto che confermata la sua popolarità di personaggio e musicista originale ma semplice, capace di parlare alla gente con lo spirito delicato delle sue storie e l’abilità delle sue mani (e piedi) ma soprattutto con la sua incredibile voglia di comunicare concretamente con il pubblico, quello che lo segue da sempre e quello che si guadagna nuovamente ogni giorno con le sue esibizioni. D’altronde il tempo è dalla sua parte perché il buon vino invecchiando non può che migliorare ed anche il progresso gli dà man forte, inventando cose come i trasmettitori senza fili che gli permettono di suonare in mezzo al pubblico anche nelle grandi sale ed altri congegni per amplificare opportunamente la sua ‘tavola’ tirandone fuori suoni irreali e divertenti.

Catalogue del 1981 è la sua ultima opera da ‘one man band’, dove scalpita da maestro e ci regala la solita dose di buona musica e buon umore, mentre il disco del 1984 si chiama Gum Tree Canoe ed appartiene decisamente al lato ‘orchestrale’ di Hartford. Accompagnato da personaggi del valore di Sam Bush, Mark O’Connor e Jerry Douglas fra gli altri, si può permettere infatti di tornare ad occuparsi esclusivamente del banjo, suo vecchio amore, cercando anche qualche virtuosismo, sempre molto personale come tutto ciò che fa.

“Sono fortunato di non essere abbastanza bravo da imitare lo stile di qualcun altro,” – dice – “qualunque cosa suono è sempre riconoscibile per mia, e questa un tempo per me era una grande frustrazione”.

In realtà questo vale, forse, per tutti i grandi strumentisti, che siano o meno dei virtuosi, e l’originalità di uno stile è formata anche e soprattutto dai suoi limiti.

Dei suoi pregi e dei suoi ‘limiti’ è dunque pieno anche l’ultimo album di Hartford, premesso che strumentazione ed arrangiamenti spostano in parte l’obiettivo verso i moderni prodotti nashvilliani ma anche, e senza stupire troppo, verso una certa fetta di bluegrass progressivo che ha tra i protagonisti quei Newgrass Revival che tanto spesso hanno attinto alla produzione del nostro. In questo caso spicca l’arrangiamento di No Expectations degli Stones (famosi autori di bluegrass, non li conoscete?).

Troviamo comunque molto meno pezzi originali della norma anche se l’album mantiene i caratteri hartfordiani di sempre, e se manca il familiare ritmo della sua tavola di compensato, bastano le frasi di banjo all’unisono con la voce per ricordarci chi stiamo ascoltando: l’ultimo erede forse di un’epoca che potrebbe scomparire, quella degli Uncle Dave Macon e del vaudeville, delle vecchie danze tradizionali e dei medicine-show; un musicista capace di farsi amare sia parlando del suo amore per il fiume che narrando storie di vecchie lavatrici sgangherate, di fare spettacolo e divertire da solo, con il solo ausilio del proprio corpo e dei propri strumenti. E questo non è da tutti.

Un cenno particolare meritano gli strumenti musicali usati da John Hartford.

Nel primo periodo si accompagnava solo con il banjo ed è così che appariva anche al Glen Campbell Show. Lo strumento originale era un vecchio Orpheum 5 corde senza risuonatore con cerchio da 12″, sostituito poi da alcuni membri della famiglia Mastertone della Gibson. Tutti questi avevano in comune la caratteristica di venire accordati tre semitoni più bassi del normale, in Mi aperto cioè, invece che in Sol, per meglio adattarsi all’estensione vocale di Hartford. Questo portava ad una certa alterazione delle caratteristiche tonali degli strumenti per cui, nell’ultimo album, fa la sua comparsa uno Stelling costruito apposta per le sue esigenze e denominato appunto ‘Hartford timbertone’.

Per quanto riguarda le chitarre, che non usa poi moltissimo, non si allontana dal classico modello ‘dreadnought’, che sia Martin o meno, sfruttando ambedue le tecniche del flatpicking e fingerpicking, ma senza grossi exploit.

Il suo stile di banjo non gli guadagnerebbe probabilmente un posto nella band di Bill Monroe ma è comunque personale e gli permette alcune soluzioni interessanti, specialmente nell’accompagnare il canto.

Al violino invece è un po’ più rigoroso, pur nell’originalità che quasi mai l’abbandona: alternandosi tra il quattro e cinque corde che arriva all’estensione della viola, Hartford si dimostra fiddler interessante e a volte sorprendente. La sua impostazione è decisamente bluegrass e di questo stile tende ad evidenziare la parte blues col frequente uso di slides e scale pentatoniche, ma la sua tecnica è notevole anche nell’esecuzione delle fiddle-tunes più complesse, considerato anche l’handicap del movimento continuo dei piedi.

In generale, dunque, quasi mai un virtuoso ma un ottimo accompagnatore di sé stesso, e comunque un musicista che ha saputo trovare un suo stile su tutti gli strumenti che sfrutta con semplicità ma anche inventiva e gusto notevoli.
Un ultimo appunto: la tavola è amplificata con un pick-up Barcus Berry da chitarra.

Discografia

Della numerosa discografia di John Hartford consigliamo quasi tutto meno gli album RCA del secondo periodo, un po’ sfuocati. Il primo LP è sorprendente per l’epoca in cui è stato realizzato (1967) e la freschezza che mantiene ancora oggi.
Imperdibili invece i due della band con Blake-Taylor-Clements (Aereo-Plain) e Blake-Holland (Morning Bugle). Mark Twang non è da meno ed è il capostipite della serie basata essenzialmente su banjo, violino, e… tavola, seguito da Headin’ Down Into The Mystery Below e il più recente Catalogue, ambedue di buon livello.
Per quanto riguarda gli altri, realizzati con band diverse in cui figurano spesso anche batteria e strumentazione in parte elettrica, All In The Name Of Love è interessante per il tipo di sonorità usate e la riedizione di pezzi già incisi in precedenza come la famosa Gentle On My Mind ed altre.
You & Me At Home è più particolare e scorre su atmosfere particolarmente sature di spirito anni sessanta, più o meno country, con abbondare di pedal steel e spazzole per batteria. Dell’ultimo abbiamo già parlato in precedenza e non ci resta che lasciarvi all’ascolto, augurandovi un giorno di godere questo straordinario artista anche dal vivo.

-RCA Victor LSP-3687 (1967), Looks At Life
-RCA Victor LSP-3796 (1967), Earthwords & Music
-RCA Victor LSP-3884 (1968), The Love Album
-RCA Victor LSP-3998 (1968), Housing Project
-RCA Victor LSP-4068 (1968), Gentle On My Mind
-RCA Victor LSP-4156 (1969), John Hartford
-RCA Victor LSP-4337 (1970), Iron Mountain Depot
-Warner Bros. WS-1916 (1971), Aereo-Plain
-Warner Bros. BS-2651 (1972), Morning Bugle
-Flying Fish FF-020 (1976), Mark Twang
-Flying Fish FF-028 (1976), Nobody Knows What You Do
-Flying Fish FF-044 (1977), All In The Name Of Love
-Flying Fish FF-063 (1978), Headin’ Down Into The Mystery Below
-Flying Fish FF-228 (1980), You & Me At Home
-Flying Fish FF-259 (1981), Catalogue
-Flying Fish FF-289 (1984), Gum Tree Canoe

Stefano Tavernese, fonte Hi, Folks! n. 10, 1985

Link amici

Comfort Festival 2024